La normativa in tema di misure di prevenzione personali al vaglio della Corte EDU – Nota di S. Beltrani

Nota di Sergio Beltrani

La normativa in tema di misure di prevenzione personali al vaglio della Corte EDU

(Corte EDU,Grande Chambre, 23.2.2017, Di Tommaso c. Italia)

La Corte EDU, Grande Chambre, con sentenza del 23 febbraio 2017, caso Di Tommaso c. Italia, su ricorso di un soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, ha dichiarato, all’unanimità, che vi era stata violazione:

– dell’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione EDU, che tutela la libertà di circolazione (ritenendo – a maggioranza – non sussistente la più grave violazione dell’art. 5 della Convenzione EDU, posto a tutela della libertà personale): le violazioni sono state rilevate con riferimento alla legge 1423/56, peraltro in ampia parte trasfusa nel vigente Codice delle leggi antimafia (D. Lgs. n. 59 del 2011);

– dell’art. 6, § 1, della Convenzione EDU, per difetto di pubblicità delle udienze svolte in primo ed in secondo grado.

Non sembra opportuno soffermarsi su tale ultimo profilo, avendo la Corte costituzionale (sentenza n. 93 del 2010) già riconosciuto, nell’ambito del procedimento di prevenzione, il diritto degli interessati di chiedere la pubblica udienza davanti ai tribunali (giudici di prima istanza) ed alle corti di appello (giudici di seconda istanza, ma competenti al riesame anche delle questioni di fatto, se non addirittura essi stessi all’assunzione o riassunzione di prove), ed essendo tale misura già stata ritenuta sufficiente a garantire la conformità del nostro ordinamento alla Convenzione EDU (come interpretata dalla Corte EDU a partire dalla sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia), senza che occorra estendere il suddetto diritto al giudizio davanti alla Corte di cassazione (Corte cost., sentenza n. 80 del 2011). L’odierna pronuncia della Grande Chambre riguarda fatti risalenti ad un periodo antecedente rispetto alle citate decisioni (il ricorso dell’interessato alla Corte EDU risaliva al 2009), e, non a caso, il Governo italiano aveva in parte qua manifestato l’intenzione di addivenire ad un règlement amiable.

1.     Il caso riguardava l’applicazione della misura della sorveglianza speciale, disposta in data 11 aprile 2008 dal Tribunale di Bari, ed annullata per carenza dei presupposti (in particolare, per difetto di pericolosità attuale, ed essendo stati erroneamente valorizzati a carico del prevenuto elementi in realtà riguardanti un suo omonimo) in data 28 gennaio dalla Corte di appello di Bari (§ 20 della motivazione).

2. Il ricorrente, con il ricorso alla Corte EDU, lamentava di essere stato ingiustamente sottoposto a pesanti restrizioni della libertà personale dal 4 luglio 2008 al 4 febbraio 2009 (periodo di effettiva applicazione della misura di prevenzione conclusivamente annullata), e che la lunghezza di tale periodo era dipesa dal fatto che la Corte di appello non aveva rispettato il termine di trenta giorni per la decisione (§ 96 della motivazione).

3. Secondo la giurisprudenza costituzionale (a partire dalle sentenze n. 27 del 1959 e n. 23 del 1964), le misure di prevenzione previste dalla legge 27 dicembre 1956 n. 1423 sono fondate sul principio secondo il quale l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti sociali deve essere garantito non soltanto dal sistema di norme repressive di fatti illeciti, ma anche da un sistema di misure preventive contro il pericolo del verificarsi dei fatti illeciti stessi; tale sistema corrisponde ad una esigenza fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta negli artt. 13, 16 e 17 Cost. Di conseguenza l’adozione delle misure di prevenzione può essere collegata non al verificarsi di fatti singolarmente determinati, ma a un complesso di comportamenti che costituiscano una condotta assunta dal legislatore come indice di pericolosità sociale.

Il legislatore deve perciò procedere normalmente con criteri diversi da quelli usati per la determinazione delle figure criminose e può riferirsi anche ad elementi presuntivi ma sempre corrispondenti a comportamenti identificabili obiettivamente

4. La Grande Chambre ha ravvisato violazioni dell’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione EDU sia quanto ai presupposti per l’applicazione della misura de qua, sia quanto a quattro prescrizioni che ne sono conseguite.

5. Quanto al primo profilo, la Grande Chambre, nel riconoscere che le restrizioni oggetto di doglianza avevano una base legale, ha ritenuto che l’art. 4 della l. n. 1423 del 1956 (medio temporequasi integralmente trasfuso negli artt. 1 ss. D. Lgs. n. 159 del 2011) non contenga una chiara e precisa indicazione degli elementi di fatto e degli specifici comportamenti sintomatici della necessaria pericolosità sociale e valorizzabili ai fini dell’applicazione della misura, finendo col rimettere il relativo apprezzamento alla discrezionalità del giudice, senza indicare le finalità e le modalità di esercizio di tale discrezionalità; in tal modo, le conclusive decisioni non erano prevedibili, non essendoex antechiaro a quali soggetti, ed in ragione di quali comportamenti, la misurade quapotesse essere applicata; difettavano, inoltre, adeguate garanzie da eventuali abusi (§§ 117-118 della motivazione, di seguito riportati):

117. La Cour constate que, nonobstant le fait que la Cour constitutionnelle soit intervenue à plusieurs reprises afin de préciser les critères à employer pour apprécier la nécessité des mesures de prévention, l’application de celles-ci reste liée à une appréciation prospective par les juridictions internes, étant donné que ni la loi ni la Cour constitutionnelle n’ont identifié clairement les « éléments factuels » ou les comportements spécifiques qui doivent être pris en compte pour évaluer la dangerosité sociale de l’individu et qui peuvent donner lieu à l’application de telles mesures.Dès lors, la Cour estime que la loi en cause ne prévoyait pas de manière suffisamment détaillée quels comportements étaient à considérer comme socialement dangereux.

118. La Cour note qu’en l’espèce le tribunal responsable de l’application de la mesure de prévention au requérant s’est fondé sur l’existence d’une tendance « active » de celui-ci à la délinquance, sans pour autant lui imputer un comportement ou une activité délictueuse spécifique. De plus, le tribunal a mentionné, comme motif d’application de la mesure de prévention, le fait que le requérant n’avait pas « d’emploi stable et légal » et que sa vie se caractérisait par une fréquentation assidue de criminels importants au niveau local (« malavita ») et par la commission de délits (paragraphes 15-16 ci-dessus). En d’autres termes, le tribunal a fondé son raisonnement sur le postulat d’une « tendance à la délinquance », critère que la Cour constitutionnelle avait précédemment jugé insuffisant – dans son arrêt no 177 de 1980 – pour définir une catégorie de personnes pouvant faire l’objet de mesures préventives (paragraphe 55 ci-dessus). En définitive, la Cour considère que, faute d’avoir défini avec la clarté requise l’étendue et les modalités d’exercice du pouvoir d’appréciation considérable ainsi conféré aux juridictions internes, la loi en vigueur à l’époque pertinente (article 1 de la loi de 1956) n’était pas formulée avec une précision suffisante pour offrir une protection contre les ingérences arbitraires et permettre au requérant de régler sa conduite et de prévoir avec un degré suffisant de certitude l’application des mesures de prévention.

5.1. Pur se le predette considerazioni risultano di portata chiaramente generale, riguardando l’assetto normativo interno, non mutato all’indomani dell’entrata in vigore del Codice delle leggi antimafia, la stessa Grande Chambre sembra conclusivamente riconoscere (§ 119 della motivazione) che, in concreto, il Tribunale aveva indebitamente valorizzato, ai fini dell’applicazione, una generica ed indeterminata <<tendance à la dèlinquance>>, non conformandosi ai principi da epoca risalente affermati dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 177 del 1980), a parere della quale, in particolare,

(…) va ribadito che la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione – in quanto limitative, a diversi gradi di intensità, della libertà personale – è necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sent. n. 11 del 1956). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perche la mancanza dell’uno vanifica l’altro, rendendolo meramente illusorio. Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioé, ai casi previsti dalla legge, lo si ancori all’art. 13 ovvero all’art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie di pericolosità, previste – descritte – dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell’accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata. Invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l’accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l’altro di serietà probatoria, non si può dubitare che anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità (demandata al giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti elementi di discrezionalità) non può che poggiare su presupposti di fatto previsti dalla legge e, perciò, passibili di accertamento giudiziale. L’intervento del giudice (e la presenza della difesa, la cui necessità è stata affermata senza riserve) nel procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato sostanziale (o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione giurisdizionale nel campo della libertà personale) se non fosse preordinato a garantire, nel contraddittorio tra le parti, l’accertamento di fattispecie legali predeterminate. (…) L’accento, anche per le misure di prevenzione, cade dunque sul sufficiente o insufficiente grado di determinatezza della descrizione legislativa dei presupposti di fatto dal cui accertamento dedurre il giudizio, prognostico, sulla pericolosità sociale del soggetto. (…) Al proposito, è bene accennare che, sotto il profilo della determinatezza, non è affatto rilevante che la descrizione normativa abbia ad oggetto una condotta singola ovvero una pluralità di condotte, posto che apprezzabile può essere sempre e soltanto il comportamento o contegno di un soggetto nei confronti del mondo esterno, come si esprime attraverso le sue azioni od omissioni. Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all’avvenire. Si deve ancora osservare che le condotte presupposte per l’applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione (del pericolo) che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti.

5.2. Nel caso in esame, invero, è stata, infatti, la stessa Corte di appello interna ad annullare la misura, a conferma del fatto che si discute di una misura della quale l’ordinamento interno, se correttamente interpretato, non avrebbe consentito l’applicazione, e, quindi, non di un deficit di sistema, ma di una applicazione distorta.

6. Quanto al secondo profilo, il dictum della Grande Chambre(§§ 119-127) riguarda le seguenti prescrizioni:

1) “non dare ragione di sospetti”:

le relative questioni sembrerebbero aver perso concreta rilevanza, atteso che la prescrizione non è più menzionata dall’art. 8 D. Lgs. n. 159 del 2011 tra quelle applicabili;

2) “vivere onestamente” e 3) “rispettare le leggi”;

4) “non partecipare a pubbliche riunioni”.

6.1. In ordine alle prescrizioni di”vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, la Corte costituzionale (sentenza n. 282 del 2010), aveva ritenuto che

– la prescrizione di <<vivere onestamente>>, se valutata in modo isolato, appare di per sè generica e suscettibile di assumere una molteplicità di significati, quindi non qualificabile come uno specifico obbligo penalmente sanzionato. Tuttavia, se essa è collocata nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dall’art. 5 della legge n. 1423 del 1956 e successive modificazioni e se si considera che è elemento di una fattispecie integrante un reato proprio, il quale può essere commesso soltanto da un soggetto già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, la prescrizione assume un contenuto più preciso, risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di <<vivere onestamente>> si concreta e si individualizza;

– quanto alla prescrizione di <<rispettare le leggi>>, essa non è indeterminata ma si riferisce al dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale. Nè vale addurre che questo è un obbligo generale, riguardante tutta la collettività, perché il carattere generale dell’obbligo, da un lato, non ne rende generico il contenuto e, dall’altro, conferma la sottolineata esigenza di prescriverne il rispetto a persone nei cui confronti è stato formulato, con le garanzie proprie della giurisdizione, il suddetto giudizio di grave pericolosità sociale.

Pur nella consapevolezza di ciò, la Grande Chambre ha ugualmente ritenuto che il contenuto delle predette prescrizioni non sia normativamente definito con chiarezza: da ciò consegue che la misura che ne comporta l’applicazione interferisca illegalmente sulla libertà di circolazione del prevenuto.

6.2. La Grande Chambre ha, infine, osservato che la prescrizione di”non partecipare a pubbliche riunioni” è di per sé illegittima, comprimendo illimitatamente il diritto di riunione del prevenuto; né potrebbe ammettersi che la fissazione di limiti spaziali e temporali sia rimessa alla discrezionalità del giudice, in difetto di parametri normativi che delimitino e guidino l’esercizio di tale discrezionalità.

Sergio Beltrani