Le nuove disposizioni in tema di misure cautelari – Relazione di Vittorio Pazienza

C O R T E   D I   C A S S A Z I O N E

UFFICIO DEL MASSIMARIO

Settore penale

Rel. n. III/03/2015                                                            Roma, 6 maggio 2015

Novità legislative: L. 16 aprile 2015, n. 47.  “Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravita'”.

Rif. Norm.:cod. proc. pen., artt. 274, 275, 276, 284, 289, 292, 299, 308, 309, 310, 311, 324; legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 21-ter.

Sommario: Premessa. – 1. Gli interventi sulle disposizioni in tema di esigenze cautelari. – 1.1.  Segue: il nuovo requisito dell'”attualità” dei pericoli di fuga e di reiterazione. – 1.2. Segue: il divieto di desumere la sussistenza dei pericoli di fuga e di reiterazione “esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede”. –  2. Gli interventi sulle disposizioni in tema di scelta delle misure: rafforzamento della funzione diextrema ratioattribuita alla custodia in carcere. – 2.1. La possibilità di applicazione congiunta delle altre misure cautelari. – 2.2. Custodia cautelare in carcere e arresti domiciliari con il c.d. “braccialetto elettronico”. – 2.3. La progressiva “erosione” della presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere: le modifiche apportate al terzo comma dell’art. 275. – 2.4. Il venir meno degli “automatismi” di cui agli artt. 276, comma 1-ter, e 284, comma 5 bis, cod. proc. pen. – 3. Le modifiche alle disposizioni concernenti le misure interdittive. – 3.1. L’interrogatorio della persona cui è applicata la sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio o ufficio. 3.2. I termini di durata massima delle misure interdittive. – 4. Le modifiche in tema di motivazione dell’ordinanza applicativa delle misure cautelari. – 4.1. Nullità “rilevabile d’ufficio” dell’ordinanza cautelare ex art. 292 cod. proc. pen. e poteri integrativi del tribunale del riesame. –  4.2. Segue: le modifiche apportate agli artt. 292 e 309 cod. proc. pen. 4.3. Segue: ulteriori possibili questioni applicative. – 5. Le ulteriori modifiche concernenti le impugnazioni in materia cautelare personale. – 5.1. Il procedimento di riesame: in particolare, la partecipazione del ricorrente all’udienza camerale. –  5.2. Segue: l’inedita possibilità di differire, ad istanza di parte, la data dell’udienza ed i termini per la decisione ed il deposito del provvedimento. – 5.3. Segue: la nuove disposizioni in tema di deposito dell’ordinanza di riesame e di perdita di efficacia della misura cautelare. – 5.3.1. La perdita di efficacia della misura alla luce del previgente decimo comma dell’art. 309 cod. proc. pen. – 5.3.2. Il nuovo testo del decimo comma dell’art. 309: l’introduzione di un termine perentorio anche per il deposito dell’ordinanza e l’esclusione della possibilità di rinnovare la misura “salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate”. 5.3.3. Le possibili criticità correlate alle nuove disposizioni. – 5.4. L’intervento sui termini della decisione in appello ex art. 310 cod. proc. pen. – 5.5. I termini per la decisione nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento dell’ordinanza emessa dal tribunale. – 6. L’impatto della riforma sul sistema delle impugnazioni avverso provvedimenti di sequestro. – 6.1 Il nuovo testo del settimo comma dell’art. 324 cod. proc. pen. e la natura del rinvio all’art. 309. 6.2. L’applicabilità delle altre disposizioni introdotte in tema di impugnazioni cautelari personali. – 7. Le modifiche all’art. 21-ter l. 26 luglio 1975, n. 354 (ord. pen.).
 Premessa. Con la legge 16 aprile 2015, n. 47, sono state introdotte alcune importanti novità nella normativa che regola, all’interno del codice di rito, la materia delle misure cautelari, che negli ultimi tempi ha visto il susseguirsi, com’è noto, di diverse altre modifiche legislative.
 Basti qui richiamare, anzitutto, il rilevante intervento in tema di divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere, in origine contenuto nel disegno di iniziativa parlamentare che ha dato luogo alla legge in commento, e successivamente “confluito” nel d.l. 26 giugno 2014, n. 92 (convertito, con modificazioni, in l. 11 agosto 2014, n. 117): si allude evidentemente alla modifica del comma 2-bis dell’art. 275 cod. proc. pen., ed al divieto ivi previsto di applicazione della custodia in carcere – fatte salve alcune particolari ipotesi – se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena irrogata non sarà superiore a tre anni. 
 In precedenza, il d.l. 1 luglio 2013, n. 78 (convertito, con modificazioni, in l. 9 agosto 2013, n. 94), aveva modificato il secondo comma dell’art. 280 del codice di rito, innalzando da quattro a cinque anni il limite minimo del massimo edittale necessario per l’applicazione della custodia in carcere, ma aveva tenuto ferma la possibilità di ricorrere a tale misura per il delitto di finanziamento illecito dei partiti, di cui all’art. 7 l. 2 maggio 1974 (delitto punito con la reclusione fino a quattro anni); contestualmente, era stato modificato l’art 274, lett. c) dello stesso codice, con l’innalzamento anche qui da quattro a cinque anni del predetto limite per i reati il cui pericolo di reiterazione è fronteggiabile anche con la custodia in carcere, senza peraltro introdurre alcun richiamo, ai fini predetti, al delitto di finanziamento illecito. Il conseguente difetto di coordinamento tra i due articoli del codice è stato eliminato dall’art. 2, lett. b), della legge in commento, che ha appunto integrato la lett. c) dell’art. 274 inserendo il riferimento al delitto di finanziamento illecito (cfr. infra, § 1).
 Un punto di contatto con l’odierno intervento legislativo può essere individuato anche nella modifica dell’art. 275-bis cod. proc. pen., introdotta dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito, con modificazioni, in l. 21 febbraio 2014, n.10), che riduce la discrezionalità del giudice procedente nella prescrizione di particolari modalità di controllo (c.d. braccialetto elettronico) in sede di applicazione degli arresti domiciliari. Si vedrà infatti (§ 2.2) che la legge n. 47 ha introdotto uno specifico onere motivazionale, a carico del giudice che dispone la custodia in carcere, circa l’inidoneità, nel caso concreto, degli arresti domiciliari applicati con le richiamate procedure di controllo.
 Non diversamente da quelli appena richiamati, anche l’intervento legislativo oggetto della presente analisi – svolta con la inevitabile sommarietà di una “primissima lettura” – appare inequivocamente improntato, soprattutto in alcuni aspetti, ad un ripensamento in senso ulteriormente restrittivo della possibilità di applicazione della custodia in carcere: ed è superfluo sottolineare come esso si inscriva in un più ampio quadro di modifiche normative  – concernenti anche la fase esecutiva – volte a dare concreta soluzione al problema del sovraffollamento carcerario, anche in relazione alle coeve sentenze della Corte EDU (9 ottobre 2013, Torreggiani c. Italia) e della Corte costituzionale (9 ottobre 2013, n. 279).
 Particolarmente indicative, in questo senso, appaiono anzitutto le modifiche apportate dalla legge in commento al terzo comma dell’art. 275 cod. proc. pen., tra le quali assume un primario rilievo la completa rivisitazione – alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale – delle disposizioni concernenti la presunzione di adeguatezza della sola misura inframuraria (§ 2.3). Nello stesso senso appaiono orientati, inoltre, gli interventi sulle disposizioni che – in presenza di particolari condotte (trasgressione delle prescrizioni concernenti gli arresti domiciliari, art. 276, comma 1-ter) o di particolari condizioni personali (condanna per evasione riportata nel precedente quinquennio, art. 284, comma 5-bis) – imponevano l’applicazione della custodia in carcere, sottraendo al giudice ogni valutazione discrezionale circa il possibile utilizzo degli arresti domiciliari (§ 2.4).
 Altre disposizioni introdotte dalla legge n. 47 intervengono invece, più in generale, sui presupposti applicativi di tutte le misure personali, per un verso operando in senso restrittivo sulle connotazioni che devono assumere le esigenze cautelari di cui alle lett. b) e c) dell’art. 274 cod. proc. pen. (§ 1), per altro verso ampliando la possibilità di applicazione cumulativa – sia nel momento della scelta iniziale della misura, sia in quello di individuazione della più appropriata “risposta” in caso di aggravamento delle esigenze cautelari – di misure coercitive e di misure interdittive (infra, § 2.1). Queste ultime sono poi oggetto di ulteriori specifici interventi modificativi, che appaiono volti a potenziarne l’efficacia e a creare quindi le condizioni per un più ampio e frequente ricorso – già in sede di richiesta da parte del pubblico ministero – alla misura interdittiva, anche (se non soprattutto) in luogo di quella detentiva (§ 3).Si farà poi riferimento alle novità – anch’esse di portata generale, e di estremo rilievo – concernenti sia i requisiti motivazionali dell’ordinanza applicativa delle misure cautelari (con particolare riferimento alla necessità di una “autonoma valutazione”, da parte del giudice procedente, di quanto indicato dall’art. 292: indizi, esigenze cautelari, elementi forniti dalla difesa, inadeguatezza di misure gradate in caso di applicazione della custodia in carcere), sia le radicali conseguenze derivanti, in sede di riesame, dalla mancanza dei requisiti medesimi (cfr. infra, § 4).
 Verranno quindi passate in rassegna le modifiche – davvero radicali e di rilevante impatto – apportate al procedimento incidentale relativo alle impugnazioni in materia cautelare personale, specie con riferimento al riesame ed al giudizio di rinvio conseguente alla decisione di annullamento della Corte di cassazione (§ 5): modifiche di cui dovrà valutarsi – anche alla luce della pregressa elaborazione giurisprudenziale in ordine al rinvio all’art. 309 cod. proc. pen., contenuto nell’art. 324 dello stesso codice – l’effettiva integrale applicabilità anche ai procedimenti impugnatori relativi ai provvedimenti di sequestro (§ 6).Un breve cenno, infine, verrà dedicato alle modifiche apportate dalla legge in commento all’art. 21-ter ord. pen., in tema di visita e assistenza, da parte delle persone detenute o internate, ai propri congiunti in gravi condizioni di salute o affette da handicap grave (§ 7).  1. Gli interventi sulle disposizioni in tema di esigenze cautelari. Gli articoli 1 e 2 della legge n. 47 hanno modificato l’art. 274 del codice di procedura penale – che individua, come è noto, i pericula legittimanti l’applicazione di una misura cautelare personale – con un duplice e “simmetrico” intervento sulle lettere b (pericolo di fuga) e c (pericolo di commissione di gravi delitti o di delitti della stessa specie), certamente ispirato dall’intento di condizionare l’applicazione delle misure cautelari ad una più rigorosa e stringente valutazione delle predette esigenze.
 Inoltre, come già accennato in premessa, l’art. 274 lett. c) è stato modificato anche per “ripristinare” il coordinamento con l’art. 280 cod. proc. pen., venuto meno per effetto delle modifiche apportate, a tale articolo, dal legislatore del 2013: il novero delle fattispecie di reato per le quali è possibile applicare la custodia in carcere, qualora sussista il pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie, è quindi oggi tornato a coincidere con quello individuato dall’art. 280, secondo comma, cod. proc. pen., quale condizione generale di applicabilità anche per l’applicazione della custodia in carcere (delitti puniti con reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, nonché il delitto di illecito finanziamento dei partiti di cui all’art. 7 l. n. 195 del 1974).
 1.1. – Segue: il nuovo requisito dell'”attualità” dei pericoli di fuga e di reiterazione. La “simmetria” cui si accennava riguarda, in primo luogo, il fatto che, per effetto della novella, è necessaria la sussistenza di un pericolo non più solo “concreto”, ma anche “attuale” sia quanto all’esigenza di cui alla lett. b), sia quanto a quella di cui alla lett. c) dell’art. 274 del codice di rito.Il riferimento all’attualità era stato già da un ventennio inserito  nella lettera a) dell’art. 274, e quindi con esclusivo riferimento all’ulteriore esigenza cautelare relativa al pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova. La novella ha quindi reso omogenea, in parte qua, la normativa concernente le connotazioni delle varie esigenze, con intenti che – alla luce della relazione di accompagnamento alla proposta di legge – appaiono dichiaratamente restrittivi rispetto all’elaborazione giurisprudenziale della Corte di cassazione.
 Va infatti ricordato che, secondo un consolidato orientamento della Suprema corte, “la sussistenza del pericolo di fuga non deve essere desunta esclusivamente da comportamenti materiali, che rivelino l’inizio dell’allontanamento o una condotta indispensabilmente prodromica (come l’acquisto del biglietto o la preparazione dei bagagli), essendo sufficiente accertare con giudizio prognostico, in base tra l’altro alla concreta situazione di vita del soggetto, alle sue frequentazioni, ai precedenti penali, ai procedimenti in corso, un reale ed effettivo pericolo, difficilmente eliminabile con tardivi interventi” . Tale indirizzo si è posto in linea con gli insegnamenti delle Sezioni unite che – in relazione al pericolo di fuga necessario, ai sensi dell’art. 307 cod. proc. pen., per il ripristino della misura custodiale, dopo la scarcerazione per la decorrenza dei termini – hanno chiarito che la valutazione prognostica deve essere svolta “non in astratto, e quindi in relazione a parametri di carattere generale, bensì in concreto, e perciò con riferimento ad elementi e circostanze attinenti al soggetto, idonei a definire, nel caso specifico, non la certezza, ma la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce (personalità, tendenza a delinquere e a sottrarsi ai rigori della legge, pregresso comportamento, abitudini di vita, frequentazioni, natura delle imputazioni, entità della pena presumibile o concretamente inflitta), senza che sia necessaria l’attualità di suoi specifici comportamenti indirizzati alla fuga o a anche solo a un tentativo iniziale di fuga” .
 Peraltro, proprio richiamando alcuni brani di tale pronuncia, la citata relazione di accompagnamento alla proposta di legge (n. 631 AC) ha sostenuto la necessità di prevedere che il pericolo di fuga “debba essere non solo concreto, ma anche attuale, nel senso che il rischio che la persona possa fuggire debba essere imminente”.
 Considerazioni del tutto analoghe possono essere svolte – anche quanto all’intento restrittivo che sembra aver dato luogo alla modifica normativa – con riferimento al pericolo di reiterazione, in relazione al quale la Suprema corte ha in varie occasioni affermato che, “ai fini della valutazione del pericolo che l’imputato commetta delitti della stessa specie, il requisito della concretezza non si identifica con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, ma con quello dell’esistenza di elementi concreti sulla base dei quali è possibile affermare che l’imputato possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede, e cioè che offendano lo stesso bene giuridico” . 
 In buona sostanza, la giurisprudenza ha correlato la configurabilità del pericolo di reiterazione di cui alla lett. c dell’art. 274 “alla sola condizione, necessaria e sufficiente, che esistano elementi “concreti” (cioè non meramente congetturali)” idonei a consentire una prognosi di commissione di ulteriori delitti analoghi . In tale prospettiva, si è anche sostenuto che la concretezza del pericolo in questione “può essere desunto anche dalla molteplicità dei fatti contestati, in quanto la stessa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto, indipendentemente dall’attualità di detta condotta e quindi anche nel caso in cui essa sia risalente nel tempo” .
 Come per il pericolo di fuga, la già citata relazione di accompagnamento alla proposta di legge ha sottolineato che l’inserimento del richiamo anche all’attualità del pericolo, oltre che alla sua concretezza, si propone di “rafforzare l’esigenza di una valutazione più stringente dell’effettiva pericolosità del prevenuto”.
 1.2. – Segue: il divieto di desumere la sussistenza dei pericoli di fuga e di reiterazione “esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede”. L’ulteriore intervento simmetricamente effettuato, dagli artt. 1 e 2 della legge in commento, sulle disposizioni di cui alle lett. b) e c) dell’art. 274 cod. proc. pen., consiste nell’inserimento della seguente proposizione conclusiva: “le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede” (nella lett. c, si precisa che tale preclusione valutativa opera “anche in relazione alla personalità dell’imputato”).
 È interessante notare che, nella stesura originaria, era stata prevista l’introduzione di un comma 1-bis all’art. 274, contenente richiami tutt’affatto diversi: quanto al pericolo di fuga, si faceva riferimento alla “gravità del reato imputato”; mentre, quanto alla lett. c) dell’art. 274, si escludeva che la situazione di pericolo potesse essere desunta “esclusivamente dalle modalità del fatto per cui si procede”, così come si escludeva che la personalità dell’imputato o indagato potesse “essere desunta unicamente dalle circostanze del fatto addebitato”.
 Non a caso, dalla già citata relazione di accompagnamento alla proposta di legge, emerge con chiarezza l’originario intento di escludere con tali locuzioni, da un lato, la praticabilità di interpretazioni volte a ravvisare il pericolo di fuga in ragione della sola “severità della sanzione” irrogata . D’altro lato, con riferimento al pericolo di reiterazione, la citata relazione evidenziava anche la volontà di evitare che detto pericolo, “anche alla luce della personalità del prevenuto”, potesse “esser desunto unicamente dalla vicenda criminosa in oggetto”: con ciò chiaramente intendendo superare l’indirizzo interpretativo, largamente maggioritario nella giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui gli elementi apprezzabili per la configurabilità del pericolo di reiterazione “possono essere tratti anche dalle specifiche modalità e circostanze del fatto, considerate nella loro obiettività, giacché la valutazione negativa della personalità dell’indagato può desumersi dai criteri oggettivi e dettagliati stabiliti dall’art. 133 cod. pen. tra i quali sono comprese le modalità e la gravità del fatto reato” .
 Il testo definitivo delle disposizioni qui esaminate, risultante dalle modifiche apportate in Senato , fa peraltro riferimento, come accennato, alla “gravità del titolo di reato per cui si procede”: sembra quindi di poter affermare che le disposizioni entrate in vigore intendano riferirsi alla fattispecie incriminatrice astratta contestata nel procedimento.In tale prospettiva, peraltro, appare piuttosto problematica l’individuazione di un apprezzabile ambito applicativo per le nuove disposizioni, essendo difficile ritenere che una misura cautelare possa essere oggi richiesta, ed applicata, sulla sola base della gravità della risposta sanzionatoria prevista per il reato contestato: e ciò non solo e non tanto alla luce dell’ulteriore modifica concernente l’attualità dei pericoli di fuga e di reiterazione (cfr. supra, § 1.1), quanto soprattutto della necessità – chiaramente prevista dall’art. 274, e pacificamente affermatasi in giurisprudenza – di ancorare la valutazione prognostica a elementi concreti. 
 Basti qui ricordare, quanto al pericolo di fuga, la già citata sentenza Litteri delle Sezioni unite, che ha escluso non solo la possibilità di ravvisare detto pericolo sulla sola base della gravità della pena inflitta, ma anche di poter conferire esclusivo rilievo alla “presunzione, ove configurabile, di sussistenza delle esigenze cautelari stabilita dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.”. 
 Quanto al pericolo di reiterazione, si è già accennato alla elaborazione giurisprudenziale che ritiene comunque imprescindibile un giudizio prognostico basato su dati concreti: elaborazione che non sembra essere posta in discussione dal testo definitivo della novella, neppure quanto alla possibilità di valutare la personalità in base ai soli aspetti fattuali della vicenda. Del resto, si è da tempo evidenziato, in dottrina, che i parametri individuati dalla lett. c) dell’art. 274 (“specifiche modalità e circostanze del fatto”; personalità dell’imputato o indagato “desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali”) hanno la specifica funzione di evitare che la valutazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari possa essere correlata al solo titolo di reato contestato .
2. Gli interventi sulle disposizioni in tema di scelta delle misure: rafforzamento della funzione di extrema ratio attribuita alla custodia in carcere. Si è già accennato, in premessa, al fatto che l’art. 275 del codice di rito ha subito una prima, rilevantissima modifica per effetto del d.l. n. 92 del 2014, conv. in l. n. 117 del 2014, che è intervenuto sul comma 2-bis estendendo il divieto di applicazione della custodia in carcere – già previsto in quella sede qualora si ritenga concedibile, in sentenza, la sospensione condizionale della pena – alle ipotesi in cui la valutazione prognostica del giudice procedente consenta di quantificare in meno di tre anni la pena detentiva da irrogare all’esito del giudizio .
 Con ulteriori importanti modifiche, la legge in commento ha inteso ulteriormente ridurre la possibilità di utilizzo della misura custodiale in carcere, sia nella fase applicativa che nel successivo svolgersi della “vicenda cautelare”. 
 Tale obiettivo è stato perseguito attraverso la riaffermazione della funzione di extrema ratio attribuita dal sistema alla custodia in carcere, da un lato valorizzando e favorendo il ricorso a soluzioni alternative, di nuovo conio (quale quella dell’applicazione congiunta delle altre misure coercitive, finora praticabile solo nelle particolari circostanze di cui agli artt. 276, primo comma e 307, comma 1 bis), o comunque di recente “riscoperte” dal legislatore (quale quella degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275 bis, nel testo modificato dal d.l. 146 del 2013, conv. dalla l. n. 10 del 2014); dall’altro intervenendo, in modo estremamente significativo, sulle disposizioni del codice che – in relazione ad alcuni titoli di reato (art. 275, terzo comma), a particolari condotte trasgressive dell’indagato (art. 276, comma 1 ter), o alle sue condizioni personali (art. 284, comma 5 bis) – precludevano al giudice una valutazione discrezionale circa l’individuazione della misura più appropriata, sancendo una presunzione di adeguatezza della sola misura inframuraria.
 2.1 – La possibilità di applicazione congiunta delle altre misure cautelari. Una prima rilevante modifica concerne la riformulazione, ad opera dell’art. 3 della legge in commento, del principio dell’applicabilità della custodia in carcere solo in caso di inadeguatezza di ogni altra misura: si prevede infatti, nel novellato terzo comma dell’art. 275 cod. proc. pen., che la misura inframuraria “può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate”.
 È noto che, secondo un indirizzo interpretativo ormai del tutto consolidato, “l’applicazione cumulativa di misure cautelari personali può essere disposta soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge agli artt. 276, comma primo, e 307, comma primo bis, cod. proc. pen.” (Sez. un., 30 maggio 2006, n. 29907, La Stella, Rv. 234138, la quale ha precisato – muovendo dal principio di legalità su cui si impernia l’intero sottosistema cautelare personale, ai sensi dell’art. 272 del codice di rito – che, al di fuori dei casi in cui siano espressamente consentite da singole norme processuali, non sono ammissibili né l’imposizione “aggiuntiva” di ulteriori prescrizioni non previste dalle singole disposizioni regolanti le singole misure, né l’applicazione “congiunta” di due distinte misure, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili) .
 La novella rende quindi possibile l’applicazione congiunta di misure cautelari personali non più solo nelle ipotesi per così dire “patologiche”, quali quella della trasgressione alle prescrizioni relativa a misure in corso (art. 276, primo comma) o della scarcerazione per decorrenza termini dell’imputato o indagato per reati di particolare allarme (art. 307, comma 1-bis), ma anche nel momento iniziale – e ovviamente del tutto “fisiologico” – in cui il giudice, investito di una richiesta di applicazione della custodia in carcere, è chiamato a verificare la praticabilità di “risposte” cautelari gradate: in tale prospettiva, la nuova disposizione offre al giudice uno strumento che può rivelarsi particolarmente utile, al fine di calibrare al meglio il proprio intervento nella fattispecie concreta. 
 Un problema interpretativo potrebbe riguardare la possibilità di avvalersi di tale strumento anche quale alternativa all’applicazione di una misura meno afflittiva della custodia in carcere, e quindi ad es. di disporre cumulativamente le misure dell’obbligo di dimora e della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio in luogo degli arresti domiciliari richiesti dal pubblico ministero. Il tenore testuale della nuova disposizione, e il già richiamato principio di legalità di cui all’art. 272, potrebbero far propendere per la tesi negativa. 
 In senso contrario, peraltro, potrebbe essere forse valorizzato il fatto che una modifica del tutto speculare a quella dell’art. 275 è stata introdotta, dall’art. 9 della legge in commento, anche nel quarto comma dell’art. 299 del codice di rito: ovvero in relazione ai poteri del giudice procedente che venga sollecitato dal p.m. ad intervenire nuovamente, nell’ipotesi di aggravamento delle esigenze cautelari. Infatti, alla già prevista possibilità di sostituire la misura applicata con un’altra più grave, o di disporre l’applicazione della misura in atto con modalità più gravose, è stata aggiunta appunto quella di applicare “congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva”: al giudice è quindi oggi consentito intervenire, in ogni ipotesi di aggravamento delle esigenze – e dunque indipendentemente dal tipo di misura in atto – con un’ordinanza di applicazione cumulativa.
 2.2. – Custodia cautelare in carcere e arresti domiciliari con il c.d. “braccialetto elettronico”. L’intento della novella di riaffermare la funzione di extrema ratio della custodia in carcere emerge, con assoluta chiarezza, anche dall’aggiunta, all’art. 275 del codice di rito, di un comma 3-bis, ai sensi del quale “nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’articolo 275 bis, comma 1” (cfr. art. 4, comma 3, della legge in commento).
 Viene dunque introdotto un ulteriore, specifico onere motivazionale a carico del giudice che dispone la misura inframuraria, peraltro non nella naturale sedes materiae (ovvero all’interno dell’art. 292, che individua i requisiti dell’ordinanza applicativa), ma nell’articolo 275, dedicato ai criteri di scelta delle misure: un contesto in cui la disposizione appare peraltro superflua, dato che lo stesso art. 275 chiarisce inequivocabilmente, nella prima parte del terzo comma – come si è appena ricordato richiamando le modifiche ivi apportate dalla legge in commento (cfr. supra, § 2.1.1) – che la custodia in carcere può essere disposta solo quando anche l’applicazione cumulativa di ogni altra misura risulti inadeguata. 
 Deve poi osservarsi che anche la lettura del predetto art. 292 contribuisce a rendere problematica l’attribuzione, alla norma in commento, di un’autonoma portata applicativa, posto che il comma c-bis) di tale articolo richiede tra l’altro, a pena di nullità rilevabile d’ufficio, che l’ordinanza contenga “l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’articolo 274 non possono essere soddisfatte con altre misure” (su tale disposizione, cfr. anche infra, § 4).
 Del resto, la sussistenza dell’onere motivazionale in questione, anche prima della novella, era stata chiaramente affermata dalla Corte di cassazione in una recente pronuncia, secondo cui il giudice, “nel valutare la inadeguatezza degli arresti domiciliari rispetto al pericolo di recidivanza deve adeguatamente motivare le ragioni per le quali le esigenze cautelari non possono essere tutelate con l’impiego del cosiddetto “braccialetto elettronico” che consente di monitorare continuamente la presenza dell’indagato nel perimetro entro il quale gli è consentito di muoversi” .  
 Sembra quindi di poter affermare che, con la disposizione in esame, si sia inteso rimarcare il favor dell’ordinamento per il ricorso, in alternativa alla custodia in carcere, alla misura domiciliare corredata dal controllo elettronico: un favor del resto già chiaramente desumibile, come ricordato in premessa, alla luce delle modifiche apportate all’art. 275-bis ad opera del d.l. n. 146 del 2013 (conv. dalla l. n. 10 del 2014), ai sensi del quale la prescrizione delle procedure di controllo elettronico deve oggi essere senz’altro disposta dal giudice (accertata la disponibilità dei necessari apparati da parte della polizia giudiziaria), salvo che tali procedure vengano ritenute non necessarie in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto: laddove invece, prima di tale modifica, il controllo elettronico veniva disposto solo se ritenuto necessario.
 2.3. – La progressiva “erosione” della presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere: le modifiche apportate al terzo comma dell’art. 275. L’art. 4 contiene una delle più significative modifiche introdotte dalla legge in commento al codice di rito: sono state infatti completamente rivisitate le disposizioni contenute nella seconda parte del terzo comma dell’art. 275, dedicata all’individuazione dei titoli di reato per i quali è possibile applicare solo la misura della custodia in carcere (salvo che gli elementi acquisiti comprovino l’insussistenza di esigenze cautelari). 
 È noto che, a partire dal 1991, è stata introdotta nel predetto comma una categoria di reati per i quali, in deroga ai generali principi in tema di scelta delle misure – di regola affidata alla valutazione discrezionale del giudice, in un’ottica improntata al “minimo sacrificio necessario” della libertà personale – vige una presunzione relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari, ed una presunzione assoluta, quanto all’adeguatezza della sola custodia in carcere per fronteggiare tali esigenze . Si tratta di una lista “variamente modulata nel corso del tempo, con pendolari alternanze tra interventi di restringimento e di dilatazione”, ma connotata dalla costante presenza dei “delitti di criminalità mafiosa o (lato sensu) di ‘contiguità’ alla mafia” (così la recentissima Corte cost., 25 febbraio 2015, n. 48) .
 Altrettanto noto è, peraltro, il percorso “demolitorio” compiuto dalla Corte costituzionale su tali disposizioni e culminato nella sentenza appena richiamata: un percorso articolatosi in ben nove declaratorie di illegittimità costituzionale emesse nel quinquennio 2010/2015, all’esito del quale il sistema a duplice presunzione (relativa e assoluta) è stato trasformato – per quasi tutti i titoli di reato individuati dal legislatore – in un sistema a duplice presunzione relativa . Infatti, con tali decisioni, la Consulta ha sistematicamente dichiarato incostituzionale, per violazione degli artt. 3, 13 e 27 Cost., la presunzione di adeguatezza della sola custodia in carcere (salvo che le risultanze in atti comprovino l’insussistenza di esigenze cautelari) nella parte in cui non veniva fatta “salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure” .
 È in tale tormentato contesto che interviene la legge in commento, con una riformulazione del terzo comma dell’art. 275 che appare senz’altro opportuna, dal momento che sembra recepire pienamente le indicazioni provenienti dalla Consulta, ed anzi probabilmente pone le condizioni – alla luce di quanto si dirà tra breve – idonee a prevenire ulteriori possibili declaratorie di illegittimità costituzionale.
 Le finalità e la struttura della presente esposizione non consentono, evidentemente, di approfondire il tema in modo adeguato. Si ritiene tuttavia indispensabile, per una migliore comprensione della portata della modifica normativa, accennare ad alcuni tratti essenziali delle linee argomentative elaborate e più volte ribadite dalla Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 265 del 2010:
 • le presunzioni assolute, specie quando limitano i diritti fondamentali della persona, violano il principio di uguaglianza se connotate da arbitrarietà e irrazionalità (ovvero se non rispondenti all’id quod plerumque accidit);
 • la presunzione di adeguatezza della sola custodia in carcere, per i delitti di mafia, aveva superato siffatta verifica già negli anni successivi alla sua introduzione (cfr. Corte cost., ord. 2 novembre 1995, n. 450), perchè “l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice”, rendendo quindi ragionevole la regola di esperienza per cui solo la custodia in carcere è in grado di “troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità” (sent. n. 265 del 2010) ;
 • l’assenza di siffatte connotazioni criminologiche nelle altre fattispecie di reato assoggettate allo speciale regime cautelare, e la conseguente impossibilità di ricavare analoghe “basi statistiche”, ha comportato la violazione dei richiamati parametri e le conseguenti declaratorie di incostituzionalità, perché il carattere assoluto della presunzione di adeguatezza della sola custodia in carcere implicava la negazione, totale e indiscriminata, del principio del “minimo sacrificio necessario”;
 • tale differenza strutturale con il delitto di associazione mafiosa è risultata decisiva, nelle valutazioni della Consulta, non solo per le fattispecie di regola monosoggettive (omicidio, favoreggiamento dell’immigrazione, sequestro di persona a scopo di estorsione), ma anche per quelle necessariamente plurisoggettive (violenza sessuale di gruppo) e per le stesse ipotesi associative diverse da quelle di tipo mafioso (ovvero per i sodalizi finalizzati al compimento di reati nel settore degli stupefacenti e della contraffazione: anche per questi ultimi, infatti, non si è ritenuta ravvisabile una regola di esperienza idonea a fondare la presunzione assoluta di adeguatezza, trattandosi di “fattispecie aperte, qualificate solo dalla tipologia dei reati fine e non già da particolari caratteristiche del vincolo associativo, così da abbracciare situazioni marcatamente eterogenee sotto il profilo considerato”; cfr. sentt. n. 231 del 2011, 110 del 2012);
 • ad analoghe conclusioni la Corte costituzionale è infine giunta – con una parziale revisione delle valutazioni espresse nel 1995 – sia quanto ai i reati aggravati ai sensi dell’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 (dato che anche i reati commessi con metodo mafioso, oppure volti ad agevolare le associazioni ex art. 416 bis, non implicano né presuppongono “necessariamente un vincolo di appartenenza permanente” al sodalizio, e non assicurano quindi alla presunzione assoluta un fondamento giustificativo costituzionalmente adeguato: sent. n. 57 del 2013), sia quanto alle ipotesi di concorso esterno nell’associazione di stampo mafioso (difettando anche in questo caso l’appartenenza al sodalizio, e quindi “quel vincolo di ‘adesione permanente’ al gruppo criminale…in grado di legittimare, sul piano empirico-sociologico, il ricorso in via esclusiva alla misura carceraria, quale unico strumento idoneo a recidere i rapporti dell’indiziato con l’ambiente delinquenziale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità”: sent. n. 48 del 2015).
 Il percorso interpretativo compiuto dalla Corte costituzionale ha certamente svolto un ruolo decisivo nelle scelte compiute dal legislatore con l’intervento oggi in esame: scelte che sembrano anzi interpretabili, almeno in parte, come una vera e propria “presa d’atto” delle valutazioni compiute lungo tale percorso.Va infatti evidenziato, anzitutto, che nel nuovo testo del terzo comma dell’art. 275 la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere (salva sempre l’accertata insussistenza di esigenze cautelari) è stata mantenuta, oltre che per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., solo per le ulteriori ipotesi associative di cui agli artt. 270 e 270-bis (concernenti, rispettivamente, le associazioni sovversive e quelle aventi finalità di terrorismo o di ordine democratico). È stato dunque abbandonato, ai fini che qui specificamente interessano, il riferimento all’elenco di fattispecie incriminatrici contenuto – al ben diverso fine di individuare, com’è noto, le attribuzioni del P.M. distrettuale – nei commi 3 bis e 3 quater dell’art. 51 del codice di rito. 
 Si tratta di una “scelta di campo” estremamente significativa, dal momento che, per un verso, il comma 3-bis fa riferimento – oltre che al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. – a numerose altre ipotesi di reato, anche associative, il cui regime cautelare non era stato ancora colpito da declaratorie di illegittimità costituzionale: basti pensare ad es. all’associazione per delinquere  finalizzata al contrabbando di t.l.e. (art. 291-quater d.P.R. n. 43 del 1973), alle attivita’ organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260 t.u. amb.), ecc.. Tali fattispecie, evidentemente, sono state ritenute prive delle particolari connotazioni del vincolo associativo evidenziate dalla Consulta a proposito dell’associazione di stampo mafioso, indispensabili per ritenere ragionevole la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere (v. quanto già osservato per le pronunce in tema di associazioni finalizzate alla commissione di reati nel settore della contraffazione e degli stupefacenti ).Per altro verso, va adeguatamente posto in evidenza che l’abbandono del richiamo al comma 3-quater dell’art. 51 ha comportato il venir meno della presunzione assoluta anche per ciò che riguarda i delitti con finalità di terrorismo (ad eccezione, come detto, dell’ipotesi associativa). 
 Anche in questo caso, la scelta legislativa appare chiaramente correlata alle valutazioni espresse dalla Corte costituzionale a proposito dei reati aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 e del concorso esterno in associazione mafiosa (cfr. supra): si è evidentemente ritenuto, infatti, che i delitti aggravati ai sensi dell’art. 270-sexies cod. pen. non postulino necessariamente che il loro autore sia permanentemente dedito alla causa terroristica o eversiva, con vincoli di appartenenza, legami con i correi, inserimento nel contesto criminale, ecc. che, invece, legittimano il mantenimento della presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere per gli appartenenti ad un’associazione avente le medesime finalità .
   Il richiamo ai commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 è stato invece utilizzato per individuare, nell’ultima parte del novellato terzo comma dell’art. 275, un’area di applicazione della doppia presunzione relativa nei termini delineati dalla Consulta (ed anzi ricorrendo ad un testuale “recupero” dei dispositivi delle varie pronunce richiamate).
 La legge n. 47 del 2015 ha infatti previsto che, in presenza di gravi indizi per i delitti indicati nei predetti commi dell’art. 51 (ad eccezione, ovviamente, di quelli associativi per i quali è rimasta ferma la presunzione assoluta), “è applicata la custodia in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”; la medesima disposizione si applica anche ove ricorrano gravi indizi per altri delitti specificamente indicati (il cui regime cautelare, in alcuni casi, era già stato ritenuto costituzionalmente illegittimo: si tratta, in particolare, degli “articoli 575, 600 bis, primo comma, 600 ter, escluso il quarto comma, 600 quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice penale”).
 Può conclusivamente osservarsi che, per ciò che specificamente riguarda i “reati di mafia”, il predetto regime cautelare risulta oggi applicabile non solo alle ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa (sent. n. 48 del 2015) ed ai reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività del sodalizio di stampo mafioso (reati inseriti nel’elenco di cui al comma 3-bis dell’art. 51, e già “colpiti” dalla sent. n. 57 del 2013), ma anche all’ulteriore delitto di scambio elettorale politico mafioso di cui all’art. 416-ter cod. pen., che è stato inserito dall’art. 2 l. 23 febbraio 2015, n. 19, nel predetto elenco di cui al comma 3-bis: a tale delitto, la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere è risultata quindi applicabile solo nel breve periodo intercorso tra i due interventi legislativi del 2015 .
 2.4. – Il venir meno degli “automatismi” di cui agli artt. 276, comma 1-ter, e 284, comma 5-bis, cod. proc. pen.. Anche le disposizioni di cui agli artt. 5 e 6 della legge in commento sono state introdotte con il chiaro intento di ridurre il più possibile l’applicazione della misura custodiale in carcere: sono state infatti modificate altre norme del codice di rito che, in presenza di determinati presupposti, privano il giudice procedente di una piena discrezionalità nella scelta della misura da applicare nel caso concreto.
 Si allude in particolare, da un lato, all’art. 276, comma 1-ter, che nel testo finora vigente prevedeva la sostituzione degli arresti domiciliari con la custodia in carcere in caso di trasgressione alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura: e ciò in deroga alla regola generale stabilita nel primo comma dell’art. 276, secondo cui il giudice, in caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare, “può disporre la sostituzione o il cumulo con altra più grave, tenuto conto dell’entità, dei motivi e delle circostanze della violazione”.
 D’altro lato, viene in rilievo l’art. 284, comma 5-bis, del codice di rito, che nel testo finora vigente poneva una presunzione assoluta di inadeguatezza degli arresti domiciliari nei confronti “di chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede”, vietando “comunque”, a costoro, la concessione della misura in questione .È interessante notare che, nel corso dell’iter che ha condotto all’approvazione della legge in commento , entrambe le disposizioni in questione erano state del tutto abrogate, al fine evidentemente di restituire, al giudice procedente, la piena discrezionalità cui si è poc’anzi accennato; nel testo poi definitivamente approvato, invece, si è preferito modificare le norme esistenti, eliminando il descritto automatismo.
 Per un verso, infatti, la sostituzione degli arresti domiciliari con la custodia in carcere, in caso di trasgressione alle prescrizioni sul divieto di allontanarsi, viene oggi disposta dal giudice “salvo che il fatto sia di lieve entità”: in altri termini, l’applicazione della misura inframuraria non è più automaticamente ricollegata all’avvenuta trasgressione , ma necessita di un previo apprezzamento in ordine all’effettivo disvalore della trasgressione medesima . 
 Sembra opportuno evidenziare, al riguardo, che il comma 1-ter continua a derogare al principio generale, fissato nel primo comma dello stesso art. 276, secondo cui il giudice valuta discrezionalmente l’opportunità della sostituzione alla luce non solo dell’entità, ma anche “dei motivi e delle circostanze” dell’azione: elementi che – stando almeno al tenore letterale della nuova disposizione – sembrerebbero esclusi dal novero dei parametri su cui il giudice è chiamato ad operare la valutazione. Sicchè anche un episodio di trasgressione minima, pur se determinata da motivi allarmanti, potrebbe – almeno in teoria – non comportare più la sostituzione degli arresti domiciliari con la custodia in carcere.
 Per altro verso, ai sensi del novellato comma 5-bis dell’art. 284 cod. proc. pen., il divieto di concessione degli arresti domiciliari al condannato per evasione nel precedente quinquennio  è tuttora operante, “salvo che il giudice ritenga, sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura”. 
 Per effetto della novella, quindi, il divieto non è più assoluto, potendo essere superato qualora, anzitutto, gli arresti domiciliari risultino idonei a fronteggiare le esigenze cautelari manifestatesi nella fattispecie concreta: il giudice procedente è quindi chiamato, anche in questo caso, ad una verifica secondo gli ordinari parametri di adeguatezza di cui all’art. 275, primo comma, cod. proc. pen..
 Quanto poi al secondo presupposto individuato dalla nuova disposizione per il venir meno del divieto, deve osservarsi che la locuzione “fatto di lieve entità” sembra chiaramente da riferire al fatto per cui si procede: peraltro, una presunzione di adeguatezza dei soli arresti domiciliari per fatti ritenuti in concreto lievi  , in alternativa alla custodia in carcere, potrebbe far sorgere qualche perplessità di ordine sistematico, sia in relazione al principio generale di proporzionalità di cui all’art. 275, secondo comma, cod. proc. pen., sia soprattutto alla luce del percorso compiuto dalla giurisprudenza costituzionale in tema di presunzioni afferenti la custodia in carcere (cfr. supra, § 2.3). In tale prospettiva, potrebbe rivelarsi opportuno un ripensamento del già citato indirizzo giurisprudenziale che, nel divieto di concessione degli arresti domiciliari sancito dal comma 5 bis dell’art. 284, ritiene implicitamente compreso anche quello di applicare misure ulteriormente gradate (misure che nel caso concreto, soprattutto in relazione alla lieve entità del fatto per cui si procede, potrebbero risultare adeguate e rispondenti al principio del “minimo sacrificio necessario”).
 Sembra invece da escludere la fondatezza di un’interpretazione del nuovo comma 5-bis dell’art. 284 volta a ricondurre la locuzione “lieve entità” al fatto per cui è intervenuta la condanna per evasione : oltre a risultare problematica su un piano strettamente letterale, tale ipotesi ricostruttiva potrebbe far sorgere criticità di ordine diverso, correlate alla necessità di rivisitare – “assumendo nelle forme più rapide le relative notizie”, come recita l’immutata ultima parte del comma 5-bis, e basandosi su “specifici elementi” – episodi ormai definiti con sentenza irrevocabile.
 3. Le modifiche alle disposizioni concernenti le misure interdittive. Come già accennato in premessa, la legge n. 47 del 2015 interviene, con due articoli, anche sulle disposizioni del codice di rito concernenti le misure cautelari interdittive.Si tratta di modifiche aventi, in un caso, un ambito limitato alla sola misura della sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio o ufficio (in relazione alle modalità di espletamento dell’interrogatorio di garanzia: art. 289, secondo comma, modificato dall’art. 7 della legge); mentre, nell’altro, le modifiche riguardano i termini di durata massima di tutte le misure interdittive, che vengono completamente ridefiniti (cfr. l’art. 308, come modificato dall’art. 10 della legge in commento). 
 Sembra peraltro possibile individuare, nei due interventi, un denominatore comune, costituito dall’intento di accrescere le potenzialità di tali misure, evidentemente al fine di favorirne una più ampia applicazione, da parte del giudice, anche (se non soprattutto) in luogo delle misure detentive eventualmente richieste dal pubblico ministero.
 3.1. – L’interrogatorio della persona cui è applicata la sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio o ufficio. Com’è noto, l’art. 289 cod. proc. pen., dedicato alla misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico servizio o ufficio, contiene, nel secondo comma, una rilevante deroga ai principi generali in tema di instaurazione del contraddittorio con la persona da sottoporre a misura cautelare.Infatti, mentre l’art. 294 prevede in via generale che l’interrogatorio di garanzia deve avvenire entro cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della misura custodiale in carcere (primo comma), ovvero entro dieci giorni dall’esecuzione o dalla notifica del provvedimento che dispone ogni altra misura, coercitiva o interdittiva (comma 1 bis), l’art. 289 dispone che, nel corso delle indagini preliminari, il giudice procede all’interrogatorio prima di decidere sulla richiesta del pubblico ministero di sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio.
 Con tale disposizione, in altri termini, si esclude – nella sola specifica ipotesi considerata – la possibilità di emettere “a sorpresa”, ovvero senza la previa instaurazione del contraddittorio con l’indagato, il provvedimento cautelare richiesto dal p.m.. I dubbi di legittimità costituzionale sollevati in proposito, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sono stati disattesi dalla Consulta, secondo cui “la norma amplia la sfera delle garanzie – con particolare riguardo al diritto di difesa – dei soggetti in favore dei quali opera e la sua ‘ratio’ sembra essere rinvenibile nell’esigenza, la cui attuazione rientra nelle scelte discrezionali del legislatore, di verificare anticipatamente che la sospensione dall’ufficio o dal servizio non rechi, senza effettiva necessità, pregiudizio alla continuità della pubblica funzione o del servizio pubblico” .
 Occorre precisare, al riguardo, che la giurisprudenza di legittimità ha interpretato estensivamente tale disposizione, affermando la sussistenza dell’obbligo di procedere all’interrogatorio anticipato non solo nell’ipotesi – l’unica espressamente considerata dal secondo comma dell’art. 289, nel testo finora vigente – in cui la richiesta del p.m. avesse avuto ad oggetto la misura interdittiva in questione, ma anche in quella in cui il g.i.p., disattendendo la richiesta di applicazione di una misura coercitiva, si fosse appunto orientato per la sospensione ex art. 289 .La legge in commento (art. 7) ha invece espressamente escluso, in tale ultima ipotesi, la sussistenza dell’obbligo di procedere all’interrogatorio preventivo: il nuovo testo del secondo comma dell’art. 289 precisa infatti che, se la misura interdittiva in questione “è disposta dal giudice in luogo di una misura coercitiva richiesta dal pubblico ministero, l’interrogatorio ha luogo nei termini di cui al comma 1 bis dell’art. 294”.
 In buona sostanza, la portata applicativa della disposizione derogatoria di cui all’art. 289 è stata limitata alla sola ipotesi testualmente prevista anche prima della legge n. 47: quella in cui, nel corso delle indagini preliminari, il ricorso alla misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio sia stato ritenuto adeguato e proporzionato dallo stesso pubblico ministero richiedente. Resta quindi salvo “l’effetto sorpresa”, comune all’applicazione di ogni altra misura cautelare personale, nella diversa ipotesi in cui sia stato il giudice procedente a ritenere idonea la sospensione ex art. 289, in luogo della misura coercitiva richiesta dal p.m..
 3.2. – I termini di durata massima delle misure interdittive. Com’è noto, la materia viene regolata dall’art. 308 cod. proc. pen., che, nel testo finora vigente, prevedeva una sorta di “doppio binario”.Infatti, il secondo comma dell’art. 308 disponeva, da un lato, che le misure interdittive perdessero efficacia dopo il decorso di due mesi dall’inizio della loro esecuzione, salvo che fossero state applicate per esigenze probatorie: era infatti possibile, in tal caso, rinnovarle anche oltre i due mesi, ma non oltre il termine indicato dal primo comma dello stesso art. 308 per le misure coercitive diverse dalla custodia cautelare (termine pari al doppio di quelli previsti dall’art. 303). 
 D’altro lato, il comma 2-bis dell’art. 308 (introdotto dalla l. 6 novembre 2012, n. 190) prevedeva un regime particolare per le misure interdittive disposte in relazione ad alcuni reati contro la pubblica amministrazione: in tali ipotesi, il termine “ordinario” era elevato a sei mesi dall’inizio dell’esecuzione, mentre il termine ultimo per la possibilità di rinnovazione – sempre e solo per esigenze probatorie – era elevato al triplo dei termini previsti dall’art. 303.
 La brevità ed eccessiva “rigidità” del termine ordinario di due mesi era stata oggetto di valutazioni critiche, anche per le implicazioni concernenti il sistematico ricorso a misure coercitive forse sproporzionate rispetto al caso concreto, ricorso causato proprio dalla difficoltà di utilizzare lo strumento interdittivo soprattutto per fronteggiare il pericolo di reiterazione di condotte criminose analoghe.A tali criticità ha probabilmente inteso porre rimedio l’art. 10 della legge in commento, che ha completamente modificato la disciplina dei termini di durata delle misure interdittive, tra l’altro eliminando – con la totale abrogazione del comma 2-bis dell’art. 308 – il “doppio binario” introdotto nel 2012 dalla c.d. legge Severino.
 In particolare, il primo periodo del novellato secondo comma dell’art. 308 dispone che “le misure interdittive non possono avere durata superiore a dodici mesi e perdono efficacia quando è decorso il termine fissato dal giudice nell’ordinanza”: in luogo del termine “rigido” di due mesi (e di quello di sei mesi, che era stato stabilito nelle ipotesi di cui al comma 2 bis), è dunque oggi prevista – per il soddisfacimento di tutte le esigenze cautelari, e per ogni titolo di reato – una durata che il giudice può determinare discrezionalmente, ma che non può comunque superare i dodici mesi. 
 Altrettanto rilevante è l’ulteriore disposizione contenuta nel secondo periodo del secondo comma dell’art. 308, ai sensi del quale, qualora le misure interdittive siano state disposte per esigenze probatorie, “il giudice può disporne la rinnovazione nei limiti temporali previsti dal primo periodo del presente comma”: viene quindi confermata la possibilità di rinnovazione della misura (solo per fronteggiare esigenze probatorie), ma il termine massimo non può superare, anche in caso di rinnovazione, i dodici mesi previsti in via ordinaria.
 Sembra quindi possibile affermare, conclusivamente, che – all’introduzione del principio di “flessibilità” della durata, ed al consistente ampliamento del termine massimo – fa riscontro una sensibile riduzione dell’arco temporale in cui è possibile disporre la rinnovazione della misura interdittiva per esigenze probatorie: infatti, detto termine – che nella già ricordata ottica del “doppio binario” veniva quantificato nel doppio o addirittura nel triplo dei termini stabiliti dall’art. 303 – viene oggi del tutto sganciato da tale articolo, e ricondotto all’interno dell’ordinario termine massimo annuale.
 4. Le modifiche in tema di motivazione dell’ordinanza applicativa delle misure cautelari. La legge n. 47 si segnala anche per le rilevanti modifiche apportate sia alle disposizioni del codice di rito che individuano i requisiti dell’ordinanza applicativa di una misura cautelare, sia a quelle che regolano le conseguenze derivanti dalla mancanza dei predetti requisiti: modifiche chiaramente volte ad evitare, come emerge dall’esame dei lavori parlamentari, la redazione di motivazioni “appiattite su quelle del pubblico ministero richiedente” .
 Si allude in particolare, da un lato, all’art. 8 della legge in commento, che ha inserito alle lettere c) e c-bis) del secondo comma dell’art. 292, accanto alla “esposizione”, l’ulteriore requisito della “autonoma valutazione” degli elementi ivi indicati (esigenze cautelari, indizi, irrilevanza delle argomentazioni difensive, ecc.); dall’altro, all’art 11 della legge, che è intervenuto sul nono comma dell’art. 309, ridisegnando i poteri decisori attribuiti al tribunale del riesame nelle ipotesi di carenza motivazionale.
 Per meglio chiarire la portata innovativa del combinato disposto di tali articoli, appare opportuno soffermarsi – ovviamente in estrema sintesi – su alcuni snodi problematici emersi nell’interpretazione e nella concreta applicazione del quadro normativo previgente.
 4.1. -Nullità “rilevabile d’ufficio” dell’ordinanza cautelare ex art. 292 cod. proc. pen. e poteri integrativi del tribunale del riesame. Com’è noto, già il testo originario dell’art. 292 disponeva che l’ordinanza cautelare contenesse tra l’altro, a pena di nullità, “l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per cui assumono rilevanza” (art 292, secondo comma, lett. c). 
 È successivamente intervenuta la già citata legge n. 332 del 1995, che – per quanto specificamente interessa in questa sede – ha modificato il secondo comma dell’art. 292, sia  precisando che la nullità in questione è “rilevabile d’ufficio”, sia inserendo nella citata lett. c) la necessità di tener conto anche del “tempo trascorso dalla commissione del reato”, sia aggiungendo una lettera c-bis) contenente i seguenti ulteriori requisiti motivazionali dell’ordinanza cautelare: “l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’articolo 274 non possono essere soddisfatte con altre misure”.L’intervento legislativo del 1995 ha suscitato in dottrina reazioni marcatamente negative , sia per la (ritenuta) superfluità della lett. c-bis) alla luce degli obblighi motivazionali già imposti al giudice emittente dalla lett. c) dell’art. 292, sia per la sua problematica “convivenza” dei predetti obblighi motivazionali con altre disposizioni contestualmente introdotte , sia per l’incerta collocazione sistematica della inedita nullità ex art. 292 (ricondotta, nonostante la rilevabilità d’ufficio, tra quelle relative e perciò assoggettata a tutte le regole di deducibilità e di sanatoria previste, per tale categoria, dagli artt. 181-183 cod. proc. pen.) .
 Le osservazioni critiche più serrate hanno tuttavia riguardato il difetto di coordinamento tra la rilevabilità d’ufficio della nullità, per difetto di uno dei requisiti di cui alle lett. c) e c-bis), e la disciplina del giudizio di riesame, posto che il nono comma dell’art. 309 finora vigente consentiva sempre al tribunale, in quella sede, di annullare o riformare il titolo cautelare anche per motivi diversi da quelli enunciati, ovvero di confermarlo per ragioni diverse da quelle enunciate nella motivazione del provvedimento stesso. È stato quindi evidenziato, su tali basi, che l’effetto pienamente devolutivo collegato alla richiesta di riesame implicava la trasformazione delle cause di nullità in motivi di gravame, e la conseguente possibilità di colmare, con i poteri integrativi ex art. 309, tutte le lacune contenutistiche del provvedimento applicativo della misura cautelare (comprese quelle rilevate ex officio) . In relazione poi ai profili specificamente interessati dalla legge in commento, è stato autorevolmente osservato quanto segue: “Consideriamo un’ipotesi meno futile: che l’investito della richiesta l’abbia accolta apoditticamente, senza spendervi nemmeno una sillaba; ha lavorato male ma il chiamato a ri-decidere conferma la misura, se ne ricorrono i presupposti, eventualmente apportando quanto vi mancava” .
 In una prospettiva del tutto analoga, si è in giurisprudenza affermato che “atteso l’effetto interamente devolutivo che caratterizza il riesame delle ordinanze applicative di misure cautelari, deve ritenersi che il tribunale del riesame, cui è conferito il potere di annullare, riformare o confermare il provvedimento impugnato anche per ragioni diverse da quelle in esso indicate, possa sanare, con la propria motivazione, le carenze argomentative di detto provvedimento, pur quando esse siano tali da dar luogo alle nullità, rilevabili d’ufficio, previste dall’art. 292, comma secondo, lett. c) e c bis), cod. proc. pen.” . Con specifico riguardo ai profili che qui interessano, si è ulteriormente precisato che “il tribunale del riesame non può annullare il provvedimento cautelare impugnato ravvisando difetto di motivazione, potendo il solo giudice di legittimità pronunciare il relativo annullamento per tale vizio, ma deve provvedere integrativamente ad un’autonoma valutazione del quadro indiziario già conosciuto dal giudice delle indagini preliminari. (Fattispecie relativa ad ordinanza del Tribunale del riesame che aveva annullato l’ordinanza applicativa di custodia cautelare emessa dal Gip asserendo che questa fosse priva di autonoma valutazione rispetto alla richiesta del P.M.)” .
 È noto peraltro che, a tale orientamento, si è contrapposto nella giurisprudenza della Suprema corte un diverso indirizzo, secondo cui “il potere-dovere attribuito al giudice del riesame dall’art. 309, comma nono, ultima parte, cod. proc. pen., di confermare le ordinanze coercitive impugnate “per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso” non è esercitabile allorquando la motivazione di quest’ultimo sia radicalmente assente o meramente apparente, dovendo, in tali ipotesi, essere rilevata la nullità del provvedimento impugnato per violazione di legge” . Nella medesima prospettiva, si è ulteriormente precisato che il potere integrativo delle insufficienze motivazionali “non opera, oltre che nel caso di carenza grafica, anche quando l’apparato argomentativo, nel recepire integralmente il contenuto di altro atto del procedimento, o nel rinviare a questo, si sia limitato all’impiego di mere clausole di stile o all’uso di frasi apodittiche, senza dare contezza alcuna della ragioni per cui abbia fatto proprio il contenuto dell’atto recepito o richiamato, o comunque lo abbia considerato coerente rispetto alle sue decisioni” .
 4.2. – Segue: le modifiche apportate agli artt. 292 e 309 cod. proc. pen.. In tale variegato contesto, è intervenuto l’art. 8 della legge in commento, che ha “arricchito” le lettere c) e c-bis) dell’art. 292 di un ulteriore requisito motivazionale: si prevede infatti che l’ordinanza cautelare debba contenere non solo “l’esposizione”, ma anche “l’autonoma valutazione” degli elementi ivi rispettivamente indicati (cfr. supra, § 4.1).
 È probabilmente lecito dubitare dell’effettiva necessità di tale ennesima interpolazione operata sull’art. 292, dal momento che sia la lett. c) che la lett. c-bis) già prevedevano “l’esposizione” non solo degli elementi fattuali, ma anche dei percorsi valutativi adottati dal giudice e posti a fondamento del titolo cautelare. Del resto, la giurisprudenza non ha mai dubitato che un’ordinanza priva delle valutazioni giudiziali sulle risultanze in atti presentasse un vizio di motivazione, pur traendone conseguenze non sempre univoche – come già evidenziato in precedenza – quanto alle determinazioni adottabili in sede di riesame.
 Quel che occorre peraltro adeguatamente sottolineare, a tale ultimo proposito, è il fatto che – a differenza di quanto avvenuto nel 1995 – la legge in commento ha modificato anche i poteri attribuiti, in fase decisoria, al tribunale del riesame: in particolare, è stato aggiunto, al nono comma dell’art. 309, il seguente periodo conclusivo: “Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”.
 Il rilievo di tale modifica non ha bisogno di essere sottolineato, dal momento che la nuova disposizione costituisce una deroga al già citato generale principio – anch’esso contenuto nel nono comma dell’art. 309 – della possibilità di confermare il provvedimento impugnato anche per ragioni diverse da quelle indicate nella sua motivazione: deroga che, ovviamente, si ritiene debba operare negli stretti termini precisati dalla novella.
 In particolare, il potere integrativo è in primo luogo precluso “se la motivazione manca”: trova quindi oggi un’esplicita conferma, nel codice, il richiamato indirizzo giurisprudenziale secondo cui il tribunale del riesame deve annullare il provvedimento cautelare nelle ipotesi di motivazione mancante (in senso grafico), alla quale sembra doversi continuare ad equiparare quella in cui la motivazione è meramente apparente: situazione riscontrabile quando l’apparato argomentativo si risolva in mere clausole di stile o in proposizioni apodittiche (cfr. supra, § 4.1).In secondo luogo, il dovere di annullare l’ordinanza, senza poter procedere ad integrazioni, viene codificato proprio con riferimento all’ipotesi in cui la motivazione sia viziata  nel requisito di nuovo conio: ovvero se non contenga “l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”. 
 Va subito sottolineato, al riguardo, che il legislatore non ha ritenuto di prevedere l’obbligo di annullamento nell’ipotesi – anch’essa prevista dalla lett. c-bis) del secondo comma dell’art. 292 – in cui il difetto di autonoma valutazione riguardi l’inadeguatezza di misure meno afflittive della custodia in carcere. Inoltre, sempre in un’ottica volta ad interpretare tassativamente la portata della nuova disposizione derogatoria, il potere integrativo appare tuttora esercitabile qualora la motivazione difetti non già nell’autonoma valutazione, ma nella “esposizione” di taluno degli elementi indicati nell’art. 292 (ad es. nell’ipotesi, non teorica, in cui il giudice si sia soffermato adeguatamente sulla valenza indiziante di determinati elementi a carico, dopo averli peraltro esposti in modo approssimativo o lacunoso).
 Per altro verso, non sembra inutile precisare – anche alla luce di quanto si illustrerà in seguito, trattando delle ulteriori modifiche apportate in tema di perdita di efficacia del titolo cautelare per la scadenza dei termini “interni” al procedimento di riesame (cfr. infra, § 5) – che l’annullamento in parola, disposto per motivi squisitamente formali, non appare di ostacolo alla rinnovazione della misura cautelare .
   4.3. – Segue: ulteriori possibili questioni applicative. Non può escludersi che le modifiche in tema di “autonoma valutazione” possano dare adito – anche per le ricadute sistematiche della novella sui principi finora elaborati dalla giurisprudenza in tema di motivazione dell’ordinanza cautelare – ad ulteriori questioni interpretative.
 Ci si potrebbe chiedere, anzitutto, se, alla luce delle nuove disposizioni, sia venuta meno la possibilità di adottare una motivazione per relationem, fino ad oggi pacificamente ammessa sia con riferimento alla richiesta del pubblico ministero, sia anche – in presenza di determinati requisiti – con riguardo ad altri provvedimenti giudiziali relativi agli stessi fatti.  A tale quesito sembra tuttora possibile rispondere positivamente, purchè, com’è ovvio, la relatio non riguardi acriticamente il compendio valutativo contenuto nel provvedimento richiamato, dovendo il giudice immancabilmente manifestare, nell’ordinanza, la propria “autonoma valutazione” (come del resto già costantemente ritenuto dall’elaborazione giurisprudenziale in materia, sulla scorta dell’insegnamento delle Sezioni unite secondo cui la motivazione per relationem è da considerare legittima qualora fornisca, tra l’altro, “la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione” ).
 Una diversa questione potrebbe riguardare poi la sorte del provvedimento di riesame che, in violazione del novellato nono comma dell’art. 309, provveda ad integrare la motivazione di un’ordinanza cautelare che difetti dell'”autonoma valutazione”, da parte del giudice emittente, di uno degli elementi di cui alle lettere c) e c-bis) del secondo comma dell’art. 292 (eccezion fatta, come accennato, per i profili riguardanti l’inadeguatezza di misure meno afflittive della custodia in carcere applicata). Sembra difficile ipotizzare, al riguardo, soluzioni diverse dall’annullamento senza rinvio, ferme restando le possibili riserve anche di ordine sistematico rispetto alla regola generale dell’annullamento con rinvio qualora il difetto di motivazione riguardi profili diversi (riserve ovviamente correlate al fatto che solo nel primo caso, e non anche nel secondo, la decisione di annullamento comporta la remissione in libertà del ricorrente).
 Infine, un ulteriore quesito potrebbe riguardare l’applicabilità delle nuove disposizioni in tema di “autonoma valutazione” nelle ipotesi in cui la misura cautelare venga emessa non dal giudice procedente, ma dal tribunale in accoglimento dell’appello proposto ex art. 310 dal pubblico ministero avverso la decisione di rigetto. La questione sembra dover essere risolta senz’altro positivamente per evidenti ragioni di carattere sistematico, anche nell’ipotesi – non infrequente nella pratica giudiziaria – in cui il primo giudice, pur ritenendo sussistente la gravità indiziaria (e magari esternando adeguatamente, sul punto, la sua “autonoma valutazione”), abbia rilevato il difetto di esigenze cautelari .
 5. Le ulteriori modifiche concernenti le impugnazioni in materia cautelare personale. Nel corso del precedente paragrafo, si è avuto modo di soffermare l’attenzione sul nuovo testo del nono comma dell’art. 309 cod. proc. pen., e sul conseguente, sensibile mutamento del quadro dei poteri attribuiti al tribunale del riesame in sede decisoria.
 La legge n. 47  ha peraltro apportato ulteriori, rilevantissime modifiche alle norme che regolano il procedimento impugnatorio delle misure cautelari, che si cercherà di illustrare nelle pagine seguenti.Si vedrà, in particolare, che l’art. 11 è intervenuto sulle disposizioni che regolano la partecipazione del ricorrente al giudizio di riesame avverso i provvedimenti applicativi delle misure cautelari personali (cfr. infra, § 5.1), i termini perentori che caratterizzano il procedimento (§ 5.2), nonchè le conseguenze derivanti dal mancato rispetto di tali termini, non più limitate alla perdita di efficacia della misura (§ 5.3). 
 Si vedrà inoltre che l’art. 12 della legge in commento ha modificato la disciplina dei termini nel giudizio di appello ex art. 310 (§ 5.4), mentre l’art. 13 ha inserito, nell’art. 311 del codice di rito, una nuova disposizione in tema di giudizio di rinvio dinanzi al tribunale del riesame a seguito di annullamento della Corte di cassazione, assimilando tale giudizio – quanto alla perentorietà dei termini ed alle relative conseguenze – a quello “ordinario” ex art. 309 (§ 5.5).
 5.1. – Il procedimento di riesame: in particolare, la partecipazione del ricorrente all’udienza camerale. Com’è noto, la materia è stata finora regolata dall’ottavo comma dell’art. 309, con un rinvio alle disposizioni di cui all’art. 127 del codice di rito, il quale disegna un modello generale di procedimento camerale a partecipazione non necessaria: in tale modello, l’interessato ha diritto ad essere sentito se compare, mentre, qualora sia detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione e ne fa richiesta, ha diritto di essere sentito prima dell’udienza camerale dal magistrato di sorveglianza del luogo (art. 127, terzo comma).
 Alcune decisioni della Corte di cassazione, in linea con il predetto rinvio dell’art. 309 all’art. 127,  hanno affermato che il detenuto fuori distretto non ha diritto ad essere sentito in udienza, ma solo quello ad essere sentito dal magistrato di sorveglianza ; in una diversa e maggioritaria prospettiva, si è invece ritenuto che la mancata traduzione all’udienza camerale del detenuto fuori distretto (che ne abbia fatto richiesta) è causa di nullità assoluta ed insanabile, senza che da ciò derivi, peraltro, la perdita di efficacia della misura . Peraltro, anche di recente, la Suprema corte ha in alcune decisioni ancorato il diritto di presenziare del detenuto fuori distretto alla sussistenza di particolari connotazioni “sostanziali” della relativa richiesta, sostenendo in particolare la necessità che quest’ultima sia formalizzata “in modo tale da rendere manifesta la volontà di rendere dichiarazioni su questioni di fatto concernenti la propria condotta” . 
 Con specifico riguardo alla necessaria tempestività della richiesta di traduzione, la Suprema corte ha posto in evidenza che essa non deve pregiudicare la celerità del procedimento , ed ha in un caso precisato che la formulazione della richiesta deve avvenire “nella ragionevole immediatezza della ricezione della notificazione dell’avviso della data fissata per l’udienza camerale dinanzi al Tribunale” .È in tale contesto che è intervenuto l’art. 11 della legge in commento, modificando da un lato il sesto comma dell’art. 309, finora dedicato esclusivamente alle modalità di presentazione (contestuale all’impugnazione o successiva) dei motivi di gravame: si è in particolare disposto che con la richiesta di riesame, oltre a poter essere enunciati anche i motivi, “l’imputato può chiedere di comparire personalmente”. 
 D’altro lato, l’art. 11 ha aggiunto al comma 8-bis dell’art. 309 (finora dedicato alla legittimazione del p.m. richiedente la misura a partecipare all’udienza camerale) il seguente ulteriore periodo: “L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente”.
 La novella, peraltro, non ha in alcun modo “toccato” il rinvio (contenuto nel già citato ottavo comma dell’art. 309) alle disposizioni dettate in via generale, per il procedimento in camera di consiglio, dall’art. 127 del codice di rito: disposizioni alle quali la legge in commento sembra aver inteso derogare, ricollegando il diritto di comparire personalmente in udienza ad una previa richiesta in tal senso, da formulare nella richiesta di riesame.
 Nel tentativo di offrire una possibile lettura sistematica delle nuove disposizioni, non è forse superfluo precisare che l’ambito applicativo di queste ultime non può che riferirsi alle sole ipotesi in cui il ricorrente sia detenuto (per via del provvedimento impugnato o per altra causa) o internato, o comunque sottoposto ad altra misura privativa o limitativa della libertà personale che possa precludergli il libero intervento all’udienza camerale. Risulterebbe infatti radicalmente incompatibile con i principi della Carta costituzionale (art. 111) e della stessa Convenzione EDU (art. 6) un’interpretazione delle nuove norme volta a condizionare – anche per una persona non sottoposta alle predette limitazioni (ad es. un ricorrente cui sia stata applicata una misura coercitiva non detentiva) – l’intervento e la partecipazione all’udienza a presupposti meramente formali, quale l’inserimento di una richiesta in tal senso nell’atto introduttivo del giudizio impugnatorio.
 Il senso delle nuove disposizioni sembra quindi essere quello di affermare, in modo inequivoco, il diritto del ricorrente di comparire all’udienza camerale fissata per la trattazione, anche se eventualmente detenuto fuori distretto; la possibilità di esercitare tale diritto, peraltro, appare strettamente correlata, per l’impugnante detenuto o internato, alla formulazione della relativa richiesta nell’atto di riesame.Si tratta di un collegamento che, se interpretato con il rigore suggerito dalla lettera del novellato comma 8-bis, sembra poter suscitare qualche perplessità, soprattutto laddove si consideri, da un lato, che la richiesta di riesame può essere presentata anche personalmente dall’imputato o indagato (ovvero da un soggetto che generalmente non dispone delle necessarie cognizioni tecnico-giuridiche), il quale potrebbe quindi limitarsi a proporre l’impugnazione – anche senza motivi – confidando in una ragionevole possibilità di poter comparire in udienza mediante una successiva richiesta di traduzione. 
 D’altro lato, la scelta di comparire o meno in udienza e/o di chiedere di essere sentito dal tribunale risponde ovviamente anche – se non soprattutto – ad esigenze e valutazioni difensive di natura squisitamente tecnica, che sembra ben difficile “pretendere” già in sede di presentazione della richiesta di riesame: ovvero in un momento in cui la difesa non ha ancora contezza degli atti di indagine a suo tempo presentati dal p.m. a sostegno della richiesta di misura cautelare. Né paiono invocabili ragioni di ordine logistico od organizzativo tali da richiedere che il ricorrente sciolga, già all’atto della presentazione dell’impugnazione, la riserva in ordine alla propria partecipazione all’udienza camerale (cfr. supra) .
 È evidente che tali perplessità verrebbero immediatamente meno attribuendo al collegamento tra le due nuove disposizioni una valenza meno stringente, ovvero consentendo al ricorrente di comparire all’udienza camerale anche qualora non “ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6”, ma abbia tuttavia tempestivamente sollecitato la propria traduzione. Altrettanto chiara sarebbe peraltro la difficoltà, in questa prospettiva, di attribuire al comma 8-bis un ambito di pratica applicazione.Quel che appare certa, alla luce dell’immutato ottavo comma dell’art. 309, è la persistente possibilità, per il ricorrente detenuto fuori distretto, di intervenire nel procedimento camerale chiedendo di essere sentito, prima dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione.
 5.2. – Segue: l’inedita possibilità di differire, ad istanza di parte, la data dell’udienza ed i termini per la decisione ed il deposito del provvedimento. Con l’inserimento di un comma 9-bis all’interno dell’art. 309 cod. proc. pen., la legge in commento (art. 11, comma 4) ha introdotto una ulteriore innovazione di notevole rilievo sistematico, il cui ambito applicativo è stato esplicitamente esteso anche ai procedimenti di riesame avverso provvedimenti di sequestro (con l’inserimento, tra le disposizioni richiamate dall’art. 324 cod. proc. pen., anche del comma 9 bis dell’art. 309: cfr. sul punto infra, § 5.6).
 Com’è noto, uno degli snodi fondamentali che caratterizza il procedimento di riesame (personale e reale) è costituito dalla perdita di efficacia della misura, ai sensi del decimo comma dell’art. 309, qualora – tra l’altro – la decisione del tribunale del riesame non  intervenga nel termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti. 
 Si vedrà nel paragrafo seguente che anche la disciplina della perdita di efficacia della misura, per il mancato rispetto dei termini “interni” all’art. 309, ha subito modifiche di estremo rilievo da parte della legge in commento (cfr. infra, § 5.3). Quel che invece interessa sottolineare, in questa sede, è il carattere perentorio pacificamente riconosciuto (anche) al predetto termine di dieci giorni, il cui inutile decorso fa sorgere in capo al ricorrente il diritto all’immediata liberazione “in ragione di una valutazione legislativa di congruità del periodo di privazione della libertà personale in carenza di controllo” . Tale valutazione, in realtà, ha formato oggetto di specifiche censure di legittimità costituzionale, per la violazione del diritto di difesa correlata – specie nei procedimenti di particolare complessità – all’inadeguatezza del termine: la Consulta ha peraltro dichiarato la manifesta infondatezza delle questioni sollevate, osservando tra l’altro che la perentorietà del termine per la decisione “non è lesiva del diritto di difesa dell’imputato, ma realizza al contrario una forma di tutela per lo stesso in quanto la mancata decisione sul reclamo, entro il termine, determina l’immediata caducazione del provvedimento, evitando che il soggetto che lo ha impugnato possa essere danneggiato da inadempienze o ritardi dell’autorità giudiziaria” . È tuttavia indubbio che, nella pratica giudiziaria, si manifestano non di rado esigenze di adeguato approfondimento ed analisi del materiale trasmesso, che nei procedimenti di particolare complessità si rivelano assai poco compatibili con il breve termine per la decisione ex art. 309. 
 Alla soddisfazione di tali esigenze appare finalizzata l’introduzione del nuovo comma 9-bis dell’art. 309, ai sensi del quale “su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce la data dell’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi siano giustificati motivi. In tal caso il termine per la decisione e quello per il deposito dell’ordinanza sono prorogati nella stessa misura”.
 La ratio della nuova disposizione è, evidentemente, quella di “consentire alla difesa di prepararsi meglio” . Nonostante quindi la natura strettamente tecnica delle esigenze difensive che possono fondare una richiesta di differimento del termine, il legislatore ha inteso ricollegare quest’ultima, in termini di assoluta certezza, ad una manifestazione di volontà direttamente riconducibile all’imputato, per evidenti ragioni correlate alla delicatezza di un tema quale la privazione della libertà personale anche oltre il termine ordinariamente ritenuto congruo ex lege. È quindi necessario che sia il ricorrente a formulare “personalmente” la richiesta, in un termine breve (due giorni dalla notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza) per consentire al tribunale di procedere alle necessarie “controcitazioni”, ovviamente dopo aver ravvisato “giustificati motivi” a sostegno della richiesta.
 A tale ultimo proposito, è ragionevole ritenere che, dinanzi ad una richiesta di differimento fondata sulla complessità della vicenda processuale, sull’ampiezza della documentazione prodotta, ecc., ben difficilmente il tribunale sarà indotto a rigettare la richiesta, essendo ovviamente non estranee, anche al collegio giudicante, le esigenze di approfondimento e analisi cui si è già accennato. Va anzi posto in rilievo il fatto che, nel corso dei lavori parlamentari, era stata inserita la possibilità anche per lo stesso tribunale di differire d’ufficio, nella stessa misura, la data dell’udienza ed i termini per la decisione: nel testo definitivo del comma 9-bis, peraltro, tale possibilità officiosa di differimento è stata soppressa.
 Sotto un diverso profilo, ci si potrebbe chiedere se, nella valutazione giudiziale dell’istanza di differimento, possa o debba conferirsi rilievo alle difficoltà di ordine pratico e organizzativo che potrebbero insorgere, per il collegio giudicante: e ciò soprattutto nelle ipotesi – tutt’altro che rare, soprattutto nei procedimenti di notevole complessità – di richieste cumulative di riesame, in cui soltanto alcuni dei ricorrenti decidano  di avvalersi del potere di differimento.
 5.3. – Segue: la nuove disposizioni in tema di deposito dell’ordinanza di riesame e di perdita di efficacia della misura cautelare. L’aspetto innovativo di maggiore impatto, riscontrabile nell’intervento normativo oggetto della presente analisi, è probabilmente costituito dalla nuova formulazione del decimo comma dell’art. 309, introdotto dall’art. 11, comma 5, della legge in commento.Per meglio illustrare la portata delle modifiche in questione, appare anche in questo caso opportuno un brevissimo inquadramento della situazione “ante riforma”.
 5.3.1. – La perdita di efficacia della misura alla luce del previgente decimo comma dell’art. 309 cod. proc. pen.. Nel testo finora vigente, com’è noto, il decimo comma dell’art. 309 prevedeva che l’ordinanza applicativa perdesse efficacia in due sole specifiche ipotesi: da un lato, quella in cui gli atti posti a sostegno della richiesta di misura non fossero stati trasmessi entro il termine di cinque giorni dalla richiesta, ai sensi del quinto comma dello stesso art. 309; dall’altro, quella – già ricordata ad altri fini nel precedente paragrafo: cfr. supra, § 5.2 – in cui la decisione sulla richiesta di riesame non fosse intervenuta entro il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, ai sensi del nono comma dell’art. 309. 
 A tale ultimo proposito, si era ormai del tutto consolidata, in giurisprudenza, l’interpretazione secondo cui il termine doveva ritenersi rispettato se, entro il decimo giorno dalla ricezione degli atti, il tribunale avesse deliberato sulla richiesta di riesame ed avesse provveduto al deposito del dispositivo: non risultando invece necessario il deposito, nei dieci giorni, anche della motivazione dell’ordinanza .
 Altrettanto pacifica era poi l’ulteriore affermazione per cui, in caso di perdita di efficacia della misura ai sensi del combinato disposto dell’art. 309, nono e decimo comma, “è legittima la reiterazione della misura cautelare, ancorché applicata prima che sia posto in esecuzione il provvedimento di liberazione conseguente alla perdita di efficacia della precedente ordinanza, poiché la regola della preclusione processuale, in forza del principio del “ne bis in idem”, opera solo quando il provvedimento sia annullato in conseguenza di un riesame nel merito e non quando l’inefficacia della misura sia conseguenza di vizi puramente formali” . 
 Un contrasto giurisprudenziale era invece insorto sulla necessità, per il giudice procedente, di espletare un nuovo interrogatorio dell’indagato prima del ripristino del regime custodiale. Sul punto, sono di recente intervenute le Sezioni unite, affermando che il giudice “non è tenuto ad interrogare l’indagato prima di ripristinare nei suoi confronti il regime custodiale né a reiterare l’interrogatorio di garanzia successivamente all’esecuzione della nuova misura, sempre che tale adempimento sia stato in precedenza regolarmente espletato e sempre che l’ultima ordinanza cautelare non contenga elementi nuovi e diversi rispetto alla precedente”  .
 5.3.2. – Il nuovo testo del decimo comma dell’art. 309: l’introduzione di un termine perentorio anche per il deposito dell’ordinanza e l’esclusione della possibilità di rinnovare la misura “salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate”. In tale contesto normativo e giurisprudenziale, la legge in commento è intervenuta (art. 10, comma 5) inserendo, all’interno del decimo comma dell’art. 309, alcune rilevantissime novità.
 In primo luogo, è stato introdotto – accanto a quelli, già richiamati, per la trasmissione degli atti e per la decisione – anche un distinto ed ulteriore termine per il deposito dell’ordinanza in cancelleria, quantificato in trenta giorni decorrenti dalla decisione, salvo che la stesura della motivazione si riveli particolarmente complessa “per il numero degli arrestati  o la gravità delle imputazioni”: in tale ipotesi, il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione. 
 La nuova disposizione conferma quindi la possibilità – come detto già pacificamente ammessa in giurisprudenza, ed assai frequente nella prassi – di depositare l’ordinanza in un momento successivo rispetto a quello della decisione, ed in particolare anche oltre i dieci giorni indicati nel nono comma. Quel che interessa sottolineare, peraltro, è che anche il nuovo termine – come quelli relativi alla trasmissione degli atti ed alla decisione – ha natura perentoria, essendo anche la sua violazione “sanzionata” con la perdita di efficacia dell’ordinanza applicativa della misura cautelare.
 Inoltre – ed è questa certamente la novità di maggiore impatto – la novella opera una drastica riduzione della possibilità, finora indiscussa (cfr. supra, § 5.3.1), di emettere un nuovo titolo cautelare: nella nuova formulazione, il decimo comma dell’art. 309 prevede infatti che, in caso di perdita di efficacia per il mancato rispetto di uno dei termini predetti, “l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata”.
 5.3.3. – Le possibili criticità correlate alle nuove disposizioni. Si ritiene di dover evidenziare che la disposizione da ultimo richiamata – introdotta in termini analoghi ma non identici, come si vedrà in seguito, anche nel giudizio di rinvio conseguente ad annullamento da parte della Corte di cassazione (cfr. infra, § 5.5) – sembra dare adito ad alcuni rilievi critici.
 Con il divieto di rinnovazione della misura salvo esigenze eccezionali, il legislatore ha evidentemente inteso sanzionare il difettoso funzionamento della “macchina giudiziaria” manifestatosi nella violazione di uno dei tre termini fissati dall’art. 309. È del resto estremamente significativo, al riguardo, il fatto che, nel corso dell’iter parlamentare che ha condotto all’approvazione della legge in commento, era stato previsto in Senato – con un’ipotesi di modifica dell’art. 2 d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 – un nuovo illecito disciplinare riguardante i magistrati proprio per le ipotesi di violazione dei termini relativi al procedimento di riesame, anche in sede di rinvio: illecito per il quale era stata stabilita una sanzione non inferiore alla censura. Tale disposizione è stata peraltro soppressa in sede di seconda lettura alla Camera dei Deputati:  è rimasta invece immutata (cfr. art. 15 della legge in commento) quella concernente la presentazione, da parte del Governo, di una relazione annuale alle Camere “contenente dati, rilevazioni e statistiche relativi all’applicazione, nell’anno precedente, delle misure cautelari personali, distinte per tipologie, con l’indicazione dell’esito dei relativi procedimenti, ove conclusi”.
 Appare peraltro necessario porre in evidenza, a proposito del divieto di rinnovazione, che la “risposta sanzionatoria” prevista dalla legge n. 47 per il mancato rispetto di uno dei termini ex art. 309 – vicenda che in concreto può essere dovuta anche solo ad un banale disguido nella formazione del fascicolo da trasmettere ai sensi del quinto comma, ovvero ad un difetto di notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale, tale da impedire (per il brevissimo arco temporale a disposizione per eventuali rinnovi) la celebrazione rituale dell’udienza stessa, con il rispetto cioè dei tre giorni “liberi” di cui all’ottavo comma dell’art. 309 – rischia di risolversi in una sorta di improprio “salvacondotto” per il ricorrente, la cui posizione nel procedimento sembrerebbe addirittura non più aggredibile, rebus sic stantibus, con limitazioni di sorta della libertà personale , fatta salva la sola ipotesi della eccezionalità delle esigenze cautelari: e ciò nonostante che il p.m. richiedente, ed il giudice emittente il titolo cautelare, abbiano concordemente ritenuto la sussistenza delle esigenze medesime, con connotazioni non solo di “concretezza”, ma anche di “attualità” (cfr. supra, § 1).
 Le perplessità aumentano laddove si consideri, da un lato, l’ipotesi regolata dall’art. 302 cod. proc. pen., in cui la perdita di efficacia della misura consegue all’omesso interrogatorio, da parte del giudice procedente, nei termini previsti dall’art. 294 cod. proc. pen. (cinque giorni dall’inizio della custodia in carcere, dieci ove si tratti di misura diversa). 
 Trattasi, con ogni evidenza, di un’ipotesi di malfunzionamento del sistema giudiziario di rilievo, anche sistematico, certamente non inferiore al mancato rispetto dei termini ex art. 309: è tuttavia in questo caso espressamente previsto, dal citato art. 302, che la misura possa essere nuovamente disposta (dopo la liberazione dell’imputato ed il suo previo interrogatorio a piede libero) quando “sussistono le condizioni indicate negli articoli 273, 273 e 275”. In altri termini, una volta soddisfatte le condizioni procedimentali predette – alle quali va equiparata l’ipotesi in cui l’indagato non si presenti a rendere l’interrogatorio – l’emissione della nuova ordinanza è soggetta agli ordinari parametri in punto di gravità indiziaria, esigenze cautelari e scelta delle misure: risultando quindi del tutto estraneo, rispetto alla nuova valutazione giudiziale, il requisito della eccezionalità delle esigenze.
 Altrettanto significativo, d’altro lato, appare il confronto con la disciplina dettata dal secondo comma dall’art. 307 cod. proc. pen. in tema di ripristino della custodia cautelare nonostante la già avvenuta perdita di efficacia (e conseguente scarcerazione) per decorrenza dei termini.
 È noto infatti che, sussistendo i particolari presupposti indicati nelle lett. a) e b) del citato secondo comma, la custodia cautelare può essere ripristinata – in deroga alla regola generale fissata dal primo comma dell’art. 307 – anche nei confronti della persona che si è vista restituire la libertà per aver trascorso in stato detentivo il periodo massimo (quantificabile anche in anni) stabilito dall’ordinamento.
 Ebbene, anche in questa particolare eventualità – che certamente non segnala, nella vicenda concreta, il perfetto funzionamento del sistema processuale – il ripristino della custodia cautelare non è affatto condizionato alla sussistenza di esigenze cautelari eccezionali, ma solo al fatto che “ricorra”, in un caso, “taluna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274” (cfr. lett. a dell’art. 307, relativa al ripristino per la trasgressione dolosa alle prescrizioni della misura non detentiva applicata dopo la scarcerazione); ovvero, nell’altro caso, “l’esigenza cautelare prevista dall’articolo 274 comma 1 lett. b” (cfr. lett. b dell’art. 307, relativa al ripristino dopo l’emissione della sentenza di condanna, in primo o secondo grado, in presenza appunto di un “ordinario” pericolo di fuga).
 Sarà ovviamente l’elaborazione interpretativa, in sede dottrinale e giurisprudenziale, a delineare l’effettivo impatto della riforma sul sistema delle misure cautelari, nel quale la natura “eccezionale” delle esigenze ha finora svolto la ben diversa, fondamentale funzione di individuare un plausibile equilibrio (cfr. art. 275, commi 4 – 4 ter, cod. proc. pen.; art. 89 T.U. Stup.) tra la necessità di ricorrere alla misura più severa e quella di tenere in adeguato conto le particolari condizioni personali del soggetto cui la misura stessa deve essere applicata. Alla medesima elaborazione sarà affidato anche il compito di precisare la consistenza degli oneri di “specifica” motivazione in ordine alla sussistenza di esigenze eccezionali, specie nelle ipotesi in cui tale requisito non era stato evidenziato “in prima battuta” (ovvero nel provvedimento divenuto inefficace per il mancato rispetto dei termini).
 Una ulteriore questione concerne poi la possibilità per il p.m. di richiedere l’emissione di un nuovo titolo cautelare sulla base di ulteriori elementi, sopravvenuti o comunque non sottoposti all’attenzione del giudice nella prima occasione: a tale quesito, sembra possibile rispondere senz’altro positivamente, sulla scorta dei principi ripetutamente affermati, in proposito, dalla Corte di cassazione .
 5.4. – L’intervento sui termini della decisione in appello ex art. 310 cod. proc. pen. Con l’art. 12, la legge in commento ha modificato anche la disciplina dei termini per la decisione adottata dal tribunale in sede di appello ex art. 310 cod. proc. pen. Com’è noto, tale articolo disciplina il procedimento relativo al giudizio di appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali (ordinanze ovviamente diverse da quelle che, riguardando la fase applicativa della misura cautelare personale coercitiva, rientrano nel campo di applicazione riservato al riesame ex art. 309). 
 Con specifico riferimento alla fase decisoria, il testo finora vigente si limitava a prevedere che “il tribunale decide entro venti giorni dalla ricezione degli atti” (art. 310, secondo comma, ultimo periodo). Del tutto incontroversa è, al riguardo, l’affermazione giurisprudenziale secondo cui il mancato rispetto di tale termine non comporta l’inefficacia del provvedimento restrittivo, non rientrando il comma decimo dell’art. 309 tra quelli richiamati dall’art. 310, e non essendo possibile il ricorso a procedimenti analogici, “perché ogni decadenza è soggetta al principio di tassatività” .
 La novella è intervenuta aggiungendo al predetto termine per la decisione, anche nel giudizio di appello, un termine per il deposito dell’ordinanza, anche in questo caso quantificato in trenta giorni , salva la possibilità di disporre un termine più lungo (comunque non eccedente i quarantacinque giorni) in caso di complessità della motivazione desunta “dal numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni”.
 La disposizione introdotta nell’art. 310 è dunque praticamente identica a quella inserita nel decimo comma dell’art. 309 (cfr. supra, § 5.3.2). Radicalmente diverse, peraltro, appaiono le conseguenze derivanti dalla violazione del termine così introdotto, che nel giudizio di appello ha tuttora carattere meramente ordinatorio: la novella non ha infatti riprodotto, all’interno dell’art. 310, anche le disposizioni concernenti la perdita di efficacia della misura in precedenza illustrate, né ha inserito alcun richiamo al decimo comma dell’art. 309 (di tale articolo, continuano perciò ad osservarsi, nel procedimento di appello, le sole disposizioni di cui ai commi primo, secondo, terzo, quarto e settimo: cfr. l’immutato art. 310, secondo comma, primo periodo).
 Da tutto ciò consegue che il mancato rispetto dei termini per la decisione e per il deposito dell’ordinanza, di cui al novellato art. 310, continua ad essere privo di effetti sulla validità ed efficacia della misura cautelare.
 5.5. – I termini per la decisione nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento dell’ordinanza emessa dal tribunale. Di ben diverso impatto appare invece la modifica intervenuta in tema di giudizio di rinvio conseguente all’annullamento da parte della Suprema corte, su ricorso dell’imputato, dell’ordinanza “che ha disposto o confermato la misura coercitiva ai sensi dell’art. 309, comma 9” (cfr. il comma 5-bis dell’art. 311 cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 13 della legge in commento).
 Anche in questo caso, la nuova disposizione concerne i termini per la decisione e per il deposito dell’ordinanza, materia che per il giudizio di rinvio non aveva finora ricevuto alcuna specifica regolamentazione: era peraltro risultata pacifica, in giurisprudenza, la tesi dell’inapplicabilità a tale giudizio di quanto previsto dal decimo comma dell’art. 309, in tema di perdita di efficacia della misura nell’ipotesi di omessa decisione sulla richiesta di riesame entro dieci giorni . 
 L’interesse difensivo ad estendere anche al giudizio di rinvio la portata applicativa del decimo comma dell’art. 309 era correlato, ovviamente, al fatto che – in forza di un principio altrettanto pacifico – la decisione di annullamento con rinvio dell’ordinanza applicativa della misura, per difetto di motivazione, non determina la perdita di efficacia della misura stessa (salva la sola ipotesi – secondo quanto di recente precisato in giurisprudenza – della motivazione del tutto carente e perciò radicalmente insuscettibile di integrazione) .
 Il nuovo comma 5-bis dell’art. 311 cod. proc. pen. (articolo che per il resto regola il procedimento dinanzi alla Corte di cassazione, e la relativa decisione) ha introdotto anche per il giudizio di rinvio un doppio termine, per la decisione (dieci giorni decorrenti dalla ricezione degli atti) e per il deposito dell’ordinanza (trenta giorni decorrenti dalla decisione). 
 A differenza di quanto si è visto in precedenza, a proposito dei novellati artt. 309 e 310, non è stata contemplata la possibilità, per il giudice del rinvio, di disporre un termine non superiore a quarantacinque giorni: la diversa disciplina riflette probabilmente – salvo che si tratti di una svista del legislatore – una (opinabile) valutazione di non particolare complessità di un nuovo giudizio scaturito dall’annullamento con rinvio della Suprema corte.
 Il nuovo comma 5-bis dispone inoltre che, qualora i predetti termini non vengano rispettati, “l’ordinanza che ha disposto la misura coercitiva perde efficacia, salvo che l’esecuzione sia sospesa ai sensi dell’articolo 310, comma 3, e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata”. 
 Viene dunque stabilito, anche per il procedimento conseguente ad una decisione di annullamento con rinvio, il principio della perentorietà dei termini e della conseguente perdita di efficacia della misura, in caso di loro violazione: principio che, ovviamente, non trova applicazione qualora l’annullamento con rinvio abbia riguardato un’ordinanza applicativa di misura cautelare emessa dal tribunale in accoglimento di un appello del p.m., la cui esecuzione – secondo la regola generale posta dall’immutato terzo comma dell’art. 310 – resta sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva.
 Al riguardo, si ritiene di poter affermare che l’introduzione di termini perentori anche per la definizione del giudizio di rinvio – certamente foriera di un rilevante aggravio per i tribunali di cui al settimo comma dell’art. 309 – risponde innegabilmente all’esigenza di definire con la massima celerità la posizione di chi, pur essendosi visto riconoscere la fondatezza delle proprie ragioni dinanzi alla Suprema corte, si trovi tuttavia ancora soggetto alla misura cautelare (essendo tra l’altro inevitabile, per il notorio abnorme carico di lavoro, che la decisione di legittimità possa intervenire anche oltre il termine di cui al quinto comma dell’art. 311). 
 Tuttavia, per ciò che riguarda il divieto di rinnovare la misura salvo che ricorrano esigenze eccezionali specificamente motivate, non può che rinviarsi a quanto già criticamente osservato a proposito dell’analoga disposizione introdotta, per il procedimento di riesame, nel decimo comma dell’art. 309 (cfr. supra, § 5.3.3). 
 Va anzi sottolineato, al riguardo, che il sistema sembra complessivamente prestare il fianco ad ulteriori rilievi critici proprio con riferimento all’ipotesi, appena ricordata, di giudizio di rinvio conseguente all’annullamento di un’ordinanza cautelare emessa in sede di appello ex art. 310. In questo caso, infatti, dall’eventuale violazione dei termini per la decisione e per il deposito dell’ordinanza – che non può determinare la perdita di efficacia di un titolo che ne è ancora privo, ai sensi del terzo comma dell’art. 310 – non deriva alcuna conseguenza sullo “status cautelare” dell’indagato, cui resta estraneo qualsiasi “sopravvenuto” riferimento alla eccezionalità delle esigenze per il solo fatto (evidentemente del tutto casuale) che il titolo cautelare annullato con rinvio sia stato emesso non dal giudice procedente, ma dal tribunale ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.. 
6. L’impatto della riforma sul sistema delle impugnazioni avverso provvedimenti di sequestro. La legge in commento dedica alla materia un solo articolo: si tratta dell’ultimo comma dell’art. 11, che ha modificato l’art. 324, settimo comma, cod. proc. pen., inserendo – tra le disposizioni dell’art. 309 richiamate e quindi applicabili anche al procedimento di riesame reale – anche il nuovo comma 9-bis.Si vedrà tra breve che tale modifica, in apparenza di mero coordinamento, impone una riflessione in ordine ai rapporti tra i due articoli, con particolare riferimento alla questione della natura (recettizia o meno) del rinvio operato dall’art. 324 ad alcuni commi dell’art. 309: riflessione che appare imprescindibile per individuare l’effettivo impatto, sul sistema impugnatorio reale, delle nuove disposizioni introdotte dalla legge n. 47 in tema di riesame personale.
 Si farà anche brevemente cenno alla questione dell’applicabilità, alle impugnazioni avverso i provvedimenti di sequestro, delle ulteriori nuove disposizioni introdotte in tema di appello cautelare personale e di giudizio di rinvio.
 6.1 – Il nuovo testo del settimo comma dell’art. 324 cod. proc. pen. e la natura del rinvio all’art. 309. Nel testo previgente, l’art. 324 del codice di rito, dedicato al procedimento di riesame avverso i provvedimenti di sequestro preventivo, conservativo e probatorio (cfr. artt. 322, 318, 257, 355), disponeva al settimo comma che, a tale procedimento, si applicassero le disposizioni del nono e del decimo comma dell’art. 309.
 Come già accennato, l’art. 11 della legge in commento ha inserito, nell’art. 324, il richiamo anche al comma 9-bis dell’art. 309 (introdotto dallo stesso art. 11 e concernente la possibilità, per il ricorrente, di chiedere il differimento dell’udienza camerale da cinque a dieci giorni: cfr. supra, § 5.2): sicchè, nel testo modificato, il settimo comma dell’art. 324 prevede che nel procedimento di riesame reale “si applicano le disposizioni dell’art. 309, commi 9, 9-bis e 10”.
 È doveroso chiedersi se, per effetto di tale modifica dell’art. 324 – e nonostante l’apparente sua assoluta linearità – risultino oggi applicabili, alle impugnazioni avverso i provvedimenti di sequestro, non solo le nuove disposizioni di cui all’art. 9-bis, ma anche quelle, di eccezionale rilievo, inserite nei commi nono e decimo dell’art. 309 (cfr. supra, § 5.3).
 Va infatti ricordato che, con una recente pronuncia , le Sezioni unite della Corte di cassazione – chiamate a pronunciarsi sull’applicabilità, ai riesami reali, del termine per la trasmissione degli atti e della relativa sanzione di inefficacia di cui ai commi quinto e decimo dell’art. 309  – hanno risolto negativamente il quesito, motivando diffusamente tale soluzione, tra l’altro, alla luce della la natura recettizia, e non formale , del rinvio dell’art. 324 ai commi nono e decimo dell’art. 309.
 In particolare, per quanto qui specificamente interessa, il Supremo consesso ha affermato (par. 15.4) che “il rinvio che il comma 7 dell’art. 324 cod. proc. pen. effettua ai commi 9 e 10 del precedente art. 309 è riconoscibilmente recettizio, vale a dire statico; esso cioè è fatto alla mera veste letterale dei predetti commi. Il legislatore, in altre parole, invece di riprodurre, nel comma 7 dell’art. 324, le formule verbali dei commi 9 e 10 dell’art. 309 (così come si presentavano prima della riforma del 1995), le richiama perché si abbiano per trascritte. Tale modalità di “incorporazione” per relationem comporta, inevitabilmente, la cristallizzazione della disposizione normativa recepita, che dunque, una volta inglobata nella norma che la richiama, ne entra a far parte integrante e non segue le eventuali “sorti evolutive” della norma richiamata”.
 Il problema che si pone, evidentemente, è quello di stabilire se le conclusioni raggiunte nella sentenza Cavalli – secondo cui, in sostanza, ai riesami reali devono applicarsi i commi nono e decimo dell’art. 309 nella formulazione originaria – debbano essere tenute ferme anche nell’attuale situazione, ovvero dopo le modifiche apportate ai predetti commi dalla legge in commento. Si tratta, all’evidenza, di un quesito tutt’altro che teorico, essendo in gioco l’applicabilità, ai procedimenti di riesame avverso provvedimenti di sequestro, delle rilevantissime modifiche apportate ai commi predetti ed illustrate in precedenza (annullamento dell’ordinanza cautelare in caso di motivazione mancante o difettosa nella “autonoma valutazione”; termine per il deposito dell’ordinanza, perentorio come gli altri; impossibilità di rinnovare la misura divenuta inefficace per la scadenza dei termini, salva l’esistenza di esigenze eccezionali).
 Un elemento di sicuro rilievo, deponente a favore della possibilità di valutare oggi in termini diversi la natura e la portata del rinvio, è costituito dal fatto che, mentre la legge del 1995 si era occupata esclusivamente sulla materia delle misure cautelari personali e delle relative impugnazioni, senza alcun corrispondente “ritocco” nel settore che qui interessa (e a tale “silenzio” le Sezioni unite hanno conferito una specifica rilevanza: cfr. par. 9.2 della sentenza Cavalli), la legge in commento è intervenuta anche sul settimo comma dell’art. 324 cod. proc. pen., integrando il rinvio – come si è visto – con il richiamo anche del nuovo comma 9-bis. Non sembra quindi irragionevole ritenere che il legislatore, stabilendo l’applicabilità anche in tale settore delle “disposizioni dell’art. 309, commi 9, 9-bis e 10”, si sia voluto riferire alla versione attuale dei commi nono e decimo, e non a quella originaria.
 In senso contrario, potrebbe forse essere valorizzato, da un lato, il fatto che nelle disposizioni di cui ai novellati commi nono e decimo dell’art. 309 vi sono riferimenti inequivoci alla (sola) materia delle misure personali (esigenze cautelari e indizi su cui fornire “autonoma valutazione”; eccezionali esigenze cautelari legittimanti la rinnovazione della misura; complessità della motivazione desumibile dal “numero degli arrestati”) e, d’altro lato, il fatto che le nuove “corrispondenti” disposizioni dettate per il giudizio di rinvio appaiono certamente inapplicabili ai procedimenti di riesame reale, essendo contenute nel nuovo comma 5-bis dell’art. 311: laddove invece il terzo comma dell’art. 325 cod. proc. pen., rimasto immutato, continua a richiamare per il giudizio di legittimità concernente le impugnazioni reali i soli commi terzo e quarto dell’art. 311. Inoltre, su un piano strettamente letterale, va rilevato che l’art. 11 della legge n. 47 non ha operato un intervento integralmente sostitutivo del previgente settimo comma dell’art. 324 (come avvenuto, ad es., con il comma 1-ter dell’art. 276: cfr. supra, § 2.4), ma si è limitato a sostituire le parole “articolo 309 commi 9” con le parole “articolo 309, commi 9, 9-bis”: non vi è stato quindi alcun esplicito richiamo, da parte della nuova legge, al decimo comma dell’art. 309.
 Sarà ovviamente l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale a far chiarezza al riguardo, fermo restando che anche il comma 9-bis dell’art. 309, certamente applicabile ai riesami reali, può dar adito a perplessità, dal momento che la possibilità di richiedere il differimento dell’udienza camerale è in quella sede riservata (personalmente) al solo imputato, laddove invece la legittimazione a proporre richiesta di riesame avverso i provvedimenti di sequestro è riconosciuta a diversi altri soggetti anche estranei al procedimento (cfr. i citati artt. 322, 318, 257 cod. proc. pen.).
 Infine, quanto alla specifica questione risolta dalla sentenza Cavalli (come detto relativa all’applicabilità del termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti, di cui ai commi quinto e decimo dell’art. 309), si ritiene che nelle nuove disposizioni non vi siano comunque elementi per discostarsi dalla soluzione negativa raggiunta dal Supremo consesso: in quella sede, infatti, erano state sviluppate – oltre a quelle sulla natura recettizia del rinvio all’art. 309 – ulteriori convincenti argomentazioni di ordine testuale e sistematico, che non appaiono in alcun modo intaccate dalla novella .
 6.2. – L’applicabilità delle altre disposizioni introdotte in tema di impugnazioni cautelari personali. Come si è appena accennato, sembra da escludere – in caso di annullamento con rinvio di un’ordinanza del tribunale del riesame confermativa di un provvedimento di sequestro – l’applicabilità dei termini perentori introdotti, per la corrispondente situazione cautelare personale, con l’inserimento del comma 5-bis nell’art. 311.
 Tali disposizioni, infatti, non sono state in alcun modo richiamate dal novellato art. 324, né la legge in commento ha ritenuto di modificare, a tali fini, l’art. 325 del codice di rito (articolo “corrispondente” all’art. 311, quanto alla disciplina della fase di legittimità dei procedimenti impugnatori reali).Per ciò che riguarda invece le modifiche introdotte dall’art. 12 della legge in commento alla disciplina dell’appello cautelare personale ex art. 310, con l’inserimento del termine per il deposito della decisione in cancelleria (cfr. supra, § 5.4), si ritiene che non vi siano ostacoli all’applicazione di tale termine anche nel settore dell’appello cautelare reale.
 Com’è noto, la materia è regolata dall’art. 322-bis cod. proc. pen., il cui secondo comma dispone che “si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 310”. Nessun problema di compatibilità sembra porre l’applicazione del termine di trenta giorni (allungabile fino a quarantacinque) introdotto per l’appello cautelare personale: fermo restando che, anche in questo caso – e per le stesse ragioni evidenziate a proposito dell’art. 310 – deve escludersi che il nuovo termine abbia carattere perentorio (cfr. supra, § 5.4).

7. Le modifiche all’art. 21-ter l. 26 luglio 1975, n. 354 (ord. pen.). Nel corso dell’iter parlamentare, sono state inserite nel provvedimento legislativo alcune rilevanti modifiche all’art. 21-ter ord. pen., che nel testo finora vigente regolava le modalità con cui i genitori condannati, imputati o internati potevano essere autorizzati, in presenza di determinati presupposti, a visitare o ad assistere (solo) il proprio figlio minore infermo.
 In particolare, il primo comma prevedeva e tuttora prevede tale possibilità (previa autorizzazione del tribunale di sorveglianza ovvero, nei casi di assoluta urgenza, del direttore dell’istituto) “in caso di imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute del figlio minore, anche non convivente”. Nel secondo comma, invece, era ed è tuttora contemplata la possibilità (previa autorizzazione “con provvedimento da rilasciarsi da parte del giudice competente”) di assistere il figlio “di età inferiore a dieci anni” in occasione di “visite specialistiche, relative a gravi condizioni di salute”.
 La legge in commento (art. 14, comma 1, lett. a, b, c) ha, in primo luogo, ampliato la possibilità di visita ed assistenza del figlio di persone condannate, detenute o internate, estendendola anche all’ipotesi in cui egli sia “affetto da handicap in situazione di gravità, ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertata ai sensi dell’articolo 4 della medesima legge”. Indipendentemente dall’età, pertanto, il figlio può essere visitato o assistito dai genitori – se autorizzati secondo quanto previsto dai primi due commi dell’art. 21-ter – quando “la  minorazione,  singola  o  plurima,   abbia   ridotto l’autonomia   personale,  correlata  all’eta’,  in  modo  da  rendere necessario un intervento  assistenziale  permanente,  continuativo  e globale  nella  sfera  individuale  o  in  quella  di  relazione” (art. 3, comma 3, l. n. 104 del 1992), Tale situazione di gravità deve essere stata accertata “dalle unita’ sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all’articolo 1 della legge 15 ottobre  1990,  n.  295, che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto  nei  casi da esaminare, in servizio presso le unita’ sanitarie locali” (art. 3, comma 4, della stessa legge).
 In secondo luogo, la legge in commento ha ulteriormente e assai considerevolmente ampliato la portata applicativa dell’art. 21-ter ord. pen., inserendovi un comma 2-bis, ai sensi del quale i due commi precedenti “si applicano anche nel caso di coniuge o convivente” affetto da handicap grave (cfr. art. 14 lett. d).
 Vi è da dire che l’art. 21-ter, introdotto dalla l. 21 aprile 2011, n. 62, ha sollevato alcune incertezze interpretative, specie con riguardo alla forma del provvedimento autorizzativo ed alla possibilità di impugnare un’eventuale decisione di rigetto dell’istanza : tali aspetti, peraltro, non sono stati in alcun modo interessati dall’intervento legislativo qui commentato. Redattore: Vittorio Pazienza                                  

Il vice direttore Giorgio Fidelbo  

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