Licenziamento e contratto a termine: due storie parallele

diritto del lavoro

di Flavio Baraschi

Recenti interventi del legislatore e della Corte Costituzionale hanno mescolato le carte in materia di contratto a tempo determinato e di licenziamento con esiti sui quali la riflessione è, ancora, aperta.

Può quindi essere interessante riflettere sulla normativa che nel corso degli anni ha disciplinato tali istituti secondo intenzioni e spinte volta per volta diversi.

Ed invero, la regolamentazione del contratto di lavoro a tempo determinato così come quella del licenziamento individuale sono state oggetto, negli ultimi anni, di ripetuti interventi del legislatore che ha smantellato un assetto normativo che durava, sostanzialmente immutato da alcuni decenni.

In questi interventi si intravede un intento, volta per volta, permissivo o restrittivo che riguarda entrambi gli istituti giuridici.

Tuttavia, a ben guardare, le sorti del contratto a tempo determinato e quelle del licenziamento ben potrebbero muovere in direzioni opposte e questo perché, evidentemente, l’interesse del datore di lavoro ad assumere a termine, e quindi la necessità di una tutela del lavoratore in questo ambito, è maggiore tanto più restrittiva sia la normativa sui licenziamenti: se posso licenziare facilmente, in altre parole, non ho interesse ad assumere con un contratto a tempo determinato.

Può essere quindi interessante ripercorrere, brevemente, le tappe di questa lunga storia normativa.

Nel codice civile del 1942, di impostazione liberale, l’art. 2118 c.c. consentiva a ciascuno dei contraenti di recedere dal contratto di lavoro tempo indeterminato con il solo obbligo di riconoscere il preavviso ovvero, in mancanza, di corrispondere all’altra parte una indennità risarcitoria, detta appunto di mancato preavviso.

L’art. 2119 c.c. prevedeva poi che il recesso potesse avvenire senza obbligo di preavviso in presenza di una giusta causa ossia di una causa che non consentisse la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro.

L’assetto liberale proprio del codice civile è stato però progressivamente superato.

Con l’entrata in vigore della Costituzione italiana il lavoro viene posto al centro della tutela costituzionale come valore fondante della nostra democrazia ( art.1 comma 1 ). Gli artt. 4, 35, 36, 37, 38, 40, 41 Cost. sanciscono la necessità di una tutela del lavoro in tutte le sue forme ed in tutti i suoi momenti. Il lavoratore viene quindi protetto come parte debole del rapporto contrattuale ed il lavoro come fonte di sostentamento necessaria per garantire a lui ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

In questa ottica, attraverso un lungo processo, viene superato il concetto di libera recedibilità ( salvo l’obbligo di preavviso ) sancito nel codice civile e si afferma la necessità che il recesso da parte del datore di lavoro sia sempre e comunque giustificato.

Il percorso passa attraverso la stipula di accordi interconfederali  e si compie con l’adozione di tre leggi fondamentali, ossia le leggi n. 604 del 1966, la legge n. 300 del 1970 e la legge n. 108 del 1990, che hanno definitivamente sancito la necessità che il licenziamento sia intimato in presenza di un motivo valutabile, sia esso legato alla condotta del lavoratore o alle vicende dell’impresa.

In particolare, come è noto, l’art. 3 della legge n. 604 del 1966 prevede che “il licenziamento con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”.

Lo Statuto dei Lavoratori ( legge n.300/70 ) completa il quadro prevedendo una tutela reintegratoria piena ( c.d. tutela reale ) per i lavoratori illegittimamente licenziati da datori di lavoro con più (di 15) dipendenti.

Nell’impostazione della legge n. 300/70 la tutela dipende unicamente dalle dimensioni occupazionali del datore di lavoro: per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, qualsiasi vizio del licenziamento, sia esso sostanziale, formale o meramente procedimentale, viene sanzionato con la reintegrazione del lavoratore ed il risarcimento del danno in misura pari a tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento alla effettiva reintegra.

Questa rigidità in uscita dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato incrementa il ricorso al contratto a tempo determinato oltre che alle collaborazioni coordinate e continuative, prive di una disciplina specifica nel nostro ordinamento.

Tale assetto rimane immutato, sostanzialmente, fino al 2012, come vedremo.

Per quanto riguarda il contratto a tempo determinato, il codice civile si limitava a prevedere l’art. 2097 c.c. (poi abrogato dalla legge del 1962) che “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto. In quest’ultimo caso l’apposizione del termine e priva di effetto, se e fatta per eludere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo indeterminato”.

La legge n. 230 del 1962 modifica profondamente tale impostazionee disciplinacon sfavore il contratto di lavoro a termine prevedendone la possibilità nelle sole ipotesi tassativamente fissate per legge e disponendo che ogni violazione della normativa dettata comportasse la trasformazione del contratto in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. 

Con la legge n.56 del 1987 si è poi dilatato l’ambito delle ipotesi nelle quali al datore di lavoro è consentito di ricorrere al contratto a termine ed in particolare si è previsto che l’individuazione delle stesse sia delegata alla contrattazione collettiva (con una delega che la giurisprudenza considera “in bianco” ossia non legata al rispetto della stessa specificità richiesta dalla legge del 1962).

Nel 1999 viene adottata la Direttiva europea che recepisce un accordo delle parti sociali in materia di contratto di lavoro a tempo determinato(DIRETTIVA 1999/70/CE DEL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato). La Direttiva ha come principali finalità quelle di: a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato ( clausola 1 ).

Benché la legge italiana del 1962 potesse già, in sostanza, essere considerata conforme alle previsioni della direttiva europea, il legislatore nel 2001 interviene modificando radicalmente l’assetto normativo sul contratto a tempo determinato.

Al posto delle ipotesi tassative previste dalla legge del 230/1962, il D.Lgs n. 368 del 2001 introduce un’unica causale ampia e generica (che viene subito battezzata “causalone”): l’apposizione del termine è ora consentita a fronte di esigenze di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo.

La formulazione generica della causale determina una esplosione del contenzioso che riguarda ogni settore produttivo e raggiunge numeri altissimi con riferimento ai contratti a tempo determinato stipulati da Poste Italiane ( oltre che nel settore scolastico ).

Si apre così una fase nuova della normativa in esame e l’impostazione rigida e restrittiva adottata negli anni ’60 e ’70 comincia ad essere erosa.

La legge del 2001 subisce una serie ripetuta di interventi da parte del legislatore negli anni immediatamente successivi. La direzione nella quale si evolve la legislazione è quella della a-causalità ossia del superamento delle causali ( singole o generiche che siano ): i limiti all’abuso del contratto a termine vengono quindi individuati altrove, nel numero massimo dei rinnovi e delle proroghe consentiti, nella durata massima complessiva del rapporto, nella percentuale di lavoratori assunti a termine rispetto a quelli stabili. 

Già il Decreto 368/2001 prevedeva la possibilità di contratti a-causali in materia di servizi postali ( oltre che di trasporto aereo e servizi aereoportuali). La legge c.d. Fornero ( legge n. 92 del 2012 ) consente, in generale, la stipula di un solo contratto a termine privo di causale per la durata massima di 12 mesi, purché si tratti del primo rapporto contrattuale tra le parti.

L’evoluzione si compie definitivamente con il D.Lgs 81 del 2015 che prevede la possibilità di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato, senza necessità di indicare alcuna causa o motivazione, per la durata massima complessiva di 3 anni. Restano limiti alla possibilità di rinnovare o prorogare il contratto così come il c.d. contingentamento, ossia la necessità che i lavoratori assunti a termine non superino una certa percentuale della complessiva forza lavoro del datore di lavoro.

Per quanto riguarda i licenziamenti, l’assetto delle leggi degli anni ’60 e ’70 resiste fino al 2012. La legge Fornero, invero, non introduce alcuna novità circa le cause di giustificazione del licenziamento:motivo oggettivo, soggettivo e giusta causa restano alla base della necessaria giustificazione del licenziamento. Del resto, è evidente che ogni tentativo di dare un contenuto predeterminato a queste clausole generali, di elencare singole ipotesi nelle quali il licenziamento risulti giustificato, sarebbe stato vano ed incapace di cogliere le infinite possibilità nelle quali le vicende lavorative ed umane si estrinsecano.

La legge del 2012, piuttosto, modifica il sistema delle sanzioni ed in particolare l’art. 18 della legge 300/70 introducendo diversi livelli di tutela in relazione al tipo di vizio che rende illegittimo il licenziamento ed alla sua gravità.  La tutela reintegratoria piena viene conservata solo per i casi di licenziamento nullo, discriminatorio o privo della necessaria forma scritta. Per il resto sono previste tre tutele decrescenti ancorate, almeno nelle intenzioni del legislatore, alla diversa gravità della illegittimità del recesso.

È evidente quindi che con la legge del 2001 e poi con la Fornero il legislatore sceglie la strada della flessibilità in entrata ed in uscita dal lavoro. Tale scelta emerge chiaramente anche nella varietà delle soluzioni contrattuali offerta dal c.d. Decreto Biagi (D.Lgs 276 del 2003) volta a rendere la forma contrattuale più adattabile alle diversificate esigenze del datore di lavoro ( lavoro a progetto, lavoro intermittente, lavoro a chiamata, etc ).

Il quadro si completa con l’introduzione, sempre da parte della legge c.d. Fornero, di uno speciale procedimento per la definizione deigiudizi aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti diretto, dichiaratamente, a rendere celere la decisione circa la legittimità o meno del recesso.    

La nuova disciplina in materia di licenziamentiè in vigore, anche attualmente, per i lavoratori assunti prima del marzo 2015 ma, per quelli assunti dopo tale data, il legislatore con il Decreto 23 del 2015 (c.d. tutele crescenti) prevede un sistema di tutele ulteriormente ridimensionato: in caso di licenziamento illegittimo, la sanzione è normalmente solo quella economica ( due mensilità di indennità per ogni anno di servizio ) mentre la reintegrazione resta prevista solo per i licenziamenti nulli o discriminatori e, in ipotesi di recesso per giusta causa,quando sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato.

In tutti questi provvedimenti legislativi si distingue chiaramente un duplice intento da parte del legislatore. Si vuole ridurre il contenzioso derivante, in materia di contratto a tempo determinato, dalla necessità della causale e quindi dalla sua valutazione in sede giudiziale.

Nell’ottica del c.d. Jobs Act il contratto a termine, sostanzialmente libero per tre anni, consente di mettere in contatto lavoratore e datore di lavoro mentre il contratto a tempo indeterminato a tutele (economiche) crescenti dovrebbe rendere più appetibile la stabilizzazione dei rapporti di lavoro.

Per quanto riguarda il licenziamento, si vuole rendere prevedibile da parte del datore di lavoro la sanzione, e quindi il costo economico, da sopportare in caso di dichiarata illegittimità del recesso riducendo poi lo spazio di applicazione della tutela reintegratoria in favore di quella meramente economica.   

E siamo così ai giorni nostri.

Il legislatore più recente, con il c.d. Decreto Dignità ( D.L. 87 del 2018) interviene in materia di contratto a tempo determinato con intenti dichiaratamente restrittivi. Per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1 del decreto in commento, l’art. 19 comma 1 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, stabilisce oggi anzitutto che «Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi», ammettendo altresì la possibilità di apporre una durata massima, anche per effetto di proroghe o rinnovi, fino a ventiquattro mesi (erano trentasei nella disciplina previgente).

La novità però non è solo quantitativa.

Dispone infatti il Decreto del 2018 che: “Il contratto, nei limiti del presente articolo, può essere rinnovato solo a fronte di esigenze:

1) temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, o per esigenze sostitutive;

2) connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria;

3) relative alle attività stagionali di cui all’articolo 21, comma 2, e a picchi di attività.”

Già la lettura della norma consente di cogliere la svolta restrittiva, almeno per quanto riguarda il rinnovo.

Il riferimento alle esigenze “temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro” comporta la necessità che il rinnovo sia disposto per una attività lavorativa non compresanell’oggetto sociale del datore di lavoro o, comunque, estranea alla sua normale attività produttiva. Non è difficile ipotizzare, inoltre, che tale previsione potrà determinare un nuovo incremento del contenzioso legato alla opinabilità dei concetti richiamati. Tale evenienza risulta tanto più chiara con riferimento alla seconda ipotesi nella quale il legislatore richiede che gli incrementi dell’attività ordinaria del datore di lavoro siano “temporanei, significativi e non programmabili”, concetti, tutti, suscettibili di diverse interpretazioni da parte del giudice del lavoro chiamato a valutare la legittimità del rinnovo contrattuale.

Resta, sostanzialmente, come possibile strada da percorrere solo la causale sostitutiva per la quale si dovrebbero continuare ad applicare i principi elaborati dalla giurisprudenza nel regime normativo precedente. 

Per quanto riguarda il licenziamento, il legislatore attuale non ha inteso smantellare l’assetto del c.d. Jobs Act e delle sue tutele crescenti ma si è limitato ad aumentare la misura del risarcimento previsto in caso di licenziamento illegittimo ( da 6 a 36 mensilità mentre la norma nella sua formulazione originaria prevedeva “un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità).

Pochi mesi dopo l’emanazione del Decreton.87 del 2018è però intervenuta la Corte Costituzionale con la recentissima sentenza n. 194 del 2018 cheha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.

Secondo la Corte Costituzionale il denunciato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro. Con il prevedere una tutela economica che può non costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la disposizione censurata comprime l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza.

Il legislatore finisce così per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato.

Dalla ritenuta irragionevolezza del censurato art. 3, comma 1, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», discende – continua la Corte – anche il vulnus recato da tale previsione agli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost..

Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono.

L’irragionevolezza del rimedio previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (artt. 1, primo comma, 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del Considerato in diritto).

Il «diritto al lavoro» (art. 4, primo comma, Cost.) e la «tutela» del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai «principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa» (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che «il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti» (punto 3. del Considerato in diritto).

L’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», viola anche gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea.

Tale articolo prevede che, per assicurare l’effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le Parti contraenti si impegnano a riconoscere «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione» (primo comma, lettera b).

Nella decisione resa a seguito del reclamo collettivo n. 106/2014, proposto dalla Finnish Society of Social Rights contro la Finlandia, il Comitato europeo dei diritti sociali ha chiarito che l’indennizzo è congruo se è tale da assicurare un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo e da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.

Il filo argomentativo che guida il Comitato si snoda dunque attraverso l’apprezzamento del sistema risarcitorio in quanto dissuasivo e, al tempo stesso, congruo rispetto al danno subito (punto 45).

La Corte ha già affermato l’idoneità della Carta sociale europea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. e ha anche riconosciuto l’autorevolezza delle decisioni del Comitato, ancorché non vincolanti per i giudici nazionali (sentenza n. 120 del 2018).

A ben vedere, l’art. 24, che si ispira alla già citata Convenzione OIL n. 158 del 1982, specifica sul piano internazionale, in armonia con l’art. 35, terzo comma, Cost. e e con riguardo al licenziamento ingiustificato, l’obbligo di garantire l’adeguatezza del risarcimento, in linea con quanto affermato da questa Corte sulla base del parametro costituzionale interno dell’art. 3 Cost. Si realizza, in tal modo, un’integrazione tra fonti e – ciò che più rileva – tra le tutele da esse garantite (sentenza n. 317 del 2009, punto 7. del Considerato in diritto, secondo cui «[i]l risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo»).

Per il tramite dell’art. 24 della Carta Sociale Europea, risultano pertanto violati sia l’art. 76 – nel riferimento operato dalla legge di delegazione al rispetto delle convenzioni internazionali – sia l’art. 117, primo comma, Cost..

In conclusione, in riferimento agli artt. 3 (in relazione sia al principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse, sia al principio di ragionevolezza), 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. (questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea), il denunciato art. 3, comma 1, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,».

Per effetto della sentenza della Corte Costituzionale, sopra richiamata per esteso in alcune sue parti, la tutela (economica) in caso di licenziamento illegittimo ed in regime di tutele crescenti non sono più strettamente e matematicamente legati all’anzianità di servizio ma devono essere individuati dal Giudice tra il minimo ed il massimo previsto dalla legge.

È bene notare che tale forbice, tra minimo e massimo, per effetto delle modifiche introdotte dal c.d. Decreto Dignità, appare molto ampia: da 3 a 36 mensilità, ben superiore a quella fissata nelle altre norme che prevedono una sanzione economica in caso di licenziamento illegittimo.Si consideri la c.d. tutela obbligatoria, ove l’art. 8 della legge 604/66 fissa la sanzione tra 2,5 e 6 mensilità, il comma 5 dell’art. 18 legge 300/70, modificato dalla legge c.d. Fornero, che prevede un indennizzo compreso tra 12 e 24 mensilità, il comma 6 che in caso di vizio meramente procedimentale o formale stabilisce un risarcimento compreso tra 6 e 12 mensilità.

Sarà quindi fondamentale individuare i criteri in base ai quali determinare l’indennizzo spettante al lavoratore tra il minimo ed il massimo e sul punto si potrà fare riferimento alle indicazioni fornite dalla Corte stessa: nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n.23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).

In conclusione, i più recenti interventi normativi e la citata sentenza della Corte Costituzionale hanno minato gli assetti che il legislatore aveva ritenuto di stabilire nelle complesse e delicate materie del licenziamento e del contratto a termine. La tutela, che resta, per ora, meramente economica nella maggioranza delle ipotesi, in caso di licenziamento illegittimo è stata ampliata e sganciata da parametri certi con evidente perdita in chiave di prevedibilità dei costi del licenziamento ed altrettanto prevedibile aumento del contenzioso.

D’altra parte, il rinnovo del contratto a termine, oltre la durata di base consentita dalla legge, appare oggi estremamente complesso e questo potrebbe indurre i datori di lavoro ad evitare i rinnovi preferendo piuttosto assumere un diverso lavoratore con un nuovo contratto a tempo determinato.

Tutto questo in attesa delle prossime puntate.