Licenziamento ed obbligo di repechage alla luce della nuova disciplina delle mansioni

diritto del lavoro

di Maria Gallo

L’abolizione del divieto di adibizione a mansioni inferiori comporta un più esteso obbligo di repêchage , a carico del datore di lavoro, nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo .  

Nel generale vento di cambiamento portato dal cd. Job’s Act e suoi decreti attuativi , la riscrittura dell’art. 2103 c.c. in tema di mansioni è stata una delle novità forse più rivoluzionarie tra le riforme attuate e sembra inserirsi nella diffusa tendenza globale alla flessibilità .   

Flessibilità è diventata, infatti, la parola chiave del nuovo capitalismo e il concetto generale del sistema ad essa sotteso è giunto a permeare  molte delle più recenti politiche in materia di lavoro e di welfare .

Il sociologo Richard Sennett ne “ L’uomo flessibile “ ha analizzato , con simpatico rigore,  il problema sociale della flessibilità e dei suoi risvolti in termini sia economici che più strettamente umani. Sennett dice che ,oggi, sempre più  si parla di capitalismo flessibile per indicare qualcosa di più della variazione di un vecchio modello . Viene , cioè,  posta particolare enfasi sulla parola flessibilità e vengono messi sotto accusa le rigidità burocratiche e i danni prodotti dalla cieca routine . Così, ai lavoratori viene chiesto di comportarsi con maggiore versatilità , di essere pronti a cambiamenti con breve preavviso, di correre continuamente qualche rischio , di affidarsi meno ai regolamenti e alle procedure formali. L’attenzione rivolta alla flessibilità sta cambiando profondamente il significato del lavoro e le stesse parole per definirlo . L’etimologia del termine inglese “career ”( carriera )  , per esempio, rimanda ad una strada per carri ; finora  , questa parola, applicata al lavoro, indicava in quale direzione un individuo doveva incanalare i propri sforzi in campo economico , in una direzione da seguire  e perseguire per tutta la vita. Ma oggi,  il capitalismo flessibile , con la sua pratica di spostare all’improvviso i lavoratori dipendenti da un tipo di incarico ad un altro, ha cancellato i percorsi lineari tipici delle carriere . Sempre facendo riferimento all’etimologia ,  Ancora , nell’inglese del ‘300,  la parola “job “ ( lavoro ) indicava un blocco o pezzo , qualcosa che poteva essere spostato da una parte all’altra . Oggi l’attuale organizzazione lavorativa , improntata alla  flessibilità,  sta riportando in auge proprio il significato arcaico della parola job , in quanto durante la vita le persone sono chiamate a svolgere blocchi o pezzi di lavoro o di mansioni. Le politiche del lavoro ispirate al capitalismo flessibile , poi, hanno fatto ricorso al termine “flessibilità” per aggirare le connotazioni negative dell’attuale capitalismo : si è sostenuto , così , che abbandonando la rigidità della burocrazia e la routine , concentrandosi di più sul continuo cambiamento e sul rischio , la flessibilità consente agli individui un maggiore controllo della propria vita, permettendo loro di appropriarsene e di decidere di volta in volta l’opzione lavorativa migliore . Purtroppo , la flessibilità si traduce , in tempo di crisi, in precarietà e genera incertezza , finanche  ansia di perdere il controllo della propria vita , cioè proprio l’effetto contrario a quello proclamato dal cd. capitalismo flessibile.

Il nuovo sistema , tuttavia, sostituisce alle vecchie forme di controllo delle nuove il che, tradotto nel linguaggio giuridico, significa garantire che a novità e fluidità non si accompagni un eccessivo assottigliamento della soglia dei diritti dei lavoratori .

Così , nel nuovo assetto della disciplina sulle mansioni , la giurisprudenza ha  elaborato,   a fronte della possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, nuovi e più estesi  ambiti applicativi dell’obbligo di repêchage .  

Le sentenze più recenti della Corte di Cassazione, infatti, seppur riguardanti il vecchio testo dell’art. 2103 c.c. , richiamano nelle loro motivazioni  le nuove disposizioni , sostenendo come la nuova disciplina giunga a confermare precedenti orientamenti, ispirati ai fondamentali principi di  correttezza e buona fede , ex artt. 1175 e 1143 c.c., e diritto alla conservazione del posto di lavoro, così da estendere l’obbligo del repêchage anche ai compiti inferiori . Del resto, sebbene non possa dirsi positivamente sancito un diritto alla stabilità del posto di lavoro , non può negarsi che , muovendo dal precetto costituzionale dell’art. 4 Cost. e dalla concezione di licenziamento come extrema ratio  , permanga anche nell’attuale realtà economica e lavorativa un’esigenza di salvaguardia del posto di lavoro . Ancora oggi, dunque, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve risultare l’extrema ratio,  cui ricorrere quando non ci siano , in concreto, soluzioni alternative di impiego del lavoratore anche in mansioni inferiori , conformemente alla  disciplina delle mansioni  posta dall’art. 2103 c.c.    

Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. – introdotto dall’art. 3 comma 1, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015, ai sensi di quanto disposto dall’art. 57, comma 1 del medesimo D.Lgs. 81/2015 – prevede :

Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.

Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.

Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.

Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo.

Dalla sola lettura del nuovo testo dell’articolo emerge con chiarezza  che la riforma del 2015 è intervenuta in maniera decisa e diretta sul generale divieto di adibizione a mansioni inferiori  introducendo  delle deroghe espresse a tale divieto . Ed invero, accanto all’ipotesi giustificata dalla riorganizzazione aziendale che incide specificamente sulla posizione del singolo lavoratore,  sono state inserite ulteriori ipotesi di legittima assegnazione a mansioni deteriori consentendo,  da un lato , alla contrattazione collettiva la facoltà di introdurre specifici casi di assegnazione a mansioni inferiori e , dall’altro, lasciando all’autonomia individuale di concordare mutamenti peggiorativi delle mansioni, dell’inquadramento o della retribuzione spettante al lavoratore. In base alla nuova disciplina, inoltre, i patti che introducono modifiche peggiorative delle mansioni potranno quindi considerarsi nulli solo laddove non ricorrano le condizioni di legittima assegnazione a mansioni inferiori  previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, ovvero nell’ipotesi in cui tali patti siano concordati dalle parti al di fuori in una delle sedi indicate dal sesto comma dell’art. 2103 c.c. e in assenza di uno specifico interesse del lavoratore.
Queste ipotesi , che potremmo definire di legittime deroghe  al divieto di demansionamento , si aggiungono a quelle già previste dal legislatore per le lavoratrici madri, nei casi in cui il tipo di attività o le condizioni ambientali siano pregiudizievoli alla loro salute; ovvero per la sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni per infortunio o malattia; ed ancora ,  nel caso di accordo sindacale, nell’ambito della consultazione sindacale relativa a una procedura di licenziamento per riduzione di personale, per il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori esuberanti.

Ma la modifica dell’art. 2103 c.c. sulle mansioni si riflette  anche nell’ambito dell’onere di repêchage, termine con il quale si fa riferimento alla prova che il datore di lavoro è chiamato a dare sull’inevitabilità del licenziamento, intesa come impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle ricoperte al momento del licenziamento.

In altre parole, l’ampliamento determinato dalla modifica dell’art. 2103 c.c. del potere datoriale dello ius variandi determina un parallelo ampliamento del repêchage, e cioè un onere aggiuntivo per il datore di lavoro che voglia procedere ad effettuare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

La riforma , infatti ,  incide anche sull’obbligo di repêchage, determinando in capo al datore di lavoro un obbligo di provare in giudizio non solo l’inutilizzabilità del lavoratore in mansioni analoghe a quelle da ultimo svolte, bensì anche in mansioni diverse, non necessariamente coerenti con il bagaglio professionale del lavoratore, purché ricomprese nello stesso livello di inquadramento ovvero nel livello inferiore, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 2103 c.c.

Del resto, nel momento in cui l’art. 2103 c.c. non adotta più come criterio l’equivalenza professionale come limite all’esercizio dello ius variandi  il repêchage potrebbe anch’esso estendersi fino a ricomprendere automaticamente mansioni anche inquadrate nel livello inferiore e non necessariamente coerenti con la professionalità posseduta dal lavoratore.
Appare lampante , dunque, la rivoluzione operata se si pensa che il testo precedente alla riforma dell’art. 2103 c.c. prevedeva, all’ultimo comma, la nullità di ogni patto contrario al generale divieto di modifica in peius delle mansioni del lavoratore. Ante riforma 2015 ,  dunque, non solo non era possibile prevedere una disciplina del rapporto di lavoro che consentisse l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori, ma non era nemmeno prospettabile una pattuizione individuale avente ad oggetto uno specifico spostamento peggiorativo dello stesso.

Il rinnovellato art. 2103 c.c. ha, infatti,  superato il concetto di mansioni equivalenti, sostituendolo con “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte“.

E’ stato, dunque, eliminato il riferimento alle mansioni c.d. equivalenti.

In tal modo , si riconosce al datore di lavoro il diritto ad uno ius variandi più ampio e più flessibile in quanto si supera il precedente punto di riferimento , di elaborazione giurisprudenziale, relativo alle “mansioni equivalenti”. Accantonata l’equivalenza professionale con il rinnovellato art. 2013 c.c., il datore di lavoro potrà assegnare unilateralmente il dipendente a qualsiasi mansione purché riconducibile allo stesso livello e categoria di inquadramento di quelle ultime effettivamente svolte, avuto  riguardo solo alle declaratorie ed ai profili professionali del contratto collettivo.
Nel caso di “modifica degli assetti organizzativi che incidono sulla posizione del lavoratore”, poi, il datore di lavoro può assegnare a quest’ultimo mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.

Tanto assodato, vediamo come la descritta modifica interagisce con gli obblighi datoriali di cd. repêchage.

Intanto è bene premettere che si parla di repêchage allorquando, per stabilire,  nell’ambito di un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo , se il recesso sia legittimo, ovvero che il riassetto organizzativo dell’azienda sia effettivo e non pretestuoso, il datore di lavoro deve comunque dare prova di aver verificato, all’interno dell’intera struttura aziendale, di non essere in grado di reimpiegare il lavoratore che si appresta a licenziare.

Orbene, secondo la giurisprudenza più recente, l’obbligo di repêchage, cui è soggetto il datore di lavoro che intenda procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, risulterebbe più oneroso a seguito delle modifiche alla disciplina dell’art. 2103 c.c. Ciò  in quanto ,  se da un lato il datore di lavoro è maggiormente agevolato nell’esercizio dello “ius variandi” potendo modificare unilateralmente le mansioni del dipendente rispetto a quelle assegnate in fase di assunzione, dall’altro si è correlativamente ampliata e complicata la verifica del “repêchage“, obbligandosi il datore di lavoro a dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore a tutte le mansioni riconducibili nello stesso livello e categoria legale di inquadramento.

Il Tribunale di Milano , est. Mariani,  con sentenza n. 3370 del 16 dicembre 2016 , ha osservato come l’obbligo del repêchage risulti più rigoroso alla luce delle modifiche all’art. 2013 c.c. introdotte dall’art. 3, D.Lgs 81/2015 ed in particolare come possa ritenersi superata la nozione di equivalenza delle mansioni, che costituiva il precedente parametro a cui era vincolato il datore nell’assegnazione di nuove funzioni ai propri dipendenti. Alla nozione di equivalenza si sostituisce oggi il concetto di mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento. Secondo il Tribunale, dunque, l’indagine datoriale dell’esistenza di posizioni alternative alle quali assegnare il lavoratore deve estendersi a tutte le mansioni disponibili all’interno dello stesso livello di inquadramento del lavoratore licenziato senza che il lavoratore possa lamentare che le nuove attività abbiano contenuto peggiorativo o non rientrino nel suo bagaglio di competenze professionali . Allo stesso modo, secondo Cassazione, sentenza  n. 22798 dell’11 novembre 2016,   est. Amendola , deve ritenersi che sul datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, gravi l’obbligo di ricercare possibili soluzioni alternative anche fra le mansioni inferiori e di rappresentare al prestatore il demansionamento, potendo licenziare il lavoratore soltanto ove tale soluzione non sia stata accettata dallo stesso. Del resto,  già nel passato i divieti posti dall’art. 2103 c.c. nella veste anteriore alla riforma avevano sofferto eccezioni , non solo legislative  (ad es. art. 4, co. 11, I. n. 223 del 1991; art. 4, co. 4, I. n. 68 del 1999; art. 7, co. 5, I. n. 151 del 2001) ma anche ad opera della giurisprudenza, sull’assunto razionale che le deroghe all’espressa previsione di nullità sono giustificate nelle sole ipotesi in cui vi è una oggettiva prevalenza dell’interesse del dipendente al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto. In tale ottica ,  risulta fondamentale l’arresto delle Sezioni Unite della Corte (sent. n. 7755 del 1998),laddove il Supremo Collegio aveva ritenuto che  le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro erano prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del prestatore, affermandosi  che “ad una non rigida interpretazione dell’art. 2103 c.c. inducono le maggiori e notorie difficoltà in cui versa oggi il mercato del lavoro“.  Ed ancora , la Corte di Cassazione, con sentenza del 26 maggio 2017, n. 13379 est. Patti ,  ha affermato con nettezza che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo , per la soppressione del posto di lavoro cui è addetto il lavoratore, qualora questi sia adibito a mansioni promiscue o quantomeno che ha svolto anche mansioni inferiori lungo il suo percorso professionale, l’obbligo di repêchage debba riferirsi anche a queste ultime pur se “dequalificanti” al fine di poter vagliare ogni possibilità di ricollocamento all’interno dell’organizzazione aziendale. La Corte, in particolare, anche qui facendo un parallelo con le ipotesi di sopravvenuta infermità permanente di un dipendente (che possono giustificare il recesso datoriale a patto che l’attività lavorativa risulti ineseguibile e non vi siano altre mansioni assegnabili), ha precisato che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro a seguito di riorganizzazione aziendale, l’estensione del repêchage è giustificata dalla forte esigenza di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro. Dunque, come premesso , allo spostamento dei limiti in materia di demansionamento è corrisposto un uguale e parallelo spostamento dei limiti in materia di oneri di repêchage , allo scopo precipuo di garantire il diritto alla conservazione del posto del lavoratore .

Ma anche in materia di onere probatorio si registrano rilevanti novità in quanto si va ormai consolidando l’orientamento (Cass. 22 marzo 2016, n. 5592; Cass. 21 dicembre 2016, n. 26467) secondo il quale spetta al datore di lavoro l’onere di allegazione e la prova di impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, con esclusione di onere di allegazione gravante su quest’ultimo. Si tratta di una posizione in contrasto con la  predominante corrente giurisprudenziale che, affidando al dipendente l’individuazione dei profili nei quali riteneva di poter essere ricollocato, attenuava l’onere probatorio dell’imprenditore. Ed invero, come anticipato, la più recente giurisprudenza di legittimità ha ridisegnato l’onere di allegazione che si riteneva, fino al 2016, incombesse sul lavoratore che lamentava l’inosservanza dell’obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro . La Suprema Corte , invece, con sent. n. 5592 del 22/03/2016 est. Patti  , ha affermato che , in materia di repêchage,   la divaricazione tra oneri di allegazione –incombenti al lavoratore – e oneri di prova –incombenti al datore di lavoro – non possono  più trovare sistemazione logica compiuta nel nuovo assetto emergente dalla riforma Fornero del 2012, in tema di licenziamento.

Anche nel passato più recente,  la Cassazione (cfr. tra tutte  Cass. sent. n.3234/2014) ha continuato a porre  le seguenti regole al fine di individuare il contenuto del diritto di repêchage:

il datore di lavoro doveva dare prova di non poter ricollocare il lavoratore in esubero in altra posizione lavorativa disponibile;

il lavoratore doveva fornire elementi atti ad individuare, all’interno della compagine aziendale, posti di lavoro liberi compatibili con il suo bagaglio professionale;

se il lavoratore forniva le allegazioni di cui al punto precedente, scattava l’ulteriore onere a carico del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del dipendente nelle posizioni lavorative indicate dal lavoratore come disponibili.

Il lavoratore che pretendeva la violazione del diritto di repêchage, in conseguenza di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, aveva quindi processualmente l’onere di allegazione al riguardo dell’esistenza di posizioni lavorative disponibili del datore di lavoro che lo aveva licenziato (con la precisazione che tale onere di allegazione, cioè di affermazione in giudizio di fatti, non è un onere di prova, cioè di dimostrazione di fatti, stante la previsione dell’art.5, L. n.604/66, per cui la prova del licenziamento grava, come detto, interamente sul datore di lavoro).

Questo onere di allegazione era considerato quindi come un obbligo, per il lavoratore, di rappresentazione di fatti da cui poter far derivare il diritto al repêchage. Tali fatti non potevano che avere per oggetto l’indicazione di posizioni lavorative disponibili all’interno dell’azienda: il suddetto onere di allegazione non poteva, però, essere assolto dal lavoratore mediante deduzioni generiche circa eventuali posizioni lavorative fruibili, essendo necessario che venissero date indicazioni specifiche circa mansioni o ruoli liberi nel complesso aziendale.

Tale tradizionale impostazione è ora superata dal più recente revirement della Cassazione.

Secondo la Corte  infatti, “ la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell’art. 414 n. 3 e n. 4 c.p.c., da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe pertanto la prova, secondo la previsione dell’art. 5 I. 604/1966, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l’impossibilità di repêchage: senza alcun onere sostitutivo del lavoratore alla sua controparte datrice sul piano dell’allegazione, per farne conseguire un onere probatorio (offrendogli, per così dire, l’affermazione del fatto da provare). Si tratterebbe di una divaricazione davvero singolare, in quanto inedita sul piano processuale, nel quale l’onere della prova è modulato in coerente corrispondenza con quello dell’allegazione, come inequivocabilmente stabilito dall’indicazione dei requisiti della domanda (“esposizione dei fatti … sui quali si fonda la domanda” e “indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi”: art. 414 n. 4 e n. 5 c.p.c., con previsione del tutto analoga a quella dell’art. 163, terzo comma, n. 4 e n. 5 c.p.c.), in funzione di una corretta ripartizione dell’onere probatorio secondo la previsione dell’art. 2697 c.c., a norma del quale ciascuna delle parti deve provare i fatti a fondamento delle proprie domande o eccezioni, espressione del rispettivo onere di allegazione, nell’evidente indisgiungibilità dei due piani (Cass. s.u. 16 febbraio 2016, n. 2951: in riferimento ad allegazione e prova della titolarità della posizione giuridica vantata in giudizio; Cass. 15 ottobre 2014, n. 21847 e Cass. 19 agosto 2009, n. 18399: in riferimento all’onere di provare le proprie allegazioni soltanto ove non specificamente contestate da controparte).

La patrocinata ricostruzione sistematica della ripartizione dei rispettivi oneri di allegazione e di prova tra le parti nella fattispecie in esame trova piena conferma anche ove ricondotta ai principi in tema di responsabilità da inadempimento, di cui la normativa di carattere generale in materia di licenziamenti (come principalmente stabilita dalla legge n. 604/1966 e dall’art. 18 della legge n. 300/1970) costituisce specificazione, essendo applicabile agli effetti del licenziamento, qualora non operi detta normativa, la disciplina civilistica dell’inadempimento (Cass. 22 luglio 2004, n. 13731). Sicchè, in base a tali principi, il creditore attore (lavoratore impugnante il licenziamento come illegittimo) è onerato della (allegazione e) prova della fonte negoziale (o legale) del proprio diritto (rapporto di lavoro a tempo indeterminato) e dell’allegazione dell’inadempimento della controparte (illegittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo), mentre il debitore convenuto (datore di lavoro) è onerato della prova del fatto estintivo (legittimo esercizio del diritto di recesso per giustificato motivo oggettivo nella ricorrenza dei suoi presupposti, tra i quali, come detto, anche l’impossibilità di repêchage): in coerenza con i principi di persistenza del diritto (art. 2697 c.c.) e di riferibilità o vicinanza della prova (Cass. s.u. 30 ottobre 2001, n. 13533). E tale principio di riferibilità o vicinanza della prova, conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore, in quanto nella migliore disponibilità degli elementi per dimostrare le ragioni del proprio comportamento, ormai di consolidata applicazione (Cass. 29 gennaio 2016, n. 1665; Cass. 14 gennaio 2013, n. 2016; Cass. 2 settembre 2013, n. 20110; Cass. 17 aprile 2012, n. 6008; Cass. 6 giugno 2012, n. 9099), trova coerente riscontro anche nel caso di specie: per la maggiore vicinanza di allegazione e prova dell’impossibilità di repêchage al datore di lavoro, non disponendo il lavoratore, al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell’impresa, tanto più in una condizione di crisi, in cui esse mutano continuamente a misura della sua evoluzione e degli interventi imprenditoriali per rimediarvi o comunque indirizzarne gli sbocchi. Ciò che, d’altro canto, da tempo è stato ben presente a questa Corte, avendo in particolare essa osservato: “non si vede in realtà come sia esigibile un’indicazione del genere” (ossia dei posti assegnabili) “da parte del lavoratore licenziato, che è estraneo all’organizzazione aziendale” (Cass. 18 aprile 1991, n. 4164, che ha anche sottolineato la costanza di un indirizzo in tal senso della Corte). In via conclusiva, si comprende allora come la tralaticia affermazione di una sorta di cooperazione processuale del lavoratore, e più in generale di ogni parte, sul piano dell’allegazione in favore della controparte sia priva di alcun fondamento normativo; soltanto sul piano sostanziale un tale obbligo di cooperazione è, infatti, previsto tra le parti, siccome tenute ad un comportamento di collaborazione, conforme ai principi di correttezza e di buona fede, a norma degli artt. 1175, 1206 e 1375 c.c., quale obbligazione collaterale alle principali (Cass. 6 febbraio 2008, n. 2800; Cass. 16 gennaio 1997, n. 387). ”     

Quanto affermato in sentenza , evidentemente, va ad inserirsi in una realtà processuale in cui sempre più frequenti sono le situazioni di crisi prolungate nell’ambito delle quali , gli eventuali cambiamenti negli assetti strutturali ed organizzativi dell’impresa , dunque, renderebbero eccessivamente gravoso per il lavoratore individuare posizioni lavorative compatibili nelle quali essere reinserito dall’azienda.

Secondo tale ultima giurisprudenza di legittimità, pertanto, gli oneri individuabili in caso di repêchage sono solo quelli probatori ed incombono all’azienda datrice .

La tendenza risulta sostanzialmente confermata dalla successiva giurisprudenza che , da ultimo  , afferma che :

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del “repêchage”, gravando la prova della impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro probatorio. 

(Sez. L – Sentenza n. 12794 del 23/05/2018  est. Balestrieri)

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” previsto dall’art. 18, comma 7, st.lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. “repêchage”); fermo l’onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, la “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso.

(Sez. L – , Sentenza n. 10435 del 02/05/2018, est. Boghetich)

Ma, in termini quantitativi o meglio strutturali , che ambito deve attribuirsi all’obbligo del datore di lavoro di ripescaggio del lavoratore eccedentario ? Le realtà imprenditoriali, infatti, raccontano di un numero sempre più elevato di imprese che , attraverso collegamenti ed associazioni, operano in estensioni territoriali sempre più vaste. Conseguentemente, con riferimento all’unica impresa che abbia estensione nazionale e articolazioni operative sull’intero territorio, l’obbligo di repêchage impone  che la verifica di eccedenza del lavoratore vada condotta con riferimento a tutti i cantieri o unità operative in essere al momento del licenziamento .

E nel caso di collegamento societario , realizzato con connessione tale  da individuare un unico centro di interessi , la Suprema Corte ha elaborato la figura della cd. codatorialità per fissare l’ambito in cui circoscrivere la prova dell’inutilizzabilità del lavoratore . Si è affermato, pertanto, che , ove si individui una tale connessione e unitarietà di interessi la prova vada fornita con riferimento all’intera organizzazione di impresa e , quindi, a tutte le società del gruppo : 

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, solo la figura della “codatorialità” ovvero la sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro, impone che l’assolvimento dell’obbligo di “repêchage” sia valutato in relazione a tutte le società del gruppo, pertanto, ai fini di tale estensione, non è sufficiente la mera deduzione dell’esistenza di un gruppo di imprese. (Sez. L – , Sentenza n. 11166 del 09/05/2018, est.Amendola ; Massime precedenti : N. 13809 del 2017 , N. 12817 del 2014 )

La Corte ha infatti ribadito quanto già statuito in precedenza (con Cass. n. 13089 del 2017; Cass. n. 15872 del 2017) circa l’insufficienza del mero richiamo al collegamento tra imprese , insistendo nell’affermare che “il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro” (Cass. n. 17368 del 2016) . Punto già fissato da tempo  ( vedi Cass. n. 1527 del 2003  ) secondo cui “l’appartenenza dell’impresa ad un gruppo economico o societario non (ha) alcuna giuridica efficacia unificante, con la conseguenza che il lavoratore subordinato può vantare pretese rispetto all’impresa datrice di lavoro ed all’interno del suo ambito organizzativo, ma non anche nei riguardi delle imprese del gruppo o con riferimento ai loro assetti produttivi“.

Rimane però da chiedersi, con riferimento alle diverse sanzioni previste dall’attuale disciplina per il licenziamento illegittimo, quale sia quella da applicarsi ove si accerti la violazione , da parte dell’imprenditore , dell’obbligo di repêchage . Occorre infatti ricordare  che il comma 7 dell’art. 18, novellato dall’art. 1, comma 42, L. n. 92\12, prevede la possibilità (“può altresì applicare la disciplina di cui al comma 4“) di reintegra (ed il connesso regime risarcitorio: tutte le retribuzioni sino ad un massimo di dodici) quando il giudice accerta la ‘manifesta insussistenza‘ del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma (tutela solo indennitaria, con un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità di retribuzione).

Come è noto , poi, l’art. 3 della legge n. 604 individua la fattispecie del giustificato motivo oggettivo nelle “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Dalla esegesi della norma risulta che i requisiti del giustificato motivo oggettivo sono tre:

1) le ragioni che determinano la soppressione del posto di lavoro;

2) il nesso di causalità che esiste tra la soppressione del posto e il licenziamento;

3) l’obbligo del repêchage.

Se è vero , poi,  che la giurisprudenza unanime riconosce che al giudice è precluso il controllo di merito, ciò non significa che la decisione imprenditoriale sia sottratta al controllo di legittimità. Controllo che ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 non può esaurirsi soltanto nell’accertamento della sussistenza e della veridicità della soppressione del posto e nell’accertamento del nesso di causalità tra la soppressione del posto e il licenziamento, ma deve avere come oggetto anche  la sussistenza e la veridicità delle ragioni che hanno determinato la soppressione del singolo posto di lavoro.

In sostanza, sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017).

Si afferma quindi che :

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” previsto dall’art. 18, comma 7, st.lav., come novellato dalla l. n. 92 del 2012, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cd. “repêchage”); fermo l’onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, la “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso.

(Sez. L – , Sentenza n. 10435 del 02/05/2018, est. Boghetich)

Va pertanto chiarita quale sia  la  portata applicativa del comma 7 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 in considerazione di quanto già ritenuto dalla Corte circa la limitazione della tutela reintegratoria  ad ipotesi residuali (cfr. Cass. n. 14021 del 2016 ) .

Nella sentenza del 2.5.2018 citata , la Corte , posto che nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra sia l’esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, ritiene che il riferimento legislativo alla “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” vada  inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie. Secondo la Corte, dunque,  a fronte della espressione lessicale utilizzata dal legislatore, il “fatto“, sganciata da richiami diretti ed espliciti alle “ragioni” connesse con l’organizzazione del lavoro o l’attività produttiva previste dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966, il riferimento normativo deve intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata dalla giurisprudenza consolidata. Quindi, una volta accertata l’ingiustificatezza del licenziamento per carenza di uno dei due presupposti (e, in particolare, per quanto qui interessa , per inottemperanza all’obbligo del repêchage), il giudice di merito, ai fini dell’individuazione del regime sanzionatorio da applicare, deve verificare se sia manifesta ossia evidente l’insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento, cioè della ragione inerente l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa che causalmente determini un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa, ovvero della impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse. Il concetto di “manifesta insussistenza” dimostra che il legislatore ha voluto limitare ad ipotesi residuali il diritto ad una tutela reintegratoria per cui essa va riferita ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile,  in sede di legittimità.

Il sistema legislativo di graduazione delle sanzioni applicabili prevede, pertanto , che il giudice che ritenga evidente la carenza di uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro. Nello schema legislativo è previsto, infatti, che il licenziamento fondato su fatti manifestamente insussistenti “può” essere assoggettato a sanzioni diverse, la reintegrazione nel posto di lavoro (comma 4 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970) oppure il risarcimento del danno (comma 5 della medesima norma), e la soluzione esegetica da privilegiare non può prescindere dal tenore lessicale della disposizione, non potendosi condividere interpretazioni (cfr. Cass. n. 17528 del 2017) che privino di significato il dato letterale.

Secondo la Suprema Corte l’applicazione della tutela reale richiede, quindi, un ulteriore vaglio giudiziale.

La legge , tuttavia, non fornisce nessuna indicazione per stabilire in quali occasioni il giudice possa attenersi al regime sanzionatorio più severo o a quello meno rigoroso ma la scelta di tale alternativa deve essere comunque motivata dal giudice. Si impone , dunque, all’interprete lo sforzo esegetico di individuare i criteri in base ai quali il potere discrezionale possa essere esercitato. E sempre come chiarito nella sentenza in oggetto , il criterio che consente al giudice di esercitare, secondo principi di ragionevolezza, il potere discrezionale attribuito dal legislatore può essere desunto dai principi generali forniti dall’ordinamento in materia di risarcimento del danno, e, in particolare, dal concetto di eccessiva onerosità al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (art. 2058 cod. civ., applicabile anche ai casi di responsabilità contrattuale, cfr. Cass. n. 15726 del 2010, Cass. n. 4925 del 2006, Cass. n. 2569 del 2001, Cass. n. 582 del 1973) ovvero di diminuire l’ammontare della penale concordata tra le parti (art. 1384 cod. civ.). Il ricorso ai principi generali del diritto civile permette di configurare un parametro di riferimento per l’esercizio del potere discrezionale del giudice, consentendogli di valutare – per la scelta del regime sanzionatorio da applicare – se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa. Una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire, dunque, al giudice di optare – nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento – per la tutela indennitaria.

E cosa accade nel pubblico impiego ?

Ebbene , anche in tale settore la Suprema Corte ha individuato e circoscritto l’ambito applicativo delle riduzioni di personale fissando un obbligo della PA di effettuare ogni possibile tentativo di impiegare diversamente il lavoratore ,incluso il declassamento,  in esecuzione dell’obbligo di repêchage . In particolare, si è affermato  che :

 Nel pubblico impiego contrattualizzato, l’art. 33, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche apportategli dal d.lgs. n. 150 del 2009) si interpreta nel senso che, anche nell’ipotesi di eccedenze di personale per un numero inferiore a dieci unità, la P.A. è tenuta a far precedere il collocamento in disponibilità da ogni possibile tentativo di impiegare diversamente il lavoratore (c.d. “repêchage”), sicché, in mancanza di diversa regolamentazione introdotta dalla contrattazione collettiva, è legittimo il patto di declassamento stipulato ex art. 4, comma 11, della l. n. 223 del 1991 fra l’amministrazione ed il dipendente, ancorché le mansioni di nuova attribuzione siano diverse ed estranee alla qualifica dirigenziale già attribuita. (Sez. L – , Sentenza n. 5543 del 06/03/2017, Est. Torrice, conforme a  Sez. L – , Sentenza n. 3738 del 13/02/2017  Est. Blasutto) 

Il co.7 del richiamato art. 33 dispone, infatti, che “…l’amministrazione colloca in disponibilità il personale che non sia possibile utilizzare diversamente nell’ambito della medesima amministrazione e che non possa essere ricollocato presso altre amministrazioni ovvero che non abbia preso servizio preso la diversa amministrazione che, secondo gli accordi intervenuti ai sensi dei commi precedenti, ne avrebbe consentito la ricollocazione“. L’ampia dizione dell’art. 33 co. 7 ( “personale che non sia possibile collocare diversamente”) ricostruisce in maniera chiara ed inequivoca l’obbligo dell’amministrazione, imponendo a quest’ultima di tentare ogni possibile riutilizzazione di tale personale prima del collocamento in disponibilità, attraverso qualunque forma utile a raggiungere l’obiettivo e, dunque, anche mediante il ricorso alle tipologie di utilizzazione cui è possibile addivenire mediante accordo nel corso della procedura di mobilità collettiva.

A ben vedere , insomma , con l’abolizione del divieto di demansionamento la giurisprudenza ha individuato più rigorosi limiti da rispettare, per il caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo,  in un’ottica di tutela del posto di lavoro che sempre di più , con l’erosione del modello classico di rapporto , costituisce un valore da salvaguardare . L’auspicio è , dunque, che non si passi da una attività di lavoro flessibile ad una gig economy ( economia dei lavoretti )  in cui si calpestino diritti costituzionalmente garantiti dei lavoratori .