Magistratura come Potere?

di Roberta D’Onofrio, giudice Tribunale di Campobasso

SOMMARIO: 1. La magistratura nel dibattito dell’Assemblea Costituente. – 2. La magistratura come “potere”?. – 3. La magistratura come “servizio”.

1- La magistratura nel dibattito dell’Assemblea Costituente

La terminologia costituzionale per definire la magistratura varia secondo i punti di vista adottati di volta in volta.

La magistratura è disciplinata nel  Titolo V della Costituzione. Nel primo comma dell’art. 101 la funzione è definita come giustizia; nel secondo comma dell’art. 101 -nella sua stesura iniziale- si faceva riferimento ai magistrati e non alla magistratura, perché andava tutelata l’indipendenza dei singoli. Per l’art. 102 sono i magistrati ordinari, “istituiti e regolati dalla norme sull’ordinamento giudiziario”, ad esercitare la funzione giurisdizionale. Nell’art. 104 la magistratura, composta dai magistrati ordinari, costituisce un “ordine”. Per l’art.107, primo comma, i magistrati (quelli ordinari) sono inamovibili, mentre per l’ultimo comma il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite dall’ordinamento giudiziario. Si prevede, poi che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della forza pubblica ai sensi dell’art. 109.

Ebbene, il Costituente ha utilizzato una terminologia ed un lessico tanto vari che sostenere il superamento della qualifica della magistratura come “ordine”, stabilito nel primo comma dell’art. 104, avrebbe bisogno di qualche ulteriore elemento di sostegno.

Nella sua relazione l’on. Ruini, che presiedeva la sottocommissione della Costituente che si occupò della stesura del Titolo IV, non ebbe dubbi: “la magistratura è autonoma e indipendente. Non è soltanto un ordine; è sostanzialmente un potere dello Stato, anche se non si adopera questo termine, neppure per gli altri poteri, ad evitare gli equivoci e gli inconvenienti cui può dare luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente”.

A proposito dell’art. 107 si era discusso, in seno all’Assemblea Costituente, se alla magistratura requirente andasse estesa la disciplina di quella giudicante.

C’era stato chi (l’on. Bettiol) avesse rilevato che il pubblico ministero “in tutti i regimi liberali … è considerato come organo del potere esecutivo”. Sulla stessa scia si era posto l’on. Leone, il quale aveva proposto di modificare l’ultimo comma nel senso di stabilire che “Il pubblico ministero è organo del potere esecutivo. Un particolare corpo di polizia giudiziaria è posto alla sua esclusiva dipendenza”; ma successivamente l’on. Leone rinunciò alla proposta, aderendo all’idea di lasciare alla legge ordinaria la disciplina relativa al pubblico ministero.

Mentre nel concetto di “ordine” rientrano tutti i magistrati ordinari, al pubblico ministero non sono applicabili le norme sui giudici. Ancora l’on. Leone rilevò che “Tale formula (l’emendamento che si stava discutendo) esprime questa nostra opinione: che, essendosi creato l’ordine giudiziario, nel seno di questo ordine occorre una gerarchia di funzioni. Così la Corte di cassazione è la competenza più alta rispetto agli organi inferiori di merito; ma in questa gerarchia non devono giocare i gradi come per gli impiegati dello Stato … Occorre soprattutto esprimere questo desiderio e questa aspirazione: che in seno alla magistratura non si discuta di gerarchia di gradi …, ma che vi sia diversità di funzioni, cioè di attribuzioni di organi, che possono essere maggiori o minori, ma esprimono maggiore o minore ampiezza di giurisdizione, non di grado”.

Che questo principio inserito nel terzo comma dell’art. 107, secondo l’on. Leone, non andasse esteso al pubblico ministero, è confermato dalla sua proposta di rimettersi alla disciplina della legge ordinaria, come poi previsto nel quarto comma dell’art. 107.

Si è così arrivati oggi al d.lgs. 20 febbraio 2006 n. 106.

2. La magistratura come “potere” ?

L’articolo 101 della Costituzione sembra escludere che si possa considerare la magistratura come  un “potere” secondo lo versione ormai tradizionale: infatti, intesa come corpo che esercita la giurisdizione, rimane soggetta soltanto alla legge come è confermato dal secondo comma dell’art. 101 della Costituzione.

E, allora, come la magistratura possa ritenersi indipendente dal “potere” legislativo?

Siffatta imprecisione, pertanto, dovrebbe orientare a non enfatizzare il tenore letterale del primo comma dell’art. 104 della Costituzione, laddove la magistratura è definita come “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, così da indurre i commentatori a ritenere che anche la magistratura sia concepita dal Costituente come “potere” dello Stato.

La nozione di potere ha da sempre richiamato l’interesse dei cultori di diverse discipline, filosofi compresi. Andrebbe seguita, almeno in questa sede, la nozione positiva desumibile dalla struttura dello Stato che si ricava dalla Costituzione: la nozione di “potere” legittima a compiere scelte di fondo, ad individuare i fini da perseguire e i mezzi da utilizzare. Il popolo, anche se sovrano, per la sua struttura diffusa non è in grado di predisporre ed attuare direttamente programmi operativi, sicché ne delega il compito ai suoi rappresentanti.

Pertanto il potere primigenio -facente capo al popolo- non viene esercitato direttamente, ma passa al rappresentante scelto attraverso elezioni periodiche: in via diretta al Parlamento che provvede attraverso le leggi; in via indiretta al Governo che compie le scelte entro i limiti fissati dalle leggi.

Mentre il Parlamento deriva il suo potere direttamente dal popolo, al Governo perviene attraverso la volontà parlamentare.

La giurisdizione può essere definita “potere”?

Al giudice non è richiesta né consentita una scelta di opportunità tra diverse soluzioni, ma l’applicazione delle norme nei casi che gli sono sottoposti attraverso l’interpretazione della legge.

Interpretazione che è caratterizzata dalla c.d. “discrezionalità tecnica” e, cioè, è condizionata dalla scelta tecnico-giuridica influenzata dalla preparazione e dallo spessore culturale del singolo magistrato, nonché inevitabilmente dal suo profilo umano, dal suo modo di vedere la realtà e le cose, dalla sua sensibilità.

Per questo la qualifica di magistrato non deriva da una investitura, diretta o indiretta, da parte del titolare della sovranità, ma dal superamento di prove tecniche.

E Salvatore Satta, in spregio ai positivisti cultori dell’assoluta certezza del diritto, lanciava lo slogan: la forza del diritto è quella di essere un’opinione.

Opinione, aggiungo, che si forma sulla base del bagaglio tecnico e culturale in possesso del singolo magistrato.

3- La magistratura come “servizio”

La valutazione dell’ “in se” della funzione giurisdizionale porta a propendere per la definizione più appropriata della stessa come finalizzata a svolgere un “servizio”. 

Per servizio, accompagnato dall’aggettivo pubblico, si intende in genere l’attività di natura imprenditoriale che, per gli interessi generali che soddisfa, è regolata dal diritto pubblico e svolta da soggetti pubblici o da privati, ma sempre in base ad un rapporto di diritto pubblico.

Non è detto, però, che solo questi possano essere definiti servizi; infatti vi possono rientrare senza dubbio anche quelle attività, che ugualmente non richiedono valutazioni di opportunità e -anche quando sono discrezionali- lo sono solo nella scelta delle soluzioni tecniche.

Il giudice svolge un servizio predisposto nell’interesse delle parti tra le quali è insorta una contestazione, decidendo caso per caso -senza effetti per chi non vi ha partecipato- dopo avere individuato la legge applicabile attraverso un’indagine di natura tecnica.

Come per certi servizi pubblici è consentito che siano svolti da privati, così il giudice, a certe condizioni, può essere sostituito da arbitri la cui decisione si inserisce nel sistema complessivo della giustizia. Se si fosse di fronte ad un vero potere, questa sostituzione sarebbe difficilmente giustificabile.

Quella del giudice di merito nella valutazione dei fatti, che sono provati, si può chiamare discrezionalità, purché sia chiaro che non possa essere esercitata secondo criteri di opportunità: il giudice deve ricostruirli nella configurazione coerente con gli elementi emersi nel processo e ne deve dare contezza attraverso la motivazione.

Quanto all’attività interpretativa, poi, una volta che la Corte di Cassazione abbia enunciato il principio di diritto, non ci dovrebbero essere questioni ulteriori, perché il principio enunciato in riferimento al caso concreto deve essere declinato dal giudice sempre allo stesso modo, nel pieno rispetto del principio di uguaglianza.

Succede, invece, che della stessa norma la Corte di Cassazione dia interpretazioni diverse.

Alcuni costituzionalisti, chiamati a discuterne, pur concordando sul mancato rispetto del principio di uguaglianza, hanno concluso che -per come è strutturato il procedimento- non sia possibile portare la questione davanti alla Corte Costituzionale.

Inoltre, secondo alcuni commentatori, lo sconfinamento della giurisdizione si spiegherebbe, e si giustificherebbe anche, con l’insufficienza della politica attuale che spesso non in grado di assolvere ai propri compiti; in questa evenienza la magistratura sarebbe costretta ad intervenire per risolvere problemi che altrimenti rimarrebbero insoluti. Sarebbe l’applicazione di una specie di legge di vasi giuridici intercomunicanti: quando viene meno la pressione di uno (la politica), interviene automaticamente la compensazione dall’altra (la giurisdizione).

A ben vedere, però, siffatta evenienza rappresenta una forte anomalia, atteso che la stessa ragione fondante la giurisdizione è costituita dalla soggezione del giudice unicamente alla legge e dall’obbligo di fornire interpretazioni sempre costituzionalmente orientate, laddove non sia proprio strettamente indispensabile investire la Corte Costituzionale.

Ebbene, per segnare il confine fra attività interpretativa legittima e corretta gestione del “servizio” giustizia, la soluzione non può essere -nell’attuale contesto storico- che quella di individuare nel Valori e nei Principi fondamentali disegnati nella Carta costituzionale gli sbarramenti invalicabili dell’esercizio della discrezionalità tecnica spettante al magistrato, ovunque egli stia svolgendo le sue funzioni ed esercitando le sue prerogative: ciò sia nell’esercizio della giurisdizione quale giudice di merito o di legittimità, sia nello svolgimento di attività amministrative come fuori ruolo che nelle prerogative di componente del C.S.M..

La concezione della magistratura come “servizio” pubblico va fondata sul rispetto dei valori della Costituzione (solidarietà, uguaglianza formale e sostanziale, libertà e centralità della persona, buona amministrazione, rispetto delle minoranze e delle peculiarità territoriali), riconoscendo in questi valori i propri limiti e confini invalicabili.

In questo modo si può restituire dignità alla delicata funzione riconosciuta dall’ordinamento agli  interpreti e garanti dell’inviolabilità dei diritti.

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