NOVITA’ LEGISLATIVA: I nuovi rimedi risarcitori previsti dall’art. 35-ter ord. penit. nelle prime applicazioni della giurisprudenza di merito.

1. Premessa: la sentenza “Torreggiani” e la conseguente introduzionenell’ordinamento penitenziario di rimedi preventivi e risarcitori (artt. 35-bis e35-ter ord. pen.).

Con la sentenza pilota 8 gennaio 2013, “Torreggiani c. Italia”, la Corte edu, rilevata la strutturale violazione dell’art. 3 Cedu da parte dell’Italia, a causa del “grave sovraffollamento” dei relativi istituti penitenziari – condannava il nostro Paese, ma, al contempo, dichiarava sospesi tutti i ricorsi dei detenuti italiani, aventi ad oggetto il riconoscimento della violazione patita, concedendo allo Stato convenuto il termine di un anno a partire dal maggio 2013 (termine ora posticipato al giugno 2015), entro il quale adottare le misure necessarie per porre rimedio alla situazione di sovraffollamento delle carceri.In risposta a quanto intimatogli, il governo italiano emanava il decreto legge n. 146 del 2013 (c.d. decreto “svuota-carceri”), successivamente convertito nella l. n. 10 del 2014, introducendo nell’ordinamento penitenziario nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’art. 3 della CEDU.In estrema sintesi, la rafforzata tutela si concretizza in due autonome azioni, disciplinate, rispettivamente, agli artt. 35-bis e 35-ter ord. pen., che consentono al detenuto di essere sottratto con rapidità da una situazione che genera la violazione del suo fondamentale diritto a non subire trattamenti inumani e al contempo di conseguire un ristoro per la violazione subita.I due rimedi non sono alternativi tra loro, ma al contrario consentono all’interessato, che assuma di patire (o di aver patito) una condizione detentiva contraria all’art. 3 Cedu, di rivolgersi al magistrato di sorveglianza al fine di ottenere l’immediato ripristino della legalità e al contempo di ottenere una riduzione della pena da espiare (nella misura di un giorno per ogni dieci giorni di pregiudizio subito) o, in via subordinata, un risarcimento in forma monetaria (nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio patito); ciò in aderente conformità a quanto affermato dai giudici di Strasburgo nella sentenza Torreggiani.Nel primo caso (art. 35-bis ord. pen.), il procedimento prevede nel suo sviluppo uno specifico rimedio mutuato dallo schema del giudizio amministrativo di ottemperanza; nel secondo caso il contenuto risarcitorio conferisce al procedimento natura marcatamente civilistica, al punto da prevedere una tutela sussidiaria e residua davanti al tribunale ordinario – entro sei mesi dalla cessazione della pena -, nei casi in cui il pregiudizio non sia computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero il soggetto che assume di averlo patito abbia terminato di espiare la pena detentiva.In entrambe le ipotesi (35-bis e 35-ter cit.), il procedimento innanzi al magistrato di sorveglianza si svolge secondo le previsioni degli artt. 666 e 678 cod. proc. pen., con la necessaria estensione del contraddittorio all’amministrazione interessata; nell’ipotesi residuale di competenza del Tribunale civile in composizione monocratica, la disciplina è quella fissata dagli artt. 737 e ss. cod. proc. civ. e il risarcimento del danno è da liquidare nella stessa misura determinata per i casi in cui a decidere sia il magistrato di sorveglianza.

2. La decisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 5 giugno2014.

I rimedi approntati dal Governo italiano hanno riscosso un primo significativo apprezzamento da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che, nell’ambito del controllo sull’esecuzione della sentenza Torreggiani, all’esito della sua riunione n. 1201, esaminando il contenuto del decreto legge, che da lì a breve sarebbe stato adottato, si è espressamente rallegrato sia per la creazione di un ricorso preventivo entro il termine fissato dalla sentenza pilota – invitando comunque le autorità a fornire informazioni complementari sulla sua attuazione, in particolare alla luce del controllo che esse prevedono di esercitare in questo contesto -, sia “per l’istituzione di un ricorso di natura risarcitoria, che prevede la possibilità di una riduzione di pena per detenuti che stiano ancora scontando la pena e un risarcimento pecuniario per coloro che siano stati già scarcerati”.Malgrado i positivi giudizi espressi, il Comitato si è riservato di riesaminare la situazione nel giugno 2015, allo scopo di valutare pienamente i progressi compiuti alla luce di un piano/bilancio d’azione aggiornato che a quella data dovrà essere fornito. 

3. La sentenza Corte edu “Stella ed altri c. Italia” del 16 settembre 2014.

Un secondo positivo riscontro all’adeguatezza delle risposte fornite dall’Italia alle prescrizioni della “Torreggiani” lo si registra nella sentenza della Corte edu “Stellacontro Italia” del 16 settembre 2014, con la quale i Giudici di Strasburgo, chiamati per la prima volta dopo la novella del 2014 a pronunziarsi sui nuovi rimedi risarcitori introdotti nell’ordinamento penitenziario, hanno espresso un giudizio ampiamente positivo sulla accessibilità dei ricorsi preventivi e riparatori, nonché sulla apparente effettività degli stessi, riservandosi, però, sotto questo secondo profilo, la possibilità di un eventuale riesame che consideri anche le decisioni rese dai giudici nazionali e l’effettiva loro esecuzione.Entrando maggiormente nel dettaglio della pronuncia ora in esame, i giudici di Strasburgo plaudono alla nuova via di ricorso preventivo (art. 35-bis ord. pen.), che specifica ormai l’obbligatorietà delle decisioni adottate dal magistrato di sorveglianza nell’ambito dei reclami dei detenuti in materia di ordinamento penitenziario, a differenza del reclamo generico previsto dall’art. 35 ord. pen., che era stato ritenuto dalla “Torreggiani” non effettivo per la mancanza di strumenti che consentissero di portare ad esecuzione le decisioni assunte dalle autorità competenti.Di contro, gli attuali nuovi rimedi vincolano l’Amministrazione dello Stato alla decisione assunta dall’Autorità giudiziaria competente, al punto da prevedere nell’ipotesi di inottemperanza una esecuzione forzata.L’effettività del rimedio trova, sotto altro profilo, maggiore garanzia nel miglioramento della situazione del sistema penitenziario italiano, grazie alle misure di merito, predisposte dallo Stato italiano per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario.Il ricorso viene infine giudicato dalla Corte un rimedio a priori accessibile, in gradocioè di offrire alle persone sottoposte alla giustizia delle prospettive ragionevoli di esito positivo.Tuttavia, secondo i giudici occorre ancora verificare l’effettività del rimedio alla prova dei fatti e, segnatamente, “alla luce delle decisioni rese dai giudici nazionali e dell’effettiva esecuzione di queste ultime”.Analogo giudizio (positivo con riserva) la Corte esprime anche in merito al ricorsorisarcitorio, constatando che si tratta di un rimedio accessibile a chiunque lamenti di essere stato detenuto in Italia in condizioni materiali contrarie alla Convenzione, in essi compresi, alla luce della disposizione transitoria contenuta all’art. 2 della l. n. 10 del 2014, coloro che avevano già presentato dinanzi alla Corte ricorso, da questa non ancora dichiarato ricevibile.Per quanto riguarda le caratteristiche della riparazione, ritiene soddisfacente ed appropriata anche nel quantum la riparazione tramite riduzione di pena, che presenta l’innegabile ulteriore vantaggio di contribuire a risolvere il problema delsovraffollamento accelerando l’uscita dal carcere delle persone detenute; mentre in relazione alla compensazione pecuniaria, pur rilevando che la somma fissata dal legislatore italiano si pone al di sotto dei parametri della “Torreggiani”, valuta la stessa ugualmente in termini positivi, osservando che, “quando uno Stato ha fatto un passo significativo introducendo un ricorso risarcitorio per porre rimedio a una violazione della Convenzione, essa deve lasciargli un più ampio margine di apprezzamentoaffinché lo Stato possa predisporre tale ricorso interno in maniera coerente con il proprio sistema giuridico e le sue tradizioni, conformemente al livello di vita del paese.In tali situazioni, segnate da una gran mole di ricorsi, la Corte ha ritenuto non irragionevole la previsione di somme, che, pur essendo inferiori a quelle fissate dalla Corte medesima, costituiscano comunque una risposta rapida e celere nella sua esecuzione dello Stato convenuto ai numerosi ricorsi intentati nei suoi confronti”.Tuttavia, anche in questa circostanza, la Corte rimarca di voler mantenere la propria competenza di controllo finale per tutte le doglianze presentate da ricorrenti, che, in base al principio di sussidiarietà, abbiano esperito tutte le vie di ricorso interne disponibili.Riassumendo, sembra poter affermarsi che le risposte normative offerte dall’Italiaalla condanna “Torreggiani” abbiano ricevuto – tanto dal primo vaglio giurisdizionale della CEDU quanto da quello operato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – un giudizio ampiamente positivo sul piano contenutistico astratto, che attende, però, ora un riscontro effettivo nella applicazione delle norme.Riscontri positivi che, a non tacere il vero, appaiono, allo stato, non del tutto scontati, ove solo si consideri la riserva mantenuta da parte dei giudici di Strasburgo inattesa di ulteriori positivi riscontri nella applicazione concreta dei nuovi rimedi, ovepotrà cogliersi l’esatta loro configurazione da parte dei giudici.Riserva, non riconducibile ad una mera clausola di stile, ma dettata forse dal fattoche non è sfuggita al Giudice europeo l’insidia proveniente da taluni passaggi della recente normativa e in particolar modo del rimedio risarcitorio, il cui tenore si presta a differenti opzioni esegetiche, in grado di ampliarne o di ridurne sensibilmente l’ambito applicativo e quindi la stessa sua effettività, con il consequenziale rischio tangibile che l’Italia possa ancora trovarsi esposta a censure per l’inadeguatezza della normativa interna a tutela delle violazione ex art. 3 della Convenzione e subire così nuove condanne.

4. L’attualità del pregiudizio nel rimedio ex art. 35-ter ord. pen.

Nel quadro delle preoccupazioni da ultimo espresse si colloca la difficiledelimitazione dell’ambito operativo del rimedio risarcitorio previsto dall’art. 35-ter cit.Il problema lo pone l’incipit della norma che, tra i presupposti costitutivi dell’istituto, rimanda, per qualificare il pregiudizio legittimante l’azione, all’art. 69, comma 6, lett. b., ord. pen., che considera rilevante, ai fini del reclamo di cui all’art. 35-bis, ord. pen., l‘inosservanza da parte dell’amministrazione delle disposizioni previste dall’ordinamento penitenziario e dal relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti.Il rinvio normativo appena evidenziato ha posto subito il problema di individuare traquale delle distinte azioni risarcitorie previste dall’art. 35-ter cit. collocare i ricorsi avanzati da soggetti in stato di detenzione, ma relativi a pregiudizi non attuali.La lettera della norma è chiara, infatti, nell’individuare la competenza del magistrato di sorveglianza a decidere i ricorsi del soggetto che lamenti nell’attualità un’inumana detenzione (art. 35, commi 1 e 2, cit.), nonché quella del giudice civile per i ricorsi di coloro che, per varie ragioni, non siano più detenuti (art. 35-ter, comma 3, cit.).Oscura è invece la legge nel riparto di competenza tra ufficio di sorveglianza egiudice civile in relazione alle istanze provenienti dal soggetto che, da detenuto,lamenti una pregressa, ma non più attuale, detenzione in violazione dell’art. 3 CEDU, con le conseguenze che ne derivano, atteso che solo nel primo caso, ricorrendo gli altri presupposti di legge, il detenuto potrebbe ottenere il risarcimento in forma specifica.Sulla questione non risultano, ad oggi, arresti della Suprema Corte e la giurisprudenza di merito appare oscillante tra due antitetiche opzioni interpretative, con sensibili ricadute sull’individuazione dell’organo giurisdizionale competente e, quindi, sui tempi e le modalità del risarcimento, tali da incidere pesantemente sulla effettività dell’istituto in esame, che, si rammenti, costituisce il risultato che la Corte europea attende di riscontrare positivamente.Prima di addentrarci nella disamina dell’attuale contrasto esegetico, è opportuno osservare che il legislatore nella redazione della norma abbia fatto ricorso ad un utilizzo improprio del termine pregiudizio, che, in un’ottica strettamente civilistica, non coincide con l’attività lesiva, ma ne è l’effetto, che permane anche quando la causa che lo ha provocato sia cessata.

4.1. L’orientamento che ritiene necessario il requisito dell’attualità.

Un primo filone esegetico, sin qui seguito da una significativa componente della magistratura di sorveglianza, sostiene che i rimedi compensativi previsti dall’art. 35, commi 1 e 2, ord. pen. radicano la competenza del magistrato di sorveglianza, a condizione che il pregiudizio patito sia sussistente al momento della presentazione dell’istanza, perdurando sino al giorno della decisione.Sulla base di questo presupposto, quegli uffici di sorveglianza, aderenti all’indirizzo ermeneutico ora in esame, hanno dichiarato inammissibili o comunque rigettato le istanze avanzate ai sensi dell’art. 35-ter,comma 1, ord. pen. da soggetto detenuto in esecuzione pena, se relative a pregiudizi non più attuali.Talune di tali decisioni si conformano espressamente a quanto sul tema espressoanche dal Consiglio Superiore della Magistratura nel parere tecnico sul d.l. n. 92 del 2014 (Odg. 1095-Aggiunto del 30 luglio 2014)6, nel quale, in particolare, si afferma,  sulla base di una stringente valutazione letterale del testo di legge, che la clausola di apertura dell’enunciato normativo, espressa dal periodo “quando il pregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6, lett. b)“, non può che rinviare alla medesima cornice giuridica del reclamo giurisdizionale, con la conseguenza che il primo requisito per poter azionare i rimedi, previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 35-ter cit., davanti al magistrato di sorveglianza (ovvero la riduzione della pena ed il risarcimento del danno nella forma del pagamento di una somma pecuniaria), è che in capo al detenuto o all’internato sia configurabile una situazione di “attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti” conseguente all’inosservanza, da parte dell’Amministrazione, di disposizioni previste dalla legge penitenziaria e dal relativo regolamento. Un pregiudizio che, peraltro, deve afferire ad una condizione detentiva tale “da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo” e che, pertanto, configura una violazione del divieto di tortura ovvero di trattamenti “inumani o degradanti”.Seguendo, dunque, questa prima tesi, i confini tra le differenti azioni riconosciute al detenuto a tutela dei propri diritti vanno fissati nei termini che seguono:a) sono azionabili innanzi al magistrato di sorveglianza, ai sensi degli artt. 35 ter,commi 1 e 2, cit. le istanze relative a lesione dei diritti della persona incarcerata, per violazione dell’art. 3 CEDU, che sia attuale al momento della richiesta di accertamento e non si sia ormai consumata (per essersi, ad esempio, esaurita la situazione di sovraffollamento);b) appartengono alla competenza del tribunale civile in sede monocratica, le istanze ex art. 35-ter, comma terzo, ord. pen., provenienti da soggetto non più detenuto e che lamenti un pregiudizio per violazione dell’art. 3 CED;c) in applicazione analogica dell’art. 35-ter, comma terzo, cit. (trattandosi di ipotesi del tutto equiparabile, per caratteri ed effetti a quella sub b), appartengono alla competenza del medesimo giudice civile individuato da tale norma le istanze avanzate da soggetto detenuto per lesioni derivanti da violazione dell’art. 3 CEDU, che non siano però attuali;c1) l’attualità del pregiudizio deve essere sussistente al momento della proposizione della domanda, in coerenza con la norma contenuta nell’art. 5 cod. proc. civ.: “la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo” ma deve persistere sino al momento della decisione;d) per i pregiudizi del detenuto non riconducibili a violazioni dell’art. 3 CEDU, la competenza è quella ordinaria del giudice civile, in materia di illecito extracontrattuale (art. 2043 e ss. cod. civ.). 

4.2. L’orientamento che esclude l’attualità del pregiudizio dagli elementi costitutivi del ricorso risarcitorio in forma specifica.

All’indirizzo sin qui esaminato, se ne contrappone un altro, seguito dalla restante giurisprudenza di merito e sostenuto da gran parte della dottrina10, secondo cui, tra i requisiti fondanti la legittimazione ad agire innanzi al magistrato di sorveglianza, ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 35-ter cit. non è da includere l’attualità del pregiudizio, inteso quale attualità della violazione, ovvero delle condizioni disumane e degradanti.Della tesi confutata, questo secondo orientamento contesta, innanzi tutto, l’argomento fondante (vale a dire i risultati dell’interpretazione testuale del dato normativo) e ne evidenzia, poi, anche gli scompensi sistematici ed applicativi, contrapponendo, sotto ambedue i profili di valutazione, una diversa esegesi dellanorma, che si assume essere maggiormente conforme alla volontà del legislatore e più in armonia con il sistema nel suo complesso.In merito al primo punto (interpretazione letterale della norma), si osserva che “Ilpregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6, lett. b)”, oltre ad essere espressamentemenzionato al primo comma dell’art. 35-ter, cit., è anche oggetto del rinvio operato dal terzo comma dello stesso articolo che indica come platea di riferimento per il ricorso da esso regolamentato «coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1».In ragione del richiamo operato dal terzo comma la nozione di pregiudizio della norma non può che essere unica e riferirsi, quindi, allo stesso evento dannoso, con le stesse caratteristiche; a differire sarebbe solo il profilo della competenza a decidere: in un caso il magistrato di sorveglianza, nell’altro il tribunale ordinario.Se, però, in relazione alla istanza di cui al primo comma, è possibile in astratto configurare ipotesi di pregiudizio sia attuale che “non”, nel caso invece del terzo comma, che presuppone sempre la cessazione dello stato di detenzione dell’istante, il pregiudizio può, per definizione, essere solo non attuale.Dovrebbe, dunque, ipotizzarsi che al medesimo termine (pregiudizio) il legislatoreabbia inteso attribuire nel corpo della stessa norma due differenti accezioni; il cheappare palesemente incongruo ed offre, così, ai fautori dell’indirizzo ora in esame, un primo argomento di difficile superamento a sostegno di una nozione di pregiudizio che prescinde dal profilo dell’attualità 11 e che conseguentemente porti a ritenere la competenza esclusiva del Magistrato di sorveglianza ad esaminare tutti i ricorsi di soggetti in stato di detenzione per violazione dell’art. 3 CEDU  , a prescindere se relativi ad una situazione di attualità o meno del pregiudizio.La conclusione cui si perviene è che nella formulazione delle norme in esame lavolontà del legislatore sarebbe stata mal espressa, in quanto il rinvio all’art. 69 comma 6 lett. b) altro non significherebbe che il rapporto di species a genus del pregiudizio legittimante l’azione ex art. 35-tercit. rispetto al “pregiudizio all’esercizio dei diritti” per inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste dall’ordinamento penitenziario.L’argomento appena sviluppato non è per l’unico, in quanto, restando ancora sul piano della interpretazione letterale della norma si osserva, da parte della stessadottrina di cui sopra, che seguendo la confutata opzione esegetica strettamente aderente al testo dell’art. 69, comma 6, lett. b, dovrebbe affermarsi che il pregiudizio derivante da violazione dell’art. 3 della CEDU, oltre quello dell’attualità, dovrebbe possedere anche il requisito della gravità, con la conseguente introduzione ai fini della risarcibilità di una distinzione tra violazioni dell’art. 3 CEDU «gravi» e «non gravi», priva di contenuto e soprattutto sconosciuta alla giurisprudenza della Corte edu.Ed ancora, tornando al profilo della attualità, oscura risulterebbe la previsione contenuta al secondo comma dell’art. 35-ter cit. (risarcimento nel caso di detenzione in  condizioni non conformi all’art. 3 inferiore ai quindici giorni), in quanto relativa ad una ipotesi in cui il pregiudizio non potrebbe mai essere attuale al momento della decisione, atteso che le stesse cadenze del procedimento escludono che il magistrato possa decidere prima di quindici giorni dalla presentazione dell’istanza. Non è un caso che lo stesso legislatore utilizza, nell’occasione, verbi coniugati ad un tempo passato (qualora il periodo espiato…sia stato).Una più meditata ed articolata lettura del testo di legge scardinerebbe, dunque, (adire sempre dei sostenitori di questo secondo indirizzo) nelle sua fondamenta la tesi dell'”attualità del pregiudizio”, rispetto alla quale gli stessi autori non mancano, poi, di evidenziare i profili di incongruenza in chiave sistematica.Si osserva, in questa seconda prospettiva, che, ove anche si volesse ritenere forzata l’interpretazione letterale da cui discende la non necessaria attualità del pregiudizio di cui al rimedio risarcitorio, certamente più ardita sarebbe l’anticipazione per via analogica della competenza del giudice civile ad un momento precedente rispetto alla dismissione carceraria dell’istante.Al più, si aggiunge, a voler tutto concedere all’idea della lacuna normativa, questapotrebbe essere colmata, nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata che escluda disparità di trattamento, assimilando la posizione dei detenuti che lamentano un pregiudizio pregresso a quella dei detenuti che stanno subendo il danno al momento in cui presentano il ricorso. In questo caso, infatti, l’estensione per analogia della norma, essendo in bonam partem, non si scontrerebbe con il divieto posto dall’art. 14 prel. e consentirebbe ai detenuti di ricorrere al magistrato di sorveglianza e di accedere al risarcimento in forma specifica, cui il legislatore attribuisce valenza prioritaria, rispetto a quello compensativo.

4.3. Riflessi sistematici ed applicativi dei due orientamenti.

I sostenitori di ciascuno dei due contrastanti orientamenti non si sottraggono dal misurare gli effetti applicativi e sistemici delle rispettive esegesi.Nello specifico, gli aderenti alla tesi della “necessaria attualità del pregiudizio”, ritengono che tale approdo ermeneutico, oltre che maggiormente fedele al dato testuale della norma, risponda alla esigenza di circoscrivere al massimo l’eccezionale  collocazione di uno strumento risarcitorio nell’ambito – del tutto peculiare – della giurisdizione attribuita alla magistratura di sorveglianza.Interpretazioni estensive o analogiche della norma sortirebbero la creazione di un foro speciale a privilegio esclusivo dei soggetti detenuti, che non pare coerente con il canone di eguaglianza di tutti i soggetti dell’ordinamento di fronte alla legge.Ne consegue che laddove il pregiudizio sia del tutto cessato, una competenza di natura risarcitoria attribuita al giudice di sorveglianza porrebbe seri problemi di compatibilità con la regola della competenza generale in materia di risarcimento del danno assicurata dalla giurisdizione del giudice civile.Al riguardo si richiamano le considerazioni espresse dalla Corte costituzionale nellasentenza n. 279 del 2013, relativa alla questione di costituzionalità dell’art. 147 del codice penale «nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamentecontemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità».Con tale arresto, la Corte ha riconosciuto «l’effettiva sussistenza del vulnus  denunciato dai rimettenti e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio idoneo a garantire la fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto che sia costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità»Ebbene, – secondo la lettura qui in esame -, nella medesima prospettiva dovrebbeessere interpretato anche il rimedio introdotto dall’art. 35-ter ord. penit., per cui lariduzione pro rata della pena residua ancora da espiare dovrebbe essere riservata soltanto alle situazioni di condizioni detentive che comportino un pregiudizio “attuale” in termini di trattamenti penitenziari inumani e degradanti.La più significativa ricaduta applicativa di tale ricostruzione ermeneutica si condensa nell’assunto che, in tutti i casi in cui la lesione da violazione dell’art. 3 CEDU non possegga le caratteristiche della “attualità” – nel senso sopra indicato – essa fuoriesce dall’ambito della competenza della magistratura di sorveglianza, per ricadere nella giurisdizione generale in materia risarcitoria affidata al giudice civile.Alle considerazioni sin qui svolte, il diverso orientamento sopra menzionato replicaosservando che le stesse, oltre a fondarsi su di una errata interpretazione letteraledella norma, offrono un inquadramento dei nuovi istituti che provocherebbe “severi scompensi sistematici e applicativi”.Di tutta evidenza, innanzi tutto, che la censura di una indebita generalizzata competenza della magistratura di sorveglianza in un ambito dalle connotazioni sostanzialmente civilistiche, avrebbe ragione di essere sollevata, nella misura in cui, rilevata una effettiva lacuna nella nuova normativa “risarcitoria” in relazione alle istanze provenienti da detenuti relative a pregiudizi non attuali, si fosse preteso di colmarla, anziché ricorrendo alla naturale competenza della giurisdizione civile, applicando analogicamente le previsioni eccezionali previsioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 35 ter cit. con conseguente estensione della competenza del magistrato di sorveglianza.Dimostrata, però – come sopra si è ritenuto di aver dimostrato – l’errata lettura deldato testuale normativo su cui si fonda la tesi “attualista”, verrebbero a cascata meno le ulteriori osservazioni a questa riconducibili in chiave sistemica e in particolare la preoccupazione di una generalizzata ed indebita attribuzione di competenze risarcitorie al magistrato di sorveglianza, al di là di quanto dal legislatore previsto.Superando, per il momento, questo primo ordine di considerazioni che potrebbe tuttavia rivelarsitranchant nella soluzione della questione controversa, i sostenitoridella tesi ora in esame confutano la contrapposta ricostruzione esegetica, anche nella parte in cui questa ritiene di poter estendere per via analogica la competenza del giudice civile ex art. 35 ter, ord. pen. alle ipotesi di pregiudizio “non attuale” lamentato da soggetto in stato di detenzione.Si obietta, in particolare, che una simile ipotesi rischierebbe, in ragione dei tempi e delle modalità di intervento del giudice civile di vanificare l’efficacia dello strumentorisarcitorio.Invero, la legittimazione ad adire il giudice civile resterebbe in stand by sino alladata di scarcerazione del richiedente, che potrebbe arrivare anche a distanza di molti anni o, in ipotesi, anche mai (come nel caso dell’ergastolano o del soggetto che, nel corso della detenzione, morisse in carcere).E’ vero che l’inconveniente potrebbe, in astratto, essere superato, prefigurando ilsuccedersi della competenza del giudice civile con l’esaurirsi di quella del magistrato di sorveglianza, che consentirebbe di esperire il rimedio risarcitorio anche in regime di detenzione, ma, in tale ipotesi, occorrerebbe, pur sempre, stabilire se il giudice civile debba intervenire con le modalità ordinarie ovvero con le forme ed i limiti specificamente stabiliti dal terzo comma dell’art. 35-ter cit.; ben consapevoli che, in ambedue i casi, al detenuto sarebbe precluso l’accesso alla riduzione di pena, che costituisce la forma di risarcimento privilegiata dal legislatore e dalla stessa Corte europea, che nella sentenza “Stella” ha manifestato vivo apprezzamento per tale forma di riparazione, a fronte delle parole, più di giustificazione che di plauso, per il risarcimento pecuniario.Ed è proprio il tenore della appena citata sentenza della Corte di Strasburgo che offre ai sostenitori della tesi in esame l’occasione per rammentare che, oggi, alla luce del nuovo art. 117 Cost., le disposizioni della CEDU, così come interpretate dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, costituiscono parametro di legittimità costituzionale della legislazione nazionale, con la conseguenza che, in vicende come quella che qui ci occupa, nell’esegesi delle risposte normative del governo italiano alla condanna subita da parte della Corte edu non può prescindersi dai principi da questa affermati, optando, ove in ipotesi si prospettassero alternative esegetiche parimenti plausibili, per la soluzione maggiormente conforme alla CEDU.E così, anche alla luce di tale canone ermeneutico, la conclusione cui si perviene è nel senso di una interpretazione della norma che consenta la massima estensionepossibile all’applicazione dello strumento risarcitorio della riduzione di pena, includendo nella competenza del magistrato di sorveglianza anche le ipotesi di detenzione senza attualità di pregiudizio, la cui esclusione ridurrebbe marcatamente l’ambito applicativo della norma, depotenziandone l’efficacia in chiave di tutela dei diritti di cui all’art. 3 CEDU.Questi sono, allo stato, i termini del dibattito, rispetto al quale, occorre ribadirlo, non si registrano, ad oggi, interventi della Suprema Corte, che nella sua funzione nomofilattica potrà fornire una indicazione risolutiva dell’attuale acceso contrasto sviluppatosi in seno alla giurisprudenza di merito.

5. La nozione di detenuto ai fini della legittimazione all’azione risarcitoriain forma specifica.

In relazione ai soggetti legittimati all’azione di cui all’art. 35-ter, cit., il legislatore distingue tra i richiedenti che si trovano ancora in regime di detenzione, cui riconosce (sia pure nella circoscritta ipotesi di pregiudizio derivato da condizioni di detenzione in violazione dell’art. 3 CEDU non inferiore ai quindici giorni), il risarcimento in forma specifica (pari alla riduzione di un giorno di pena da espiare per ogni dieci di pregiudizio patito) e coloro che hanno subito identico pregiudizio, in stato cautelare non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero hanno terminato di espiare la pena detentiva, cui viene riconosciuto il risarcimento in forma pecuniaria nella misura di 8 euro per ogni giorno di detenzione.In linea di massima, la distinzione tra le due ipotesi appare chiara: da un lato la condizione di chi si trova in regime di detenzione; dall’altro di chi è ormai libero.Tuttavia, anche in questa circostanza, il tenore della norma si presta a difficoltà interpretative in relazione a talune particolari (ma tutt’altro che infrequenti) condizioni in cui potrebbe trovarsi l’istante.Ci si riferisce alla figura degli internati e dei soggetti in custodia cautelare; all’ipotesi del condannato ammesso alla misura alternativa alla detenzione; ai casi, infine, di richiedenti, in regime di detenzione, ma per titolo diverso da quello nel cui periodo ricade il pregiudizio.In attesa anche in questo caso di un pronunciamento del giudice della legittimità, soccorrono su tali problematiche le prime esegesi fornite dalla giurisprudenza di merito ed i relativi commenti della dottrina.

5.1. La legittimazione degli internati e dei detenuti in misura cautelare.

Avuto riguardo all’azione risarcitoria in forma specifica, disciplinata all’art. 35-ter, comma 1, cit., il legislatore menzionando esclusivamente il “detenuto” potrebbe aver inteso escludere da tale rimedio l’internato.I due termini sono utilizzati nel linguaggio della legge di ordinamento penitenziario, per intendere situazioni tra loro profondamente diverse: con il primo si fa riferimento  all’imputato e al condannato in stato di privazione della libertà personale; con il secondo, il soggetto in esecuzione di una misura di sicurezza.Cionondimeno, la stessa dottrina che ha rilevato l’apparente distonia, ritiene che la questione vada risolta respingendo l’interpretazione letterale della norma, in favore di una più ragionata lettura complessiva della disciplina, che induce ad imputare la mancata menzione al comma 1 cit. degli internati, ad una mera dimenticanza del legislatore, che, non a caso, sia nella rubrica dell’art. 35-ter cit. sia nella norma transitoria (art. 2 cit.) fa espresso riferimento ad ambedue le figure.La conclusione cui si perviene è, dunque, nel senso che i nuovi rimedi risarcitori sono diretti a tutti i soggetti che reclamino un danno derivante dall’essere stati detenuti in condizioni contrarie all’art. 3 Cedu, indipendentemente dalla posizionegiuridica di imputati, condannati o internati.Una notazione meritano anche i detenuti in misura cautelare.Come è noto, la nuova disciplina riconosce al magistrato di sorveglianza la competenza a giudicare sul pregiudizio patito dal richiedente in custodia cautelare,quando questa è imputabile alla pena successivamente comminata; nel caso contrario, invece, la competenza ricade sul giudice civile ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen.Tuttavia, si osserva opportunamente in dottrina, tale riparto della competenza nonpuò implicare il rinvio alla data di definizione del giudizio della legittimazione di colui che assuma aver patito un pregiudizio durante la custodia cautelare, in quanto il rimedio, nella sua congeniata efficacia, è – e deve essere – immediatamente esperibile dal soggetto interessato, il quale può anche differirne l’azionamento ad un secondo momento (ed in questo caso varranno le regole di riparto suindicate), ma se intende agire nell’immediatezza, in regime di detenzione cautelare, è legittimato ad adire il magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 35-bis cit. per l’immediata cessazione della lesione grave ed attuale e (nulla sembrerebbe escluderlo), anche ai fini risarcitori, sia pure evidentemente nella forma compensativa.

5.2. Le richieste risarcitorie provenienti da soggetti ammessi a misure alternative alla detenzione.

Ulteriore questione (irrisolta dalla lettera della norma) attiene all’individuazione dell’esatto rimedio risarcitorio da riconoscere al condannato ammesso ad una misura alternativa.Per comprendere i termini della questione appare illuminante l’esempio seguente,tutt’altro che improbabile: due soggetti, correi, che permangono per alcuni mesi incondizioni detentive contrarie all’art. 3 CEDU, successivamente risolte (a es. perscarcerazione cautelare, o per trasferimento in camere di detenzione corrispondenti ai parametri CEDU). Nel corso dell’esecuzione della pena definitiva, uno di essi, per avere serbato regolare condotta ed avendo partecipato attivamente al trattamento rieducativo, viene ammesso ad espiare la pena residua in regime di affidamento in prova al servizio sociale. L’altro, invece, responsabile di numerosi episodi di natura disciplinare, è valutato non meritevole di accedere ai benefici penitenziari e continua ad espiare la pena in carcere. Intervenuta la vigenza dell’art. 35-ter, ord. penit., entrambi decidono di agire per il risarcimento del pregiudizio subìto; a quale giudice devono rivolgersi?26Seguendo la tesi, secondo cui legittimato all’azione risarcitoria in forma specifica èesclusivamente l’istante in stato di carcerazione, si avrebbe, nel caso prospettato,l’effetto paradossale che, il primo soggetto potrebbe ottenere soltanto il risarcimento pecuniario, benché certamente più meritevole di beneficiare di uno “sconto” di pena, rispetto al secondo che invece potrebbe fruirne.Il paradosso appena paventato potrebbe, invece, essere scongiurato, ove si acceda ad una interpretazione della norma, che, in ossequio anche alla sua ratio fondante tendente a privilegiare tra le due modalità risarcitorie quella in forma specifica, consenta l’accesso al rimedio “premiale” per l’intero corso di esecuzione della pena, compreso, dunque, l’eventuale periodo espiato in misura alternativa alla detenzione.Si osserva, peraltro, che il condannato ammesso ad una misura alternativa non hatecnicamente “terminato di espiare la pena detentiva in carcere”, in quanto in qualsiasi momento può intervenire una revoca della misura, con il rispristino del regime detentivo inframurario.In ultimo, deve essere considerato che l’importanza di accedere ad una soluzione anziché all’altra è di significativa rilevanza a condizione che, in relazione all’altra questione già esaminata, relativa alla necessità o meno che il pregiudizio legittimante il risarcimento in forma specifico sia connotato dal requisito dell'”attualità”, si acceda alla tesi più estensiva.E’, invero, di logica evidenza che l’istante ammesso ad una misura alternativa nonpossa che lamentare un pregiudizio non più attuale, sicché, per coloro che escludono tale tipologia di lesione dal rimedio ex art. 35-ter, comma 1, cit., in qualsiasi delle soluzioni sopra prospettate sull’inquadramento giuridico del condannato sottoposto a misura alternativa alla detenzione competente a provvedere sarebbe il tribunale civile in composizione monocratica civile e l’unica forma di risarcimento sarebbe quella compensativa.

5.3. Le istanze provenienti da detenuti sulla base di un titolo diverso da quello cui si riferisce il pregiudizio.

Ulteriore ipotesi problematica concerne la richiesta di risarcimento, avanzata da un soggetto in stato di detenzione, ma relativa ad un periodo di carcerazione sofferto in forza di un diverso titolo cautelare o esecutivo.Sul tema, non si registrano, allo stato, pronunce della giurisprudenza, tuttavia la questione potrebbe trovare soluzione, individuando, ancora una volta, tra le possibili opzioni esegetiche in astratto prospettabili, quella che, in ossequio alla ratio fondante della nuova disciplina, consenta di accedere al rimedio risarcitorio in forma specifica, privilegiato, come ormai noto, tanto dal legislatore, quanto dalla Corte edu rispetto alla rimedio compensativo.L’adozione di questo canone ermeneutico, non esime, tuttavia, dal verificare se, nel caso specifico, possa effettivamente parlarsi di unicità del titolo esecutivo, estendendo tale accezione anche a quei provvedimenti, attraverso i quali, nella determinazione della pena complessiva da espiare, risultino computati, nei limiti fissati dall’art. 657 cod. proc. pen., periodi di detenzione per reati diversi, ovvero pene concorrenti ex art. 663 cod. proc. pen.; ma non a quelle ipotesi in cui tra il periodo di detenzione per cui si avanza la richiesta di risarcimento e l’attuale titolo detentivo vi sia stata interruzione.Ragionando secondo il canone ermeneutico prospettato, legittimato all’azione risarcitoria ex art. 35-ter, comma 1, cit. potrebbe essere ritenuto il detenuto, che, in ipotesi, lamenti un pregiudizio patito durante la carcerazione per un diverso titolo, computata, però, nella determinazione della pena attualmente in corso di espiazione; di contro, legittimato soltanto all’azione ex art. 35-ter, comma 3, cit. sarebbe il soggetto, in regime di detenzione, per un reato commesso in epoca successiva rispetto al periodo cui si riferisce l’istanza.

6. La natura giuridica dei ricorsi e i riflessi in tema di prescrizione.

Un’ultima questione, che solo per comodità espositiva è parso opportuno collocare al termine dell’excursus sin qui condotto, attiene alla natura giuridica dei rimedi risarcitori in esame ed ai riflessi in tema di prescrizione.Ancora una volta, deve premettersi che, allo stato, non si registrano sul tema pronunce in sede di legittimità, ragion per cui ci si limita a richiamare le prime interpretazioni fornite dai giudici del merito e dalla dottrina, che, per il vero, convergono nell’escludere che il rimedio in esame abbia natura di indennizzo, come del resto conclamato dal testo di legge, che ripetutamente (sin dalla rubrica della norma) utilizza espressioni come “risarcitori”… “risarcimento”, che non lasciano spazio a dubbi sulla qualificazione che il legislatore abbia inteso riconoscere alla natura delle nuove azioni.Da questa iniziale convergenza seguono, tuttavia, una serie di distinguo.Un primo indirizzo, seguito tra gli altri dall’Ufficio di Sorveglianza di Catania, ritiene che la fattispecie di cui alla norma in esame non sarebbe riconducibile all’alveo della responsabilità contrattuale, poiché tra detenuto e amministrazione non è configurabile alcun rapporto obbligatorio in senso stretto, come si verifica in generale in tutti i casi in cui la pubblica amministrazione agisce nei confronti di un comune cittadino in veste di autorità.La tipizzazione delle condotte contenuta nell’art. 35-ter ord. pen. escluderebbe però anche l’inquadramento della fattispecie nell’illecito aquiliano, disciplinato dall’art. 2043 del codice civile, per il quale rileva il danno ingiusto cagionato da qualsiasi condotta colpevolmente posta in essere.Si tratterebbe, invece, seguendo questa prima impostazione ermeneutica, di un nuovo strumento messo a disposizione del detenuto, che si affianca, senza però sostituirsi, agli altri disciplinati dall’ordinamento penitenziario, finalizzato a fornire una specifica ed effettiva protezione a soggetti che si trovano in una speciale condizione di soggezione nei confronti dell’amministrazione e per cui è ovviamente più a rischio la tutela dei diritti fondamentali.Da tale conclusione, che coerentemente si inquadra in una più generale interpretazione restrittiva dell’ambito applicativo della disciplina (che esclude per esempio tra le ipotesi di cui all’art. 35-ter, comma 1, cit., i casi di pregiudizio non attuale), dovrebbe altresì discendere che i rimedi risarcitori di cui si discute non escludano la possibilità per l’interessato di intraprendere, per i medesimi fatti, le vie ordinarie innanzi al giudice civile, di talché quello dell’art. 35-ter cit. non sarebbe un foro speciale “esclusivo”, ma semplicemente un rimedio aggiuntivo alla tutela ordinaria, tutt’oggi azionabile in via alternativa.Si discosta parzialmente da questa impostazione, la dottrina, la quale, pur concordando sulla natura risarcitoria del rimedio, ritiene che la nuova normativa non abbia introdotto nell’ordinamento un nuovoillecito civile, poiché, già prima, laviolazione del diritto ad una detenzione conforme all’art. 3 Cedu costituiva un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 c.c., come del resto era stato espressamente affermato dalla Corte di cassazione, in epoca antecedente alla novella del 2014, con la sentenza “Vizzari” (Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 4772), che, nel negare una competenza risarcitoria in capo alla magistratura di sorveglianza, aveva contestualmente affermato la risarcibilità di quella lesione da parte del giudice civile.La conseguenza che se ne trae è che il d.l. 92/2014 avrebbe soltanto introdotto una nuova disciplina per il risarcimento di questo specifico danno: una disciplina che, in quanto lex specialis, viene a sostituirsi (e non ad affiancarsi) alla ordinaria disciplina civilistica in tema di risarcimento del danno.E – si osserva ancora – la vistosa deroga alla regola generale di riparto delle competenze giurisdizionali, con il riconoscimento al magistrato di sorveglianza di una significativa competenza in materia risarcitoria, in luogo del giudice (naturale) civile, troverebbe una ragionevole spiegazione sistemica, non solo per il fatto che il magistrato di sorveglianza può considerarsi il giudice naturale dei diritti dei detenuti, ma soprattutto in considerazione del particolare contenuto del risarcimento riservato a chi è ancora in stato detentivo, consistente nella detrazione di un numero di giorni di pena proporzionale alla durata del pregiudizio subito. Non a caso, quando la richiesta provenga da soggetti in stato di libertà, la competenza spetta come d’ordinario al tribunale civile, anche se con il ricorso al particolare procedimento disciplinato nell’art. 737 cod. proc. civ..Prescindendo dalle differenziazioni cui da ultimo si è fatto cenno, la concorde qualificazione della posta azionata come risarcitoria e non indennitaria consente diindividuare quale termine prescrizionale ex art. 2947 cod. civ. il compimento del quinto anno anteriore alla proposizione della domanda o al primo atto interruttivo (art. 2947 cod. civ.).

7. Le problematiche di diritto inter-temporale.

L’art. 2, d.l. n. 92 del 2014, fissa due ipotesi di diritto transitorio:- la prima, concerne la legittimazione all’azione ex art. 35-ter, comma 3, ord. pen., entro il termine di decadenza di sei mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore della normativa, da parte di coloro i quali, alla data anzidetta, abbiano cessato di espiare la pena detentiva o non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere;- la seconda, consente, invece, di presentare domanda, ai sensi dell’art. 35-ter, cit., ai soggetti detenuti o internati, che, al momento dell’entrata in vigore del predetto d.l. abbiano già presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, qualora non sia ancora intervenuta una decisione della stessa Corte sulla ricevibilità del ricorso.Sul tema, non si registrano, allo stato, arresti della Suprema Corte, tuttavia in talune prime pronunce della magistratura di sorveglianza si afferma che i rimedi di cui all’art. 35 ter, cit. avrebbero natura sostanziale, che ne impedirebbe, ex art. 11 disp. prel. cod. civ (preleggi), l’applicazione a fatti pregressi alla entrata in vigore della legge, salvi i casi espressamente previsti dalla normativa transitoria, che, in quanto tale, non sarebbe, però, suscettibile di interpretazione estensiva o analogica ex art. 14 disp. prel. cod. civ (preleggi).La conclusione cui si perviene è, pertanto, che, al di fuori di quanto stabilito dalla disciplina inter-temporale, la tutela per i pregiudizi antecedenti alla entrata in vigore della legge resterebbe affidata all’ordinaria azione risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. innanzi al giudice civile, con conseguente liquidazione del danno ai sensi degli artt. 2056, 1223, 1226 e 1227 cod. civ.Questo primo orientamento, che pure trova consenso in una certa dottrina, non è invece accolto con altrettanto favore nel parere tecnico espresso dal C.S.M., nel quale si contesta, della tesi sopra esaminata, la premessa da cui essa muove, vale a dire la  natura sostanziale dei rimedi risarcitori di cui all’art. 35-ter, cit., attraverso i quali il legislatore si sarebbe, piuttosto, soltanto limitato a tratteggiare un nuovo modello risarcitorio per quei fatti, già qualificabili come illeciti prima della nuova normativa.Confutata la premessa fondante della tesi contrapposta, si approda alla diversa conclusione secondo cui la obiettiva illiceità della condotta dell’amministrazione penitenziaria legittimerebbe il rimedio risarcitorio civilistico anche nei casi in cui la collocazione temporale del pregiudizio menzionato dal comma primo dell’art. 35-ter  ord. pen. fosse antecedente alla entrata in vigore della norma.A questo punto, si pone, per , l’interrogativo sul significato delle previsioni transitorie, che nulla aggiungerebbero a quanto già consentito sulla base della normativa vigente.La risposta al quesito potrebbe ricavarsi considerando quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di danni provocati dall’irragionevole durata del processo (“legge Pinto”), ove in particolare è stato osservato che la legge 24 marzo 2001,n. 89 è irretroattiva, mancando una norma che ne preveda espressamente l’applicabilità alle situazioni esaurite, salvo il limite risultante dall’art. 6 che, allo scopo di favorire la riduzione della pendenza dei ricorsi dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha esteso l’applicazione della legge alle situazioni esaurite relativamente alle quali, alla data di entrata in vigore della legge medesima, fosse stato promosso, ma non ancora dichiarato ricevibile, il giudizio dinanzi alla Corte Europea. Poiché per situazione esaurita alla data dell’entrata in vigore della legge n. 89 del 2001 deve intendersi quella in cui la sentenza conclusiva del processo di cui si afferma l’irragionevole durata sia passata in giudicato da oltre sei mesi, il termine di decadenza previsto dall’art. 4 della citata legge per la proposizione della domanda si applica anche alle violazioni verificatesi prima dell’entrata in vigore della legge n. 89 del 2001, qualora non sia stato proposto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo  (Cassazione civile, Sez. I, 24 aprile 2006, n. 9526, Scarnicchia contro Min. Giustizia, Rv. 588635).Mutuando tali affermazioni alla disciplina ora in esame, potrebbe, dunque, ritenersi che grazie alla disciplina transitoria sarebbe consentito l’accesso ai rimedi risarcitori, anche in quelle ipotesi di rapporti esauriti, espressamente disciplinate dagli artt. 1 e 2 d.l. cit..A ci si aggiunga che la previsione di cui all’art. 1, cit. individua il dies a quo, cui fardecorrere il termine di decadenza dell’azione (sei mesi dall’entrata in vigore dellalegge), scongiurando così l’impasse, che, in assenza di tale espressa previsione, si sarebbe verificato, non potendosi evidentemente estendere ai fatti antecedentiall’entrata in vigore della legge il termine di decadenza di cui all’art. 35 ter, comma terzo, cit. (sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione).L’art. 2, cit., risulta, a sua volta, essenziale perché, in pendenza di causa innanzialla Corte edu, consente al Governo italiano di ivi eccepire con successo il mancatoesaurimento delle vie interne di ricorso, anche nei confronti di soggetti detenuti.Più in generale – e concludendo sul punto -, data la premessa, secondo cui i rimedi risarcitori sarebbero applicabili anche ai fatti antecedenti alla entrata in vigore della legge, salvo il limite dell’esaurimento del rapporto e individuata la ragione giustificatrice delle previsioni di diritto intertemporale proprio nell’estendere la novella ai specifici rapporti esauriti, dovrebbe poter escludersi che la disciplina nel suo complesso determini una disparità di trattamento a svantaggio dei detenuti o internati, che non abbiano presentato ricorso alla Corte edu e che lamentino pregiudizi antecedenti all’entrata in vigore della legge, in quanto questi casi (concernendo rapporti ancora non esauriti) esulano dall’ambito operativo della normativa transitoria, rientrando in quello riconosciuto ai rimedi risarcitori in questione.Ulteriore e correlato profilo problematico concerne gli effetti del previsto termine decadenziale sulla prescrizione dell’azione. In particolare, in relazione all’ipotesi di cui all’art. 2, comma 2, cit. (detenuti o internati che abbiano già presentato il relativo ricorso innanzi alla Corte EDU) si osserva, sulla scorta dei principi affermati dalla Suprema Corte, ancora in materia di equa riparazione per la irragionevole durata del processo (“Legge Pinto”), con riferimento alla norma transitoria di cui all’art. 6, l. n. 89/2001, che, nel consentire entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge (prorogato poi al 18 aprile 2002 dal d.l. 12 ottobre 2001, n. 370) la prosecuzione dinanzi al giudice  italiano del processi di equa riparazione promossi davanti alla Corte europea e non ancora dichiarati ricevibili, ha posto l’unico requisito temporale della tempestività del ricorsi originari (e cioè del rispetto del solo termine, di natura decadenziale, previsto dal citato art. 35 della Convenzione), in tal modo, implicitamente escludendo che la prescrizione, non prevista dalla normativa europea, potesse invece acquisire efficacia estintiva dopo la translatio iudicii (Cassazione civile, sez. I, 29 ottobre 2009, n. 4760).Più complessa, la situazione relativa ai casi di cui all’art. 2, comma 1, d. l. cit.(coloro che alla data di entrata in vigore del decreto legge non abbiano ancora intrapreso l’azione risarcitoria ed abbiano cessato di espiare la pena detentiva o non si trovino più in custodia cautelare), in relazione ai quali dovrebbe valere il termine prescrizionale di cinque anni, decorrente dalla verificazione del fatto illecito, salvo a voler ritenere qui estensibile l’orientamento espresso da Cass., Sez. Un., 2 ottobre 2012, n. 16783, in tema di irragionevole durata del giudizio, per cui il termine di prescrizione inizia a decorrere solo impedita la fattispecie decadenziale.

8. Considerazioni conclusive.

Le prime applicazioni della novella in materia di rimedi a tutela della violazione dell’art. 3 CEDU registrano nella giurisprudenza di merito una situazione di incertezza di oscillazione, comprensibile se si pensa alla forza prorompente di una disciplina dai contenuti sostanzialmente civilistici, introdotta nell’ordinamento penitenziario con l’inusuale riconoscimento di competenze risarcitorie alla magistratura di sorveglianza, naturalmente chiamata ad esercitare la giurisdizione penale (art. 1 cod. pen.), che tuttavia necessita, quanto prima, di essere superata per le refluenze sulla esatta configurazione dei nuovi istituti.Invero, il raffronto fra le alternative ricostruzioni esegetiche, sin qui elaborate in relazione ai punti controversi esaminati nei paragrafi che precedono, rivela un significativo divario, a seconda dell’opzione ermeneutica seguita, nella perimetrazione dell’ambito operativo della normativa, il cui raggio di azione presenta una sensibile diversità di estensione in relazione sia alle ipotesi di accesso al rimedio in forma specifica (che si discute se debbano o meno comprendere anche i casi di pregiudizio “non grave ed attuale” lamentato dal richiedente ancora in stato di detenzione) sia alle previsioni di diritto inter-temporale (che pongono la questione dell’accesso ai nuovi rimedi risarcitori da parte dei soggetti detenuti che lamentano un pregiudizio antecedente alla entrata in vigore della nuova legge, ma che non si trovano in pendenza di ricorso innanzi la Corte edu).La rilevanza delle questioni dibattute è di non trascurabile momento, sia per la disomogeneità tra un ufficio di sorveglianza e l’altro, che attualmente caratterizza l’applicazione della normativa, sia per i riflessi dell’esatta delimitazione dell’estensione dei nuovi rimedi sull’effettività degli stessi, nell’ottica dei parametri fissati dalla Corte di Strasburgo.Al riguardo, giova, invero, ancora una volta, rammentare che, in merito alle modifiche normative di cui si discute, sia la Corte edu (sentenza “Stella”) sia il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (decisione del 5 giugno 2014) hanno, nelle rispettive sedi, espresso un giudizio, in astratto positivo, che attende, però, riscontro concreto dai risultati della applicazione degli istituti, che ne rivelerà l’adeguatezza a fornire al detenuto che abbia subito un pregiudizio per violazione dell’art. 3 CEDU una tutela accessibile, rapida ed effettiva.E in questo quadro, non possono non essere considerate anche le valutazioni giàespresse dai Giudici di Strasburgo in ordine alla priorità da riconoscere al rimedio in forma specifica rispetto a quello compensativo (sentenza “Stella”) ed alla inadeguatezza ai fini risarcitori della tutela ordinaria ex art. 2043 cod. civ. (sentenza “Torreggiani”), cui ancora oggi sarebbero affidati quei casi che in ipotesi si ritenessero non inquadrabili nell’ambito operativo della novella.Nella descritta situazione di incertezza applicativa delle norme, dirimenti si riveleranno certamente i principi che la Suprema Corte, una volta investita delle singole questioni controverse, fisserà a soluzione delle stesse, che consentiranno anche un più chiaro inquadramento in chiave sistemica dei nuovi istituti.

Redattore: Luigi Barone                                        

Il vice direttore                                                                           Giorgio Fidelbo

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