Parere Commissione CSM disegno di legge in tema di lotta contro la criminalità organizzata

1) Fasc. 5/PA/2015 – Nota pervenuta in data 27 gennaio 2015 prot. CSM 4283/2015 dal Ministro della Giustizia che trasmette, per il parere, il testo del disegno di legge concernente: “Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti”.

(relatore Consigliere MOROSINI)

La Commissione, all’unanimità, propone al Plenum  di adottare la seguente delibera:

«Considerazioni introduttive.

Il disegno di legge n. 1687, approvato dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 29 agosto 2014 e presentato al Senato della Repubblica il 20 novembre 2014 dal Ministro della giustizia e dal Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, ha ad oggetto “Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti”.

L’iniziativa legislativa contempla modifiche ai codici penale e di procedura penale, al codice civile e ad altri testi normativi, complessivamente intese al rafforzamento dell’azione di contrasto al fenomeno della illecita accumulazione di ricchezza e di capitali ad opera della criminalità organizzata.

Il contenuto del presente parere non concerne, tuttavia, l’intera gamma delle previsioni del disegno di legge in discorso.

In effetti, alcune disposizioni di cui al capo I, in epoca posteriore rispetto alla presentazione del disegno di legge n. 1687, sono state interessate da autonomi interventi di riforma, ossia la legge n. 186/2014 e la legge n.69/2015. E di conseguenza le materia della informazione al Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sull’esercizio dell’azione penale per i fatti di corruzione, del trattamento sanzionatorio del delitto di associazione mafiosa, dell’introduzione del reato di autoriciclaggio, della disciplina in tema di false comunicazioni sociali, nonché della responsabilità amministrativa degli enti in relazione ai reati societari non costituiranno oggetto del presente parere.

Sotto altro aspetto, le norme articolate ai capi VI (“Disposizioni in materia di vittime e misure di protezione”), VII (“Disposizioni in materia di scioglimento degli enti locali conseguente a fenomeni di condizionamento di tipo mafioso o similare”) e VIII (“Misure per il contrasto del riciclaggio, del finanziamento del terrorismo e della proliferazione delle armi di distruzione di massa”) non mettono in evidenza competenze consiliari.

Il presente parere del Consiglio Superiore della Magistratura è, quindi, essenzialmente concentrato sui capi II (“Modifiche al codice di procedura penale e alle norme di attuazione del medesimo codice, per una maggiore efficienza dei procedimenti di esecuzione e di cognizione con detenuti”), III (“Modifiche al codice delle leggi antimafia”), IV (“Disposizioni in materia di assetto dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”), V (“Modifiche alla disciplina della confisca per sproporzione al reddito o all’attività economica”).

In tale prospettiva, il Consiglio superiore della magistratura condivide, innanzitutto, l’approccio tematico del disegno di legge in esame che evidenzia l’importanza centrale espressamente riconosciuta alla disciplina delle misure di prevenzione, patrimoniali innanzitutto, in un frangente storico in cui le associazioni mafiose, pur non rinnegando la loro originaria matrice territoriale ed ambientale, hanno ormai varcato i confini nazionali e manifestato una franca vocazione imprenditoriale, così palesando una più intensa pericolosità, non fronteggiabile in via esclusiva attraverso i tradizionali istituti del diritto penale.

E va salutata con favore anche la scelta del legislatore di adottare, nel caso di specie, una tecnica di intervento che, prendendo le mosse dalla attuale regolamentazione degli istituti, la emenda e modifica in modo puntuale senza determinare radicali stravolgimenti: una riforma, dunque, da valutarsi in chiave positiva per la complessiva attitudine ad eliminare non secondari elementi di criticità ed a rendere, di conseguenza, più efficace l’azione di contrasto alla criminalità organizzata e di aggressione ai patrimoni di matrice illecita.

I contenuti del disegno di legge, infatti, muovono dalle prime esperienze giurisprudenziali connesse alla messa in opera del c.d. “Codice delle leggi antimafia” (D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159), per poi valorizzare le conclusioni e le opzioni della Commissione ministeriale incaricata di elaborare una proposta di interventi in materia di criminalità organizzata, istituita con decreto ministeriale del 10 giugno 2013 e presieduta dal prof. Giovanni Fiandaca, nonché il rapporto della Commissione presieduta dal cons. Roberto Garofoli per l’elaborazione di proposte in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità, istituita dal Presidente del Consiglio con decreto del 7 giugno 2013.

Sulla materia delle misure di prevenzione trattata dal testo oggetto del parere pendono, peraltro, presso il Parlamento, distinte proposte di legge, talune delle quali[1] traggono spunto dall’attività svolta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, istituita con legge 19 luglio 2013, n. 87 e presieduta dall’on. Rosi Bindi, del cui contenuto si darà conto all’atto dell’esame delle singole disposizioni del disegno di legge n. 1687.

Il terreno di approfondimento del presente parere investe, dunque, una serie di questioni cruciali tra cui: la disciplina del procedimento applicativo delle misure di prevenzione che concerne i temi dei soggetti che sono legittimati ad attivarlo, della competenza territoriale, dei diritti di difesa, dell’adeguato approfondimento istruttorio, della ragionevole durata; l’amministrazione e il controllo giudiziario per i casi di agevolazione incolpevole e occasionale di interessi economici della organizzazioni criminali; il ruolo dell’amministratore giudiziario e la trasparenza e la rotazione nella selezione nonché l’obbligo di predisposizione di un piano di prosecuzione aziendale per quelle imprese ritenute in grado di competere sul mercato; i profili di ordinamento giudiziario funzionali ad istituire dei giudici specializzati nella materia della prevenzione; il ruolo e la struttura della Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata; l’estensione dell’istituto della confisca cosiddetta “allargata” di cui all’art 12 sexies D.L. n.306 del 1992 . 

Sin da questa parte introduttiva si intendono segnalare le importanti novità sul cosiddetto codice antimafia, nella parte relativa al procedimento sulle misure di prevenzione, da valutare in termini certamente positivi, ancorchè suscettibili di alcune integrazioni in parte suggerite dalle citate proposte della commissione parlamentare antimafia.

Innanzitutto, con riguardo alla parte più strettamente organizzativo-ordinamentale, rappresentano un grande passo avanti le novità della trattazione prioritaria dei procedimenti relativi alle misure di prevenzione unita alla “previsione rafforzata” che istituisce sezioni distrettuali specializzate partorita dal d.d.l. n.2737 (proveniente dalla commissione parlamentare antimafia), con competenza esclusiva, sia in primo grado sia in appello. L’auspicio è che dette sezioni, una volta istituite, vengano composte da magistrati con professionalità integrate, civili e penali. In ogni caso questo tipo di riforma affida comprensibilmente al Consiglio Superiore della Magistratura una notevole responsabilità sul rispetto delle precondizioni affinchè i suddetti obiettivi vengano effettivamente realizzati.

Inoltre, deve essere evidenziato l’impegno sul piano della più dettagliata disciplina del procedimento con riferimento ai termini per le richieste e alle eccezioni delle parti, in particolare per quanto concerne l’eccezione di incompetenza territoriale. Impegno che, in una ottica di garanzia dei diritti di difesa e di durata ragionevole del procedimento, andrebbe integrato con regole più dettagliate anche sui tempi e i modi dell’ approfondimento istruttorio.

Va salutato con favore anche lo sforzo di definire organicamente  il ruolo dell’amministratore giudiziario, attraverso interventi sui criteri di nomina che valorizzano la trasparenza e la rotazione delle opzioni della autorità giudiziaria (utile in tale prospettiva la previa acquisizione  della dichiarazione del nominato sul numero ed il tipo di incarichi in corso).

Nella prospettiva della più precisa definizione del ruolo dell’amministratore giudiziario, potrebbero essere utili da una parte la creazione dell’ufficio di coadiuzione organizzato con le professionalità necessarie per la specificità della gestione e con la redazione del preventivo di spesa, dall’altra l’obbligo di predisposizione di un più dettagliato piano di prosecuzione aziendale( business plan)per quelle imprese ritenute in grado di competere nel mercato. Piano che dovrebbe orientare l’amministrazione giudiziaria durante tutte le fasi del giudizio e anche oltre la confisca definitiva, da discutere preventivamente in udienza, con pubblico ministero e Agenzia nazionale per i beni confiscati, dopo avere ascoltato il parere dei sindacati.

Molto positiva si presenta pure l’introduzione della nuova misura di prevenzione non ablativa del “Controllo giudiziario”, nei casi di agevolazione incolpevole ed occasionale di interessi criminali. E le relative disposizioni potrebbero completarsi con la previsione di applicazione di detta misura anche su richiesta dell’azienda, quando quest’ultima risulti colpita da una misura interdittiva di matrice prefettizia con l’effetto di sospenderne temporaneamente gli effetti, all’esito di una valutazione del giudice, previo  parere del PM.

Le nuove previsioni contenute nel disegno di legge in esame potrebbero essere utilmente integrate da disposizioni finalizzate a tutelare i creditori delle aziende consentendo all’amministratore di procedere tempestivamente ai pagamenti  dei debiti privilegiando i creditori strategici per la prosecuzione dell’attività, nonché ad accelerare i procedimenti di verifica della buona fede per i crediti di origine incerta.

Infine, andrebbero elaborate disposizioni in grado di semplificare i rapporti tra il procedimento di prevenzione e le procedure fallimentari\esecutive al fine di evitare esiti contraddittori per i titolari di diritti di credito.

Indilazionabile appare, inoltre, un intervento legislativo sulla liquidazione dei compensi agli amministratori giudiziari onde evitare, per un verso decisioni incomprensibili e talvolta prive di una base motivazionale, per altro verso garantire una adeguatezza degli stessi compensi, rispetto alla natura e alla gravosità delle attività espletate. In questo senso occorre distinguere i trattamenti da riservare agli amministratori giudiziari con quelli previsti per i curatori fallimentari. Si tratta di funzioni assai differenti laddove gli amministratori giudiziari perseguano l’obiettivo di mantenere le imprese sul mercato (e non già di liquidarle), garantire i livelli occupazionali e addirittura di incrementare la redditività dei beni in sequestro ove possibile.

Le modifiche al codice delle leggi antimafia (Capo III del d.d.l n-1687)

Gli artt. da8 a16 del DDL contengono alcune modifiche al codice delle leggi antimafia, approvato con il Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159, la cui introduzione è stata salutata con favore dalla generalità degli operatori quale strumento di importanza strategica nella lotta al crimine organizzato.

Analogamente, esegeti ed operatori concordano nel ritenere che il codice delle leggi antimafia necessiti, quantomeno in alcune parti, di una rivisitazione finalizzata a porre rimedio agli elementi di criticità emersi nei primi anni della sua vigenza.

Tra le varie opzioni sul campo, il disegno di legge n. 1687 privilegia l’enucleazione di specifici campi di intervento, che incidono puntualmente su alcune disposizioni del codice lasciandone sostanzialmente inalterato l’impianto complessivo[2].

Di seguito, si procederà, dunque, all’esame di ciascuna disposizione del Capo III.  

A) La rilevabilità della incompetenza per territorio nei procedimenti di prevenzione; il potenziamento degli strumenti di indagine; le annotazioni e le comunicazioni sul procedimento.

L’articolo 8, comma 1, inserisce, dopo l’art. 5 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, il nuovo articolo 5-bis.

Nello specifico viene introdotto un limite temporale alla eccepibilità ed alla rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per territorio nei procedimenti di prevenzione, nel senso che la relativa questione è preclusa se non proposta entro la conclusione della discussione di primo grado ovvero rilevata non oltre la decisione di primo grado.

Il secondo comma del articolo 8 DDL introduce poi i commi 2-bis e 2-ter all’articolo 27 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 e ciò al fine di attuare il necessario coordinamento del regime delle impugnazioni con la nuova previsione di cui all’art. 5-bis.

Si prevede, pertanto, che in caso di accoglimento della questione di incompetenza territoriale riproposta in secondo grado,la Corted’Appello, anche qualora la proposta non sia stata avanzata dal procuratore della Repubblica o dal questore legittimati ai sensi dell’articolo 5, ordini la trasmissione degli atti all’organo proponente

Nel complesso l’innovazione può essere favorevolmente apprezzata, in quanto il contenimento dello spazio per l’eccepibilità e la rilevabilità di tale questione processuale potrà produrre positivi effetti acceleratori nella trattazione e nella definizione dei procedimenti di prevenzione.

Non va sottaciuto, infatti, che nel sistema vigente la disciplina dellʹincompetenza territoriale nei procedimenti di prevenzione presenta elementi di irragionevolezza, posto che la relativa regolamentazione risulta essere molto più rigorosa di quella stabilita, in termini generali, per il processo penale.

Attualmente, infatti, mancando ogni preclusione temporale, l’incompetenza territoriale del giudice della prevenzione è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, avendo natura funzionale ed inderogabile(cfr. Cass. Sez. V, sent. n. 19067 del 31.3.2010).

Se a ciò si aggiunge che il criterio del luogo di dimora del proposto, utilizzato dal testo legislativo per la determinazione della competenza, si riferisce, per giurisprudenza consolidata, allo spazio geografico‐ambientale in cui il soggetto manifesta i suoi comportamenti socialmente pericolosi, pur se tale luogo è diverso da quello di dimora abituale ovvero ad un contesto di non agevole identificazione, è facile comprendere come l’incompetenza territoriale, nei termini in cui è attualmente disciplinata, rappresenti una mina vagante, potenzialmente idonea a porre nel nulla procedimenti giunti alla fase del giudizio di legittimità, con inaccettabile dispendio di lavoro e risorse.

La modifica prevista dal DDL in commento, che peraltro si pone in linea con la proposta[3] avanzata sul punto dalla Commissione per l’elaborazione di proposte per la lotta, anche patrimoniale, alla criminalità (istituita con DPCM del 7 giugno 2013), dovrebbe finalmente porre rimedio a questo elemento di distonia.

Allo stesso articolo 27 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 vengono introdotti, infine, i commi 3-bis e 6 bis, concernenti, rispettivamente: a) la possibilità di sospensione, nelle more del giudizio di Cassazione, della decisione con cui la corte d’appello, in riforma del decreto di confisca emesso dal tribunale, abbia disposto la revoca del sequestro; b) la disciplina sulla formazione del fascicolo da parte del procuratore della Repubblica per l’ipotesi  in cui, al termine del procedimento di primo grado, sia proposta impugnazione.

L’articolo 9 modifica il comma 4 dell’articolo 19 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159.

Per effetto della novella le autorità titolari del potere di proposta delle misure di prevenzione patrimoniali potranno ora accedere direttamente al Sistema di interscambio flussi dati (SID) dell’Agenzia delle entrate.

Tale previsione, determinando un evidente potenziamento degli strumenti di indagine, non può che essere vista con favore in ottica di rafforzamento dei mezzi di contrasto alle condotte delittuose

L’articolo 10 modifica l’articolo 81 del codice antimafia, prevedendo che nei registri delle procure della Repubblica venga annotato anche il provvedimento di archiviazione, ove non sussistano i presupposti per l’esercizio dell’azione di prevenzione. Ulteriore modifica riguarda la previsione che la proposta di applicazione di misura di prevenzione, formulata dal questore e dal direttore della Direzione investigativa antimafia, venga “contestualmente” comunicata alla Procura competente per territorio, con allegazione in copia della proposta.

La novella in esame, determinando un’implementazione (annotazione anche del provvedimento di archiviazione) e un’accelerazione (comunicazione non solo immediata ma contestuale della proposta di misura personale e patrimoniale) dei flussi informativi dei dati relativi ai procedimenti prevenzione, si pone certamente in linea con l’obiettivo di rendere più efficace l’azione preventiva e repressiva nei confronti della criminalità.

B) Le modifiche al procedimento applicativo delle misure di prevenzione patrimoniale. I presupposti della revoca del sequestro. Il sequestro o confisca per equivalente.

L’articolo 11 del disegno di legge n. 1687 contiene modifiche, nei suoi tre commi, ad altrettanti articoli, nn. 20, 24 e 25, del “codice antimafia”, tutti compresi nel capo dedicato al procedimento applicativo delle misure di prevenzione patrimoniali.

Prendendo le mosse dall’art. 20, rubricato “Sequestro“, il comma 1 prevede, nel testo in atto vigente, che “Il tribunale, anche d’ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti é iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego”.

Il disegno di legge n. 1687 interviene ancorando la facoltà di emettere, d’ufficio o su istanza del proponente e, ovviamente, ricorrendone i presupposti di legge, il decreto di sequestro alla presentazione della proposta di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale anziché all’avvio del procedimento, così realizzando un miglior coordinamento sistematico della norma[4].

La novella tocca anche, sotto diversi aspetti, il comma 2 dell’art.20, amente del quale “Il sequestro é revocato dal tribunale quando é respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l’indiziato non poteva disporre direttamente o indirettamente”.

La prima delle modifiche prospettate, tutte mutuate dalla relazione conclusiva dei lavori della già menzionata “Commissione Fiandaca”, riguarda l’inserimento della parola “patrimoniale” dopo quelle “misure di prevenzione“, e costituisce applicazione dell’interpretazione sistematica che induce a circoscrivere il presupposto per la revoca del sequestro, nella fase conclusiva del procedimento, alla reiezione della richiesta di confisca, senza estenderlo al rigetto della proposta relativa alla sorveglianza speciale, venendo altrimenti svuotato di contenuto il principio di reciproca autonomia tra le misure personali e patrimoniali, in ossequio, peraltro, a quanto già illustrato nella Relazione ministeriale al codice antimafia, che afferma che la norma deve «interpretarsi, nella nuova disciplina, come riferita alla richiesta di misura di prevenzione patrimoniale».

Il disegno di legge previde, poi, l’inserimento delle parole “nel corso del procedimento”, dopo quelle “o quando”, al dichiarato scopo di chiarire che il sequestro può essere revocato anche in corso di procedimento, cioè prima dell’adozione del decreto conclusivo, qualora emerga che i beni assoggettati a vincolo hanno legittima provenienza o che l’indiziato non poteva disporne direttamente o indirettamente.

Il comma 2 dell’art. 20 viene integrato, da ultimo, aggiungendo il riferimento alla necessità di disporre la annotazione e le trascrizioni nei pubblici registri conseguenti alla revoca del sequestro, sì da ovviare a diverse difficoltà riscontrate nella prassi per il mancato adempimento degli oneri di pubblicità all’atto del venir meno del vincolo.

Di notevole rilievo appaiono le modificazioni apportate ai primi due commi dell’art. 24 codice antimafia, dedicato alla confisca di prevenzione.

In dettaglio, al primo comma – ai sensi del quale “Il tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti e’ instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilita’ a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attivita’ economica, nonche’ dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego” – viene aggiunto un periodo, nel quale si statuisce che “In ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale”.

La disposizione[5] recepisce, quanto alla confisca di prevenzione, gli approdi del percorso ermeneutico giunto di recente a compimento con il pronunciamento delle Sezioni Unite[6] e concorre, insieme all’analoga previsione inserita, all’art. 19 del disegno di legge  in commento, in relazione alla confisca allargata ex art. 12-sexies D.L. n. 306/1992, ad introdurre un regime comune alle due principali tipologie di confisca (cc.dd. “per sproporzione”) utilizzate nel sistema di contrasto alla criminalità organizzata.

Il comma 2 dell’art. 24 del codice antimafia[7] viene, poi, modificato aggiungendo, dopo le parole:«direttamente o indirettamente», quelle: «, nonché per il tempo decorrente dalla morte del proposto alla citazione dei soggetti previsti dall’articolo 18, comma 2».

La normativa vigente prevede, al riguardo, che il termine massimo, calcolato a far data dall’immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario, entro il quale deve, a pena di inefficacia, essere adottato il decreto di confisca, termine che, fissato in un anno e sei mesi, può essere, a determinate condizioni prorogato, resti sospeso in una serie tipizzata di ipotesi, che viene arricchita dal disegno di legge n. 1687 prevedendosi la sospensione, nel caso di morte del proposto, per il tempo necessario alla citazione di eredi ed aventi causa.

Tangibile appare la ratio della disposizione, intesa a sterilizzare, in funzione del rispetto del termine di efficacia, il periodo in cui il procedimento si arresta in considerazione del decesso del proposto e della conseguente necessità di instaurare il contraddittorio nei confronti dei suoi successori.    

Il comma 3 dell’art. 11 del disegno di legge n. 1687 opera, infine, l’integrale riformulazione dell’art. 25 del codice antimafia, dedicato a “Sequestro o confisca per equivalente”[8].

La normativa in atto vigente individua, in proposito, due distinte ipotesi in cui è consentito disporre il sequestro o la confisca per equivalente che concernono, rispettivamente, il caso in cui la persona destinataria della misura di prevenzione disperda, distragga, occulti o svaluti i beni per eludere l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro o di confisca che li abbiano ad oggetto, e quello in cui la confisca sia preclusa dal legittimo trasferimento, prima dell’esecuzione del sequestro, in favore di terzi di buona fede.

La disposizione si differenzia da altre ipotesi di confisca per equivalente perché prevede l’integrazione di una specifica condotta distruttiva, oltre che per l’espresso riferimento alla finalità elusiva perseguita dal proposto che, compiendo le attività ivi descritte, mira a sottrarre i beni al sequestro o alla confisca.

Ne discende che l’art. 25, nella sua attuale formulazione, non può essere applicato al cospetto di condotte colpose quando non addirittura incolpevoli o che, comunque, non costituiscono portato di una volontà protesa ad elidere o contenere gli effetti della misura patrimoniale.

Altro limite all’applicazione della confisca per equivalente si ricollega, secondo attenta dottrina, all’esclusivo rilievo riconosciuto alle condotte poste in essere dopo la presentazione della proposta, per come si evince sia dall’utilizzo del termine “proposto” che dalla finalità elusiva perseguita, che logicamente presuppone la promozione di apposita iniziativa giudiziaria.

In questo contesto interviene il disegno di legge n. 1687, che intende sostituire il precedente testo[9], con due commi distinti (“1.Dopo la presentazione della proposta, se non è possibile procedere al sequestro dei beni di cui all’articolo 20, comma 1, perché il proposto non ne ha la disponibilità, diretta o indiretta, anche ove trasferiti legittimamente in qualunque epoca a terzi in buona fede, il sequestro e la confisca hanno ad oggetto altri beni di valore equivalente, di legittima provenienza, dei quali il proposto ha la disponibilità, anche per interposta persona. 2. Si procede con le modalità previste dal comma 1 nei casi di cui all’articolo 18, commi 2 e 3, nei riguardi dei soggetti nei cui confronti prosegue o inizia il procedimento, con riferimento a beni di legittima provenienza loro pervenuti dal proposto»).

La rilevanza dell’innovazione si coglie, al di là dei profili semantici e di tecnica legislativa, ove si noti come il testo attualmente vigente postula che il proposto si sia disfatto dei beni da sottoporre a sequestro e\o confisca allo scopo di eludere l’esecuzione dei relativi provvedimenti, mentre quello di cui si suggerisce l’introduzione è svincolato da tale presupposto soggettivo e presuppone soltanto l’impossibilità di esecuzione.

La novella chiarisce, ulteriormente, che la traslazione dell’oggetto del sequestro o della confisca è ammessa anche su beni di legittima provenienza o dei quali il proposto abbia disponibilità per interposta persona, nonché in caso di cessione di quelli da sottoporre a sequestro o confisca a terzi di buona fede; ad identica misura possono essere, peraltro, sottoposti gli eredi ed aventi causa del proposto che da lui abbiano ricevuto beni di legittima provenienza.

C) Amministrazione e controllo giudiziario di attività economiche ed aziende

L’articolo 12 del disegno di legge n. 1687 si occupa di “Amministrazione e controllo giudiziario di attività economiche ed aziende”.

Il legislatore profonde, in questo campo, un duplice, contemporaneo sforzo, mirante, da un canto, a rivitalizzare e meglio regolamentare l’esistente istituto della “amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche” e, dall’altro, ad introdurreex novola fattispecie del “controllo giudiziario delle aziende”.

Va evidenziato come il preesistente istituto della sospensione dell’amministrazione dei beni connessi ad attività economiche, previsto dagli artt. 3-quater e 3-quinquies della legge n. 575/1965, sia stato inserito nel codice antimafia, sotto la nuova denominazione di “amministrazione giudiziaria”, all’art. 34 che, in buona sostanza, riproduce le precedenti disposizioni.

L’amministrazione giudiziaria costituisce un intervento su attività economiche, anche del tutto lecite e che non sono nella disponibilità nemmeno indiretta di soggetti pericolosi, ma che, tuttavia, siano comunque in grado di offrire ai medesimi soggetti un contributo agevolatore.

Articolata, dal punto di vista procedimentale, in due fasi (l’amministrazione giudiziaria vera e propria e l’eventuale, successiva confisca), la misura si connota per la funzione meramente cautelare e si radica sullo specifico presupposto del carattere ausiliario che una determinata attività economica presenta per la realizzazione degli interessi mafiosi.

L’amministrazione giudiziaria costituisce strumento di contrasto al fenomeno mafioso in quanto intesa a prosciugarne i canali di accumulazione economica grazie, da un lato, alla scissione del rapporto di stretta connessione che, ordinariamente, lega sequestro e confisca, che viene sostituito dalla correlazione tra la fase di amministrazione e la successiva confisca, e, dall’altro, interrompendo il collegamento tra il titolare dei beni ed il soggetto portatore di pericolosità sociale qualificata.

La fase di amministrazione sfocierà, d’altro canto, in confisca solo ove sia dimostrato che i beni de quibus siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

Ciò posto, l’articolato dell’art. 12 riprende[10] la proposta elaborata dalla Commissione ministeriale istituita con decreto ministeriale 10 giugno 2013 presso il Ministero della giustizia, presieduta dal prof. Giovanni Fiandaca, e propone innovazioni volte all’obiettivo di promuovere il recupero delle imprese infiltrate dalle organizzazioni criminali.

Il novellato articolo 34 rivede, in particolare, la regolamentazione normativa dell’amministrazione giudiziaria, introducendo una disciplina dettagliata delle prerogative gestionali.

La riscrittura del comma 1 mira, in specie, a risolvere taluni dubbi interpretativi che, stante la formulazione attuale, sono stati sollevati in relazione alla platea dei soggetti “agevolati” ed al presupposto negativo, che viene più chiaramente delineato, dell’insussistenza delle condizioni per applicare una delle misure di prevenzione patrimoniali previste dal Capo I del Titolo II, Libro I, del codice antimafia.

Nei commi successivi, le modalità operative dell’amministrazione giudiziaria vengono ridisegnate in sostanziale continuità con la disciplina in atto vigente ma con la tangibile aspirazione a rendere l’istituto più moderno e flessibile, dotandolo di più ampio respiro e coordinandolo con quello, di nuovo conio, del controllo giudiziario previsto dal successivo art. 34-bis., nel contesto, dunque, di una strategia complessivamente volta a contrastare le infiltrazioni mafiose nel mercato, senza ricorrere alle misure più invasive già consacrate dalla vigente disciplina.

A titolo esemplificativo della tipologia di intervento prefigurato, può segnalarsi la più dettagliata esposizione dei compiti dell’amministratore giudiziario[11] e delle formalità esecutive del provvedimento con cui è disposta l’amministrazione giudiziaria[12].

Ancora, va sottolineato come il disegno di legge n. 1687 opportunamente stabilisca che, qualora alla fase di amministrazione giudiziaria conseguano la revoca con controllo giudiziario o la confisca dei beni, si applicano, quanto alle impugnazioni, le disposizioni dell’art. 27 (norma che disciplina, in via generale, le impugnazioni contro i provvedimenti con  cui il tribunale definisce il primo grado di giudizio in materia di misure di prevenzione patrimoniale), così sostanzialmente ottemperando al dictum della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 487/1995, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale delle previsione dell’art. 3-quinquies, comma 2 della l. 31-5-1965, n. 575 (norma che, si è detto, é stata trasfusa nell’art. 34 del codice antimafia che, però, nulla prevede in argomento), nella parte in cui non prevedeva che avverso il provvedimento di confisca possano proporsi le impugnazioni previste e con gli effetti indicati nell’art. 3-ter, secondo comma, della stessa legge per i provvedimenti di confisca adottati a norma del precedente art. 2-ter.

Un vero e proprio salto di qualità nel coacervo di azioni messe in campo allo scopo di promuovere il disinquinamento mafioso delle attività economiche, salvaguardando al contempo la continuità produttiva e gestionale delle imprese, si compie con l’introduzione del controllo giudiziario delle aziende, istituto che trova compiuta disciplina nell’art. 34-bis del codice antimafia[13].

Anche in questo caso, come in quello disciplinato dal precedente art. 34, si muove dalla sussistenza, in assenza delle condizioni per applicare altre misure di prevenzione patrimoniali, di indizi sufficienti a far ritenere “che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle a carattere imprenditoriale, agevoli l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di pre-venzione personale o patrimoniale previste dagli articoli 16 e 24, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a) e b)”.

Nell’ipotesi in esame, tuttavia, non avendo l’agevolazione carattere di stabilità, l’apprezzamento di circostanze di fatto che facciano desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l’attività autorizza il tribunale a disporre, anche d’ufficio, il controllo per un periodo compreso tra uno e tre anni.

La misura ha un contenuto alquanto pregnante, in quanto comprende innanzitutto, a carico di chi abbia la proprietà, l’uso o l’amministrazione di attività economiche ed aziende, obblighi di tempestiva comunicazione nei confronti del questore e della polizia tributaria estesi ad una miriade di atti[14].

Il controllo viene esercitato attraverso l’opera di un commissario giudiziario, tenuto a riferire con cadenza almeno bimestrale al giudice delegato ed al pubblico ministero, ed onerato di compiti stabiliti dal tribunale e, in ipotesi, assai invasivi[15]. 

Funzionale alla verifica del corretto adempimento di tali obblighi è l’eventuale accesso, autorizzato dal tribunale, di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria presso gli uffici dell’impresa, nonché presso uffici pubblici, studi professionali, società, banche ed intermediari mobiliari, al fine di acquisire informazioni e copia della documentazione ritenute utili.

Ove, poi, fosse accertata la violazione di una o più prescrizioni ovvero ricorressero i presupposti di cui al comma 1 dell’articolo 34, il tribunale potrebbe disporre l’amministrazione giudiziaria dell’impresa.

Al titolare dell’attività economica sottoposta al controllo giudiziario compete, invece, la proposizione di istanza di revoca, che viene discussa in camera di consiglio, con la partecipazione del giudice delegato, del pubblico ministero e, ove nominato, del commissario giudiziario.

Nitida appare la finalità dell’istituto[16], che non determina lo spossessamento della gestione dell’attività di impresa e dà luogo ad un intervento meno invasivo, di «vigilanza prescrittiva», imperniato sull’azione del commissario giudiziario nominato dal tribunale, tenuto a monitorare dall’interno dell’azienda l’adempimento di una serie di obblighi di compliance imposti dall’autorità giudiziaria; la traduzione in norma, quindi, di una migliore e più duttile articolazione dell’azione di contrasto al crimine organizzato, la cui reale efficacia dovrebbe, nondimeno, essere verificata alla luce dell’esperienza applicativa.

D) Profili ordina mentali, organizzativi e processuali delle misure di prevenzione.

L’articolo 13 del disegno di legge n. 1687, rubricato “Trattazione prioritaria ed esclusiva. Individuazione dei termini di deposito”, si occupa della materia ordinamentale e processuale.

Il comma 1 prevede l’inserimento nel codice antimafia del capo V-bis, denominato “Trattazione prioritaria del procedimento”, comprendente il solo art. 34-ter.

La norma, suddivisa in tre commi, è volta ad assicurare, in primo luogo, la priorità assoluta nella trattazione dei procedimenti di prevenzione patrimoniale, a tal fine onerandosi i dirigenti degli uffici giudiziari giudicanti e requirenti dell’adozione dei “provvedimenti organizzativi necessari per assicurare la trattazione e definizione prioritaria dei procedimenti di cui al comma 1 e il rispetto dei termini previsti”, da comunicarsi tempestivamente a Consiglio giudiziario e Consiglio superiore della magistratura, oltre che della trasmissione, con cadenza annuale, al Ministero della giustizia dei dati sulla durata dei relativi procedimenti.

A quest’ultimo proposito, spetterà al Consiglio superiore della magistratura valutare gli effetti dei provvedimenti adottati dai dirigenti degli uffici sulla trattazione prioritaria, sulla durata e sul rispetto dei termini dei procedimenti, mentre sarà il Ministro della Giustizia a riferire alle Camere in merito alla trattazione prioritaria in sede di comunicazioni sull’amministrazione della giustizia ai sensi dell’art. 86 ord. giud..

Il secondo comma dell’art. 13 incide, invece, sulla legge di ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12) mediante l’inserimento, all’art. 7-bis, dedicato alle tabelle degli uffici giudicanti, del comma 2-sexies che prescrive, al fine di rendere effettiva la trattazione dei procedimenti di prevenzione patrimoniale, l’individuazione di collegi o sezioni adibiti in via esclusiva alla trattazione delle procedure previste dal codice antimafia, l’assegnazione a tali collegi o sezioni, nei limiti del possibile, di un ruolo ridotto di procedimenti ordinari e la copertura prioritaria delle vacanze di organico che si dovessero registrare nei medesimi collegi o sezioni.

Le disposizioni contenute nei primi due commi dell’art. 13 rispondono all’esigenza, largamente diffusa tra gli operatori del settore, di adeguare l’assetto ordinamentale e processuale alla mutata concezione dell’importanza delle procedure di prevenzione patrimoniali nel contesto della complessiva attività di contrasto al crimine organizzato, che non può prescindere da una continua ed efficace azione di aggressione ai patrimoni di matrice illecita, nella consapevolezza che la capacità degli organismi delinquenziali di esercitare il predominio sul territorio è direttamente proporzionale alla loro potenza finanziaria, al controllo di interi settori di attività imprenditoriali, alla possibilità di offrire, tanto più in ragione del negativo ciclo economico, appetibili alternative al circuito legale.

Acclarato, allora, che le chances di successo nella lotta alle mafie dipendono dalla sottrazione alle organizzazioni mafiose di patrimoni ed aziende, deve necessariamente riconoscersi carattere prioritario alla trattazione dei relativi procedimenti[17].

La previsione del primo comma dell’art. 13 merita, dunque, sicura apprezzamento perché indica con chiarezza che i procedimenti di prevenzione patrimoniale, cui in passato non è stata sempre riservata la giusta attenzione [18], costituiscono una ineludibile priorità e che soggetti ed istituzioni coinvolti (dirigenza giudiziaria, circuito dell’autogoverno, Ministero della giustizia) sono chiamati ad orientare l’esercizio delle rispettive competenze in vista del conseguimento dell’obiettivo indicato.

Trattasi, va detto, di affermazioni di principio che, in quanto ancorate ad un connotato – la priorità assoluta – che, al di là della terminologia utilizzata, deve essere giocoforza relativizzato in rapporto alla concorrente necessità di assicurare analoga priorità ad altre categorie di procedimenti, in primisa quelli nei quali gli imputati sono sottoposti a misura cautelare personale.

Nondimeno, la previsione del primo comma dell’art. 13 assume valenza tutt’altro che marginale anche perché corredata da meccanismi di verifica idonei a consentire alle istituzioni preposte (Consiglio superiore della magistratura, Parlamento) di accertare se ed in quale misura la priorità sia stata garantita.

In chiave propriamente ordinamentale, il comma 2 dell’art. 13 manifesta una franca e condivisibile preferenza per la specializzazione dei giudici chiamati ad occuparsi di misure di prevenzione stabilendo che i relativi procedimenti dovranno essere concentrati, come del resto già accade nella maggior parte degli uffici di primo e secondo grado, in collegi o sezioni preventivamente individuati all’atto della redazione delle tabelle.

Intese alla sollecita ed efficiente definizione delle medesime procedure sono, poi, le disposizioni concernenti la copertura prioritaria delle vacanze di organico ed alla opportunità di contenere, dal punto di vista quantitativo, il carico di procedimenti ordinari che ai collegi o le sezioni incaricate di trattare le procedure di prevenzione dovessero essere, eventualmente (nell’ipotesi, cioè, che il carico dell’ufficio non consente che un collegio o una sezione tratti esclusivamente procedure preventive), assegnati.

Nella medesima direzione si pone, ancora, la previsione del comma 3 dell’art. 13, che prescrive che il decreto con cui il tribunale definisce il procedimento sia depositato in cancelleria entro quindici giorni dalla conclusione dell’udienza, salva la fissazione di un termine più ampio, indicato in udienza, motivato dalla complessità della decisione e comunque non superiore a novanta giorni.

Al decreto con cui il tribunale definisce il procedimento vengono estese, infine, le norme relative alle modalità di redazione e sottoscrizione della sentenza (art. 546 c.p.p. e 154 disp. att. c.p.p.), fatta eccezione per l’indicazione dell’imputazione, che non è contemplata nelle procedure preventive.

In relazione alla materia ordinamentale, più radicali sono le modifiche previste nella proposta di legge n. 2737, che ha recepito, anche su questo aspetto, le conclusioni esposte nella relazione della Commissione parlamentare antimafia.

L’art. 2, comma 1, lett. c), di quell’articolato contempla, infatti, l’istituzione di sezioni specializzate in materia di misure di prevenzione personali e patrimoniali presso i tribunali dei capoluoghi di distretto e le corti di appello, composte da magistrati di specifica esperienza nella materia o comunque già assegnati a funzioni civili, fallimentari e societarie.

Dette sezioni acquisirebbero, giusta il disposto della lett. a) del comma 1, competenza in ordine a tutte le proposte: al sistema attuale, che distribuisce la competenza su base provinciale, se ne sostituirebbe altro, che la radica a livello distrettuale, con le sole eccezioni di Trapani e Santa Maria Capua Vetere, per le quali sarebbe mantenuto il regime previgente.

Una prospettiva, quella descritta nella proposta di legge n. 2737, più marcatamente ispirata ad esigenze di concentrazione e specializzazione, che vengono esaltate a scapito della prossimità territoriale e della contaminazione dei saperi.

La concreta efficacia della creazione di sezioni specializzate, in primo e secondo grado, a livello distrettuale dovrebbe, comunque, essere misurata alla luce della irregolare distribuzione, in termini quantitativi e qualitativi, delle procedure tra i tribunali e le corti di appello: a fronte, invero, di sezioni di notevoli dimensioni (quali, ad esempio, quelle dei più grandi tribunali, specie del meridione), ne sarebbero create altre con un flusso di affari modesto (si pensi alle piccole corti di appello), forse non sufficiente alla previsione di una sezione autonoma anziché di un mero collegio.

E) Disposizioni in materia di amministrazione dei beni confiscati e sequestrati. La selezione trasparente e la revoca degli amministratori giudiziari.  

L’articolo 14 del disegno di legge n. 1687 contiene, in un unico comma, suddiviso in tre lettere, disposizioni in materia di amministrazione dei beni sequestrati e confiscati.

Con la lettera a) si incide sull’art. 35 del codice antimafia, rubricato “nomina e revoca dell’amministratore giudiziario”, introducendo pregnanti limiti al cumulo di incarichi da parte di singoli professionisti.

In specie, per quanto concerne l’amministrazione di beni immobili, si prevede che la scelta dell’amministrazione sia guidata da criteri di trasparenza e di rotazione degli incarichi, nonché di corrispondenza tra i profili professionali ed i beni sequestrati, criteri da definirsi con decreto ministeriale, cui si demanda anche “l’individuazione degli incarichi per i quali la particolare complessità dell’amministrazione o l’eccezionalità del valore del patrimonio da amministrare determinano il divieto di cumulo”.

In relazione, poi, all’amministrazione di aziende, la scelta verrà effettuata tra gli iscritti nella sezione di esperti in gestione aziendale dell’Albo nazionale degli amministratori giudiziari (Albo che, si nota incidentalmente, non è ancora concretamente operativo a distanza di sei anni dalla sua introduzione con legge n. 94/2009), con il rigoroso divieto di cumulo di incarichi (prevedendosi, infatti che “Non possono essere nominate amministratori giudiziari di aziende sequestrate le persone che, al momento della nomina, risultino affidatarie di altro incarico, ancora in corso, di amministratore giudiziario di aziende sequestrate”).

Un’opzione, quella consacrata nelle norme testé richiamate, che, nel dichiarato intento di assicurare la massima trasparenza e di garantire accesso alle amministrazioni giudiziarie ad una ampia platea di professionisti di idonea qualificazione, rischia, tuttavia, di rivelarsi controproducente nell’ottica di una gestione efficiente e produttiva, avuto precipuo riguardo alla complessità delle attività connesse alla conduzione delle attività imprenditoriali (per le quali vige un inderogabile divieto di cumulo, che per i beni immobili è, invece, solo eventuale) ed agli investimenti richiesti, in chiave organizzativa, strumentale, logistica, di risorse umane, a chi intenda cimentarsi nell’amministrazione giudiziaria.

L’esasperata, ineludibile frammentazione degli incarichi di amministrazione potrebbe, sotto questo profilo, indurre i professionisti più capaci ed attrezzati a non impegnarsi in questo settore, con conseguente nocumento all’efficienza complessiva delle gestioni.

Pacifico che la trasparenza debba essere comunque garantita, anche attraverso la rotazione degli incarichi, un miglior punto di equilibrio tra le concorrenti esigenze che vengono in rilievo sembra essere individuato dalla più volte citata proposta di legge n. 2737, che, all’art. 23, suggerisce modifiche dell’art. 35 del codice antimafia che, oltre ad introdurre nuove ipotesi di incompatibilità all’assunzione dell’incarico di amministratore giudiziario, stabilisce che la scelta, da trasfondersi un decreto motivato, deve rispondere a “criteri di trasparenza che assicurano la rotazione degli incarichi” e che il prescelto, all’atto dell’accettazione della nomina, debba comunicare all’autorità giudiziaria se e quali incarichi egli abbia in corso: obbligo di motivazione e dichiarazione sugli incarichi in atto consentono, dunque, di coniugare la dovuta trasparenza con l’interesse a preporre alla gestione di beni immobili e, soprattutto, aziende, professionisti di sicura affidabilità ed in grado di condurre a termini compiti gravosi, delicati e, non di rado, forieri di pericoli anche sul piano personale.

Ulteriori innovazioni riguardano l’art. 37 del codice antimafia. L’intervento risponde, stavolta, all’esigenza di chiarire gli adempimenti che devono essere svolti nel momento in cui, per effetto del decreto di confisca di primo grado, si chiude la fase dell’amministrazione giudiziaria per passare alla gestione del bene da parte dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

A seguito del citato decreto, l’amministratore giudiziario cessa dall’incarico, mentre spetta al tribunale provvedere agli adempimenti riguardanti le spese, i compensi e i rimborsi stabiliti dall’articolo 42 del codice e all’approvazione del rendiconto della gestione svolta dall’amministratore giudiziario. Viene disposta, in conseguenza degli interventi appena descritti, l’abrogazione dei commi 4 e 6 dell’art. 38 del codice antimafia.

Con una distinta modifica dell’art. 38 si prevede, ancora, che i coadiutori di cui può avvalersi l’Agenzia, per l’amministrazione dei beni dopo il decreto di confisca di primo grado, siano individuati secondo le modalità previste per l’amministratore giudiziario e, pertanto, scelti tra gli iscritti all’albo degli amministratori giudiziari. Compete, poi, all’Agenzia proporre al tribunale, nell’ambito della sua attività di ausilio durante la fase cautelare del sequestro, l’adozione delle misure per la migliore utilizzazione dei cespiti appresi, individuate attraverso i nuovi strumenti introdotti dal comma 2-bisall’articolo 110 del decreto legislativo n. 159 del 2011.

F) Destinazione e gestione dei beni confiscati

Gli articoli 15 e 16 del disegno di legge n. 1687 sono dedicati al tema, centrale nella materia dell’effettività delle misure patrimoniali di contrasto alla criminalità attraverso la sottrazione con sequestri e confische di prevenzione penale dei cespiti economici connessi all’attività delinquenziale, della destinazione e della gestione dei beni sequestrati e confiscati.

Costituisce acquisizione definitiva nel settore l’affermazione per cui, sotto il profilo generale, l’azione repressiva dello Stato nel settore patrimoniale è efficace nella misura in cui alla sottrazione dei beni alla loro origine criminale consegua una riconduzione degli stessi alla comunità, attraverso misure che ne consentano il riutilizzo nel circuito della legalità in funzione sociale, ovvero, soprattutto con riferimento alle realtà aziendali, anche economica o produttiva.

Ciò in primo luogo perché le utilità in questione costituiscono dei valori di obbiettivo rilievo economico la cui dispersione realizzerebbe un danno per la collettività sotto il profilo strettamente patrimoniale, a fronte dell’ingente investimento di risorse materiali posto in campo per recuperarle. E ciò tanto più quando la loro dissipazione comporti, come nel caso di aziende funzionanti, anche conseguenze obbiettive di deterioramento del tessuto economico e sociale, con la perdita di realtà produttive e quindi di avviamento e opportunità di sviluppo e di crescita economica, nonché di lavoro per coloro che vi siano impiegati.

Sotto il profilo simbolico, poi, con il riutilizzo dei beni confiscati si indeboliscono le organizzazioni criminali, si afferma in modo concreto e visibile il principio di legalità nei luoghi in cui le mafie sono presenti, si restituiscono alla collettività beni in grado di promuoverne l’arricchimento e la crescita.

In sostanza, l’utile ed efficiente gestione dei beni confiscati e sequestrati assume un ruolo strategico per realizzare il fine ultimo perseguito dalla normativa sulle misure patrimoniali antimafia, le quali – come è stato evidenziato ripetutamente dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità – mirano “a sottrarre definitivamente i beni di provenienza illecita al circuito economico di origine per inserirli in altro esente da condizionamenti criminali”[19].

Sensibile a tale considerazioni, il legislatore, su sollecitazione del dibattito dottrinale e giurisprudenziale, ha quindi già da tempo perseguito il passaggio da un modello di amministrazione statica (finalizzata essenzialmente alla conservazione dei beni) ad uno di amministrazione dinamica, che miri a preservare il valore economico e sociale di utilizzo dei beni, ed il mantenimento sul mercato le aziende sequestrate.

Nel campo della destinazione dei beni confiscati, quindi, con la l. 7 marzo 1996, n. 109 è stata introdotta una normativa finalizzata alla restituzione alla collettività dei patrimoni delle organizzazioni criminali attraverso il loro riutilizzo sociale, produttivo e pubblico.

Si è trattato di una scelta di fondamentale importanza non solo sul piano dell’azione di contrasto nei confronti del sistema di potere e degli strumenti di condizionamento propri delle organizzazioni criminali, ma anche su quelli dello sviluppo dell’economia di vaste zone del territorio nazionale (con la eliminazione di pesanti fattori inquinanti), e del rafforzamento del consenso dei cittadini alla legalità.

D’altra parte l’impegno in tal senso profuso dal legislatore e dagli operatori si è scontrato con obbiettive, rilevantissime difficoltà pratiche e materiali.

La gestione dei beni immobili è storicamente ostacolata dalla presenza di gravami ipotecari, procedure giudiziarie in corso, confische pro quota, occupazionesine titulo, inagibilità dei beni.

Ancora più serie le difficoltà per il mantenimento in funzione delle aziende produttive, che hanno condotto l’assoluta maggioranza dei sequestri e delle confische pronunciate concludersi con il dissesto e la dissoluzione dell’attività economica.

Ciò perché lo spossessamento dei cespiti, realizza una inevitabile forzosa soluzione di continuità della gestione.

L’amministrazione dell’azienda richiede competenze specifiche di carattere imprenditoriale.

Alle ordinarie difficoltà di un’attività aziendale si aggiungono quelle derivanti da un provvedimento autoritario che comporta indubbi riflessi nella gestione e nei rapporti con gli istituti di credito, i fornitori, i clienti, i dipendenti e tutti coloro che intrattenevano rapporti di varia natura con l’azienda che devono relazionarsi con un soggetto nuovo organo dello Stato, inevitabilmente astretto da vincoli sostanziali, formali e burocratici.

Notevoli problematiche derivano dalla necessaria legalizzazione dell’azienda sotto il profilo contabile , tributario, previdenziale e dei rapporti di lavoro – spesso irregolari nella forma o nella sostanza – o della conformità alla normativa antinfortunistica e di altra natura.

Le difficoltà diventano ancora più rilevanti in presenza di imprese tipicamente mafiose, che vivono e si alimentano nell’illegalità. Il venir meno del volano “criminale” dell’attività – in termini sia di risorse che di “pratica” gestione dei rapporti con clienti, fornitori soggetti concorrenti – in fatto, purtroppo, realizza un oggettivo indebolimento della capacità dell’impresa di attrarre il mercato.

Il mantenimento in attività di aziende espropriate, quindi richiede un rilevante investimento, come più avanti si dirà, in termini di risorse materiali ed umane.

Per questo il Codice antimafia di cui al decreto legislativo n. 159 del2011 hastabilito la necessaria verifica preliminare, nel caso di specie, da compiersi attraverso amministratore giudiziario professionalmente qualificato, dello “stato dell’attivita’ aziendale e sulle sue prospettive di prosecuzione” (art. 41 comma 1). Solo in caso di esito positivo di tale verifica il tribunale approva il programma con decreto motivato e impartisce le direttive per la gestione dell’impresa.

Una volta che il programma sia avviato, è comunemente sentita l’esigenza che lo sforzo sia il più possibile condiviso e partecipato da tutti i soggetti coinvolti ed i presidi centrali e territoriali rilevanti. Su questo piano la pratica ha fatto emergere la necessità di un sempre maggiore sforzo collettivo delle istituzioni interessate  attraverso schemi di intervento efficaci, tempestivi ed effettivi.  L’art. 15 del disegno di legge in commento, introducendo il nuovo art. 41 bis del d.lgs 159/2011, ribadisce e dettaglia la necessità di tale coordinamento operativo, stabilendo la formazione di tavoli permanenti sulle aziende sequestrate e confiscate presso le prefetture – uffici territoriali del governo -, che coinvolgano non solo le istituzioni di governo centrale e territoriale, ma anche rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, nonché soggetti della società civile portatori di interressi nell’ambito della gestione di attività produttive e del contrasto alla criminalità organizzata, allo scopo di elaborare e realizzare i programmi e le misure necessarie per favorire la continuazione dell’attività produttiva, fornire ausilio e consulenza all’amministratore giudiziario ed all’Agenzia, nello sforzo comune di realizzare il percorso di riconduzione alla legalità.

Nella materia delle misure predisposte per perseguire l’obbiettivo condiviso – di fondamentale rilevanza pratica e simbolica – del mantenimento in attività secondo schemi di legalità di attività produttive di origine criminale, deve essere menzionato il diverso disegno di legge delega , attualmente pendente pressola Camera dei Deputati con il numero 2786, che reca “misure di sostegno in favore delle imprese sequestrate e confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria e dei lavoratori da esse dipendenti, nonchè di organizzazione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”.La proposta si compone di un unico articolo che contempla una serie di interventi eccezionali in deroga alla normativa ordinaria, che hanno per presupposto la presa d’atto della difficoltà obbiettiva operativa in cui si trova l’attività improvvisamente sottratta alla criminalità organizzata e quindi privata del “volano” economico e commerciali ad essa connesso. Si propongono misure pratiche di estrema effettività e concretezza, quali la possibilità di accesso alla cassa integrazione guadagni o altri ammortizzatori sociali, sgravi contributivi sui rapporti di lavoro, riduzione dell’aliquota iva per gli acquisti e le vendite, priorità nella concessione di appalti . E’ prevista inoltre la costituzione di un fondo di garanzia strutturato finalizzato a garantire la liquidità necessaria, a tassi agevolati, non sempre resa disponibile dal settore bancario, necessaria a realizzare gli interventi di ristrutturazione ed adeguamento a legge della strutture aziendali. 

Il legislatore si è posto ragionevolmente il problema di evitare che la attuazione delle misure descritte per la loro concretezza, effettività ed efficacia, introduca il rischio di significativa alterazione della condizioni materiali di concorrenza in danno degli ulteriori operatori del medesimo mercato che, esenti da problematiche criminali,  non possono beneficiare di analoghi vantaggi e, in tempi di crisi economica, vedono obbiettivamente messa in discussione la loro appetibilità commerciale perché costretti a farsi carico di costi maggiori che inevitabilmente non possono non riflettersi sulle condizioni economiche dell’offerta proposta ai consumatori. Senza dire della normativa nazionale e comunitaria di tutela della concorrenza volta a scoraggiare ogni interferenza pubblica sul mercato a beneficio di singoli operatori. Questo è il motivo per cui il disegno di legge delega in commento, in conformità alle prescrizioni sopranazionale, prevede comunque che gli aiuti in questione siano erogati solo in presenza di una preliminare e seria valutazione – operata dall’autorità giudiziaria – in ordine alla effettività e concretezza delle previsione di ripresa, e possono essere riconosciuti solo per periodi di tempo limitati, la cui determinazione è affidata al legislatore delegato.

Sempre sul regime dell’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati o confiscati opera l’art. 16 del disegno di legge n. 1687, che modifica l’art. 48 del decreto legislativo n. 159 del 2011, con la finalità di promuovere il reimpiego utile dei beni, aumentando il novero dei possibili utilizzi, mantenendoli comunque ancorati  alla prioritaria finalità di beneficio sociale . Si stabilisce in tal senso che gli immobili frutto di espropriazione possano essere utilizzati anche per attività di natura economica, purchè i proventi siano destinati ad attività sociali.

Allo stesso modo la norma amplia il numero di soggetti cooperativi cui possono essere assegnati i beni confiscati, con la prescrizione che si tratti, in ogni caso, di enti a mutualità prevalente e senza scopo di lucro.

Infine l’art. 16 impone che le destinazioni dei beni siano rese pubbliche in ossequio alla legislazione sulla trasparenza amministrativa.

Capo IV.

L’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati.

Il Capo IV del disegno di legge reca Disposizioni in materia di assetto dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, compendiate negli articoli 17 e 18, specificamente dedicati alla disciplina ed alle funzioni della medesima Agenzia.

Come è noto, il d.l. n. 4/10, conv. dalla l. n. 50/10, per rispondere alle esigenze di specializzazione, efficienza operativa, direzione unitaria, omogeneità strategica e coordinamento della gestione delle utilità sottratte alla criminalità organizzata su tutto il territorio nazionale, ha istituito l’Agenzia nazionale. Si tratta di ente dotato di personalità di diritto pubblico, di autonomia organizzativa e contabile, posto sotto la vigilanza del Ministro dell’Interno, con sede principale a Reggio Calabria e sedi secondarie nelle regioni interessate da un numero significativo di beni sequestrati e confiscati[20].

Il disegno di legge 1687 propone alcune modifiche dalla vigente organizzazione allo scopo di rendere più efficaci e flessibili i moduli operativi, attraverso una struttura meno burocratica e costosa, ma assistita da una più efficace sinergia con presidi istituzionali o enti esponenziali della società civile competenti nella materia[21].

  Per quanto riguarda i tempi dell’intervento dell’Agenzia in ogni singola procedura l’attuale disciplina prevede, per rendere più agevole l’amministrazione dei beni, una tendenziale continuità degli organi che vi partecipano per l’intera durata del procedimento, dal sequestro alla sua revoca o alla confisca definitiva. Per questo è stabilito che l’Agenzia intervenga, pur rimanendo la procedura affidata al Tribunale ed al giudice delegato (ovvero del giudice penale che ha disposto il sequestro) fino alla sua definizione, già dopo la confisca di primo grado, quando subentra nella gestione l’amministratore giudiziario che può nominare come suo coadiutore.

Fino alla pronuncia di primo grado all’Agenzia sono assegnati compiti di mero ausilio (artt. 38 e 110 comma 2 D.Lgs. n. 159/2011).  L’art. 17 del D.L. 1687 propone un ulteriore rafforzamento di tale contributo di ausilio e supporto prevedendo che già nella prima fase l’Agenzia definisca interventi di salvaguardia del valore patrimoniale dei beni, anche avvalendosi di società a partecipazione pubblica specializzate nel sostegno all’industria.

L’art. 18 è dedicato al consolidamento e rafforzamento della dotazione organica dell’Agenzia, aumentata da trenta a sessanta unità, ammettendone il reclutamento, sempre tra oggetti dotati di competenza specifiche nei settori di intervento dell’ente, attraverso il meccanismo concorsuale, ovvero con gli strumenti della mobilità tra amministrazioni dello Stato. E’ inoltre consentito l’utilizzo di contratti  a tempo determinato per il conferimento di incarichi di particolare specializzazione in materia di gestione patrimoniale o aziendale.

E’ consentito inoltre all’Agenzia l’utilizzo dei moduli amministrativi del comando, del distacco o del collocamento fuori ruolo di  personale di altre amministrazioni pubbliche.

La struttura e le funzioni dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata è, inoltre, oggetto di considerazione in ulteriori due iniziative legislative di origine parlamentare attualmente pendenti avanti alla Camera dei Deputati. Una di esse, la proposta di legge delega n. 2786 già citato sopra, si limita a prevedere la delega al governo per l’adozione di disposizioni sull’organizzazione ed il funzionamento dell’ente. I criteri direttivi di delega, definiti in termini generici, appaiono pienamente corrispondenti a quelli che hanno guidato il legislatore del D.D.L. 1687, evidenziandosi in essi la necessità di rivedere la dotazione organica, in proporzione al numero di beni ed aziende in sequestro, di definire le mansioni e le competenze del personale ed i criteri di selezione secondo principi di specializzazione e competenza, con particolare attenzione alla materia della gestione amministrativa ed aziendale, di prevedere la possibilità che l’Agenzia si avvalga di personale proveniente da altre amministrazioni dello Stato.

Molto più ampio e radicale l’intervento di modifica legislativa che si propone con la proposta di legge n. 2737, sopra già menzionata, che si è detto trarre origine dalle riflessioni della Commissione parlamentare antimafia operate a seguito di un articolato percorso istruttorio di audizioni, accertamenti e confronto, e che prefigura una complessiva e generale rivisitazione di alcuni dei presupposti, del procedimento, dei tempi, delle competenza, delle ipotesi e degli effetti delle procedure di sequestro o confisca di beni alla criminalità organizzata.

Con riferimento alla Agenzia nazionale, detto progetto contiene interventi di modifica fortemente innovativi.

In primo luogo, a modifica dell’attuale assetto – in questo confermato dal Disegno di legge 1687 – la proposta n. 2737 prefigura la collocazione dell’Agenzia sotto la vigilanza della Presidenza del Consiglio, sottraendola al Ministero dell’Interno nell’ambito delle cui competenze oggi opera.

La modifica, che fa seguito ad un indirizzo di opinione diffuso nel dibattito pubblico, ha lo scopo di garantire alla struttura una maggiore ampiezza e flessibilità di competenze e collaborazioni, istituzionali e sociali, in sintonia con un più ricco ventaglio di compiti di programmazione, elaborazione, indirizzo ed attuazione che le sono attribuiti e che richiedono una trasversalità e ricchezza delle possibili sinergie più facilmente perseguibili in una amministrazione non settoriale qualela Presidenzadel Consiglio.

La sede principale è indicata, di conseguenza, in Roma, mantenendosi la sede secondaria operativa in Reggio Calabria.

Nella stessa ottica di ampliamento del ruolo promozionale e delle competenze specialistiche sono riviste la struttura e la composizione degli organi interni nel senso di garantire una partecipazione composita e versatile, aperta alle istanze degli operatori sociali, ma di marcato profilo specialistico.

In tal senso deve essere letta anche l’ulteriore innovazione relativa all’individuazione del Direttore dell’Agenzia, il cui profilo non deve più essere scelto necessariamente tra gli appartenenti alla carriera prefettizia, ma può avere estrazione professionale diversa  – funzionari pubblici, amministratori di società pubbliche o private, magistrati con un certa anzianità – purché garantisca, in ogni caso, una rilevante e comprovata esperienza e competenza nel settore specifico.

Rimane la stretta collaborazione con le istanze territoriali che continuano a trovare espressione in organi di consulenza collocati presso le Prefetture, quali uffici territoriali del Governo.

Una ulteriore importante innovazione contenente nella proposta n. 2737 è quella relativa all’art. 38 del D.Lgs. n.159/2011 che verrebbe modificato eliminando l’automatico trasferimento all’Agenzia dell’amministrazione dei beni sequestrati o confiscati all’emissione del provvedimento di primo grado, prevedendo al contrario che tale passaggio avvenga soltanto quando l’espropriazione sia definitiva. Fino a quel momento all’Agenzia sarebbe affidata la sola attività di supporto ed ausilio alla autorità giudiziaria.

Tornando al Disegno di legge n. 1687, sempre in relazione all’attività dell’Agenzia nazionale deve essere segnalata la norma dell’articolo 32, che compone il Capo IX, relativo alle disposizioni finali, contenente la disciplina transitoria dell’applicazione delle novità proposte. In essa si stabilisce che per il periodo di diciotto mesi successivi all’entrata in vigore del nuovo articolato la competenza dell’Agenzia è esercitata solo in relazione ai beni confiscati in via definitiva, mentre la competenza in merito all’amministrazione dei beni fino al decreto di confisca definitiva,è attribuita all’autorità giudiziaria.

Nella fase precedente la competenza di gestione rimane integralmente affidata alla autorità giudiziaria. Sono esclusi da tale nuova disposizione i provvedimenti ablativi adottati in via non definitiva prima dell’entrata in vigore della legge.

Il Capo V.

1. Le novità dell’articolo19 intema di confisca allargata di cui all’art.12 sexies.

1.1. Premessa.

Accanto alle originarie fattispecie codicistiche di confisca, il legislatore ha nel tempo inserito, tra gli strumenti di contrasto alle illecite accumulazioni delle organizzazioni criminali, alcune nuove ipotesi di ablazione patrimoniale: dalla confisca per equivalente (avente ad oggetto beni di cui il condannato ha la disponibilità diretta o indiretta, per un valore corrispondente a quello del profitto derivante dal reato), alla confisca ai danni dell’Ente di cui agli artt. 9, comma 1, lett. c) e 19 del d.lgs. n. 231/01, fino alla cd. confisca allargata.

Con l’art. 12-sexies  (“Ipotesi particolari di confisca”) del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, introdotto dal decreto legge 20 giugno 1994 n. 399, convertito nella legge 8 agosto 1994 n. 501, è stata infatti prevista la cd. confisca allargata (o per sproporzione), che originariamente poteva essere disposta nei casi di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., per il delitto previsto dall’articolo 416-bis e per altri gravi reati, in relazione al denaro, ai beni o alle altre utilità di cui il condannato non potesse giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risultasse essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.

L’istituto in esame, dunque, presenta, fin dall’origine, caratteri marcatamente ibridi: è misura di sicurezza, disposta all’esito di una sentenza di condanna, ma al tempo stesso viene agganciata solo parzialmente al reato, che in ragione della sua tendenziale riconducibilità a fenomeni di criminalità organizzata funge da elemento presuntivo di illecita accumulazione patrimoniale[22], asseverato, secondo una logica assimilabile alla cd. confisca di prevenzione (dalla quale si distingue per il fatto che la misura segue una condanna e non richiede pertanto una mera sufficienza indiziaria, oltre che per il fatto che solo la confisca allargata presuppone la commissione di specifici reati), dal dato della sproporzione tra valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica, ove egli non sia riuscito a fornire una credibile giustificazione in ordine alla legittima provenienza dei beni stessi ed alla effettiva loro appartenenza al condannato.

Col tempo, peraltro, l’originario assetto dell’art. 12-sexies è stato modificato, sia attraverso il progressivo inserimento di sempre nuove fattispecie di reato, sia attraverso la estensione alla confisca allargata delle disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati previste in materia di confisca di prevenzione nonché la destinazione di una quota dei beni confiscati per l’attuazione delle speciali misure di protezione per i testimoni ed i collaboratori di giustizia. Inoltre, con l’introduzione del comma 2-ter ad opera dell’art. 10-bis, comma 1 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, è stata prevista anche la possibilità di procedere, sussistendo gli stessi presupposti già ricordati per la confisca allargata, anche alla confisca per equivalente “quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità”.

1.2. Le novità del disegno di legge.

L’articolo 19, rubricato “Ipotesi particolari di confisca: ambito applicativo ed estensione della disciplina del Codice antimafia”, modifica, in una serie di passaggi qualificanti, la confisca allargata prevista dall’articolo 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992.

In primo luogo il comma 1 procede ad una riformulazione delle ipotesi di reato la cui condanna dà luogo all’applicazione della misura. In particolare, viene inserito il riferimento, tra le fattispecie presupposte, ai reati contemplati dall’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale.

Per effetto della modifica in esame, la confisca allargata diviene applicabile anche in caso di condanna per i reati di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (articolo 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43) e di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (articolo 260 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); reati in relazione ai quali in precedenza la confisca in esame non era invece consentita, probabilmente per un mero difetto di coordinamento legislativo. Sotto questo profilo, dunque, si è in presenza di una innovazione che rende più efficace l’azione di contrasto ai fenomeni di accumulazione patrimoniale di origine illecita. Alle predette modifiche seguono poi alcuni interventi normativi di adeguamento, essendo divenute superflue alcune disposizioni che, in un processo di progressiva stratificazione normativa, erano state aggiunte per inserire nuove fattispecie cui la confisca allargata potesse essere applicata: è il caso, in particolare, dei commi 2-quater, 3 e 4, che vengono conseguentemente abrogati.

E’ stata, invece, mantenuta la previsione di cui al comma 2-ter, relativa – come detto – alla possibilità per il giudice di disporre la confisca per equivalente in presenza degli altri presupposti che consentono l’applicazione della confisca allargata.

Altro passaggio significativo concerne l’introduzione di una disposizione espressa che preclude la possibilità che il condannato possa giustificare la provenienza dei beni con la disponibilità di denaro che costituisca provento o comunque reimpiego di attività di evasione fiscale. La norma in questione si è resa necessaria, nella prospettiva riformatrice, in ragione dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale, col tempo divenuto prevalente, per cui l’indagato/imputato avrebbe potuto allegare, a giustificazione della provenienza dei beni confiscandi, la circostanza che il loro acquisto fosse avvenuto con redditi da evasione fiscale.

L’art. 19 interviene, ancora, sulle “disposizioni in materia di amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati”, prevedendo, attraverso la modifica del comma 4-bis, la piena applicabilità alla confisca allargata della disciplina dettata dal d.lgs. n. 159/11 in materia di tutela dei terzi e di esecuzione del sequestro: ciò che in precedenza la Suprema Corteaveva escluso[23]. Per questo motivo, infatti, nella rubrica dell’art. 19 si fa riferimento alla estensione della disciplina del Codice antimafia.

Sempre al comma 4-bis, il d.d.l. intende rimediare ad una incongruenza nella normativa processuale, che fino ad oggi individuava nell’udienza preliminare il momento fino al quale l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata  doveva coadiuvare il giudice nell’amministrazione e nella custodia dei beni sequestrati e successivamente al quale essa amministrava i beni stessi. Tale disciplina, infatti, era ovviamente inapplicabile ai casi in cui il procedimento non contemplasse l’udienza preliminare, per essere lo stesso “a citazione diretta” (come nel caso della ricettazione) o per essere essa mancante a causa della instaurazione del giudizio immediato o della definizione del procedimento con sentenza di applicazione della pena pronunciata durante le indagini preliminari. Anche queste ipotesi vengono oggi contemplate dalla norma, come emendata dalla disposizione in esame (art. 19, comma 1, lett. e), n. 4).

Viene, infine, introdotto il comma 4-quinquies, con il quale si prevede che i terzi, titolari di diritti reali o personali di godimento sui beni sequestrati, di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo, debbano essere citati nel processo di cognizione al fine di garantire piena tutela ai loro diritti difensivi. Anche in questo caso l’intervento normativo si giustifica in ragione di prassi applicative di segno non univoco, che comunque ammettevano quantomeno la facoltà dei terzi di intervenire nel processo (sia in sede di udienza preliminare che di dibattimento), pur se negavano la sussistenza di qualunque profilo di nullità in caso di omessa citazione degli stessi[24].

2. Le novità contenute nell’art. 20. La confisca allargata in alcuni casi di estinzione del reato dopo la sentenza di condanna in uno dei gradi del giudizio.

L’articolo 20 del d.d.l. introduce nell’articolo 12-sexies due ulteriori commi, il 4-sexies e il 4-septies, relativi all’applicabilità della confisca allargata nel caso in cui, successivamente alla pronuncia di sentenza di condanna in uno dei gradi di giudizio, il reato si estingua, rispettivamente, per prescrizione o amnistia ovvero per morte del condannato.

La prima norma prevede l’applicabilità della confisca allargata (ma non di quella per equivalente excomma 2-ter) dopo una sentenza di proscioglimento per prescrizione o amnistia intervenuta in appello o nel giudizio di Cassazione a seguito di una pronuncia di condanna in uno dei gradi di giudizio.

Il successivo comma 4-septies stabilisce che, in caso di morte del soggetto nei cui confronti sia stata disposta la confisca con sentenza di condanna passata in giudicato, il procedimento di esecuzione inizi o prosegua nei confronti degli eredi e degli aventi causa del de cuius.

Con queste disposizioni il legislatore intende intervenire in un ambito segnato da un marcato travaglio giurisprudenziale, che ha interessato anche la Corte EDU[25], nel cui contesto si è giunti ad affermare l’illegittimità della definitiva ablazione dei beni, disposta nell’ambito di un meccanismo di natura sanzionatoria, nei casi in cui non si sia pervenuti all’accertamento della responsabilità per il reato contestato.

2.1. Il comma 4-sexies.

Nella prassi giurisprudenziale, infatti, la questione della possibilità di disporre la confisca in esame in caso di prescrizione aveva fatto registrare, fin qui, due opposti indirizzi applicativi.

Una prima opinione, sicuramente prevalente, riteneva che non potesse procedersi a confisca in quanto il tenore letterale dell’art. 12-sexiespostula una sentenza di condanna o di “patteggiamento”e non il mero proscioglimento per estinzione del reato; ed inoltre perché la misura ablativa è prevista non in ragione dell’intrinseca illiceità delle stesse, bensì in forza del loro peculiare collegamento con il reato, il cui positivo accertamento è necessario presupposto.

Alla tesi prevalente si opponeva un indirizzo minoritario, secondo il quale anche quando dovesse pronunciare la estinzione del reato, il giudice avrebbe dovuto esercitare comunque i suoi poteri di accertamento sul fatto-reato al fine di disporre la confisca obbligatoria; con ciò realizzandosi una sostanziale assimilazione della funzione repressiva della confisca ex art. 12-sexies rispetto a quella di prevenzione, con la finalità “di evitare il proliferare di ricchezze di provenienza non giustificata, immessa nel circuito di realtà economiche a forte influenza criminale”[26].

Con la nuova norma si stabilisce l’applicabilità della confisca allargata (ma non anche della confisca per equivalente di cui al comma 2-ter) anche in caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione (o per amnistia) da parte del giudice di appello o di legittimità, ma solo a condizione che nei confronti dell’imputato vi sia stato, in uno dei precedenti gradi di giudizio, un accertamento (incidentale) della responsabilità penale, con la pronunzia di una sentenza di condanna.

La soluzione offerta, dunque, sposa l’indirizzo sin qui minoritario in giurisprudenza, con il chiaro intento di rafforzare le possibilità applicative della misura in questione.

2.2. Il comma 4-septies.

La giurisprudenza distingue il caso di estinzione del reato per morte dell’indagato o dell’imputato da quello della estinzione della pena per morte del condannato.

Con riferimento al primo caso la giurisprudenza è univocamente contraria all’applicabilità della confisca ex art. 12-sexies. Secondo le Sezioni Unite (v. sentenza n. 5 del 25 marzo 1993, Carica ed altri, Rv. 193120), la confisca può essere ordinata “solo quando alla stregua di tali disposizioni la sua applicazione non presupponga la condanna e possa aver luogo anche in seguito al proscioglimento”. E dal momento che la confiscaexart. 12-sexies presuppone una pronuncia di condanna o di applicazione pena per determinati titoli di reato, divenuta irrevocabile, ecco che nei casi di proscioglimento per morte dell’imputato la misura in questione non può essere applicata.

Peraltro la Cortecostituzionale, interpellata dal giudice di legittimità in materia di confisca urbanistica[27], ha affermato che la citata decisione Varvara c. Italia (con la qualela Corte Edu aveva condannato il nostro paese per violazione dell’art. 7 della Convenzione e dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale) deve essere armonizzata con i principi costituzionali di sussidiarietà in materia penale e discrezionalità legislativa nella politica sanzionatoria, essendo il giudice comune obbligato ad adottare una lettura della normativa interna conforme alla Costituzione, atteso il “predominio assiologico di questa sulla CEDU”. Pertanto, il concetto di “condanna”, assunto dalla citata decisione della Corte EDU quale presupposto necessario all’applicazione della confisca, dovrebbe essere declinato in senso sostanziale, sicché potrebbe ritenersi sufficiente, ai suddetti fini, un semplice accertamento incidentale della responsabilità del soggetto. Una pronuncia, quella in esame, che pare dunque fornire un solido sostegno a soluzioni legislative innovative, che il d.d.l. in commento non ha però prospettato.

Infatti, il comma 4-septies, intervenendo con riferimento al solo caso in cui la confisca fosse già stata disposta con sentenza di condanna passata in giudicato (ipotesi in relazione alla quale il combinato disposto degli artt. 210 e 236 c.p. ne consente l’applicazione anche con riferimento alla speciale confisca di cui all’art. 12-sexies) stabilisce che il relativo procedimento inizi o prosegua, con le forme proprie del procedimento di esecuzione di cui all’articolo 666 del codice di procedura penale, “nei confronti degli eredi o comunque degli aventi causa”[ 28]. Una soluzione condivisibile, atteso che gli eredi di una persona condannata con sentenza irrevocabile non rientrano nella categoria dei “terzi estranei” di cui all’art. 240 cod. pen. e considerato che gli effetti della sentenza di condanna definitiva che vengono a cessare dopo la morte del condannato sono solo quelli di natura personale e non quelli di natura reale.

Anche in questo caso, peraltro, l’intervento normativo intende “correggere” un orientamento giurisprudenziale ritenuto disfunzionale rispetto ad un rafforzamento degli strumenti di contrasto dei fenomeni di accumulazione patrimoniale di origine illecita.

Il Capo II. Disposizioni relative alla partecipazione a distanza del detenuto ai procedimenti di esecuzione o al dibattimento

L’articolo 6 del DDL modifica l’articolo 666 c.p.p., prevedendo una diversa disciplina della partecipazione dell’interessato al procedimento di esecuzione.

In particolare, mediante l’introduzione del comma 4-bis al medesimo articolo, si adegua la disciplina alla modifica apportata all’articolo 146-bis disp. att. c.p.p. in tema di partecipazione a distanza.

Per effetto della novella, nel procedimento di esecuzione, l’interessato, se ne fa richiesta, è sentito personalmente ovvero, nei casi previsti dall’articolo 146-bisdelle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice (cioè qualora sussistano gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico o qualora il procedimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento ovvero quando si procede nei confronti di detenuto al quale sono state applicate le misure di cui all’articolo 41-bis, comma 2, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni) con le modalità ivi previste: collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e luogo della custodia, con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto, con possibilità per il difensore o un suo sostituto di essere presente nel luogo dove si trova l’interessato, nonché di consultarsi riservatamente con l’assistito, per mezzo di strumenti tecnici idonei, ove il difensore o il suo sostituto sia presenti nell’aula di udienza.

Con l’introduzione del comma 4-ter, inoltre, si generalizza l’istituto della partecipazione a distanza a tutti i casi in cui l’interessato sia detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice. In tali ipotesi, per effetto della prevista estensione dell’istituto, la possibilità che il detenuto o l’internato venga sentito prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo è ora subordinata all’indisponibilità di mezzi tecnici idonei a consentire la  partecipazione a distanza, salva la possibilità per il giudice, come previsto dal nuovo comma 4-quater, di disporre la traduzione dell’interessato ove ne ritenga comunque necessaria la presenza.

La novella, nel suo complesso, può essere accolta con favore, in quanto mira a realizzare un giusto contemperamento tra le esigenze di sicurezza e le esigenze di difensive.

L’articolo 7 del disegno di legge modifica il comma 1 dell’articolo 146-bisdisp. att. c.p.p..

Esso è finalizzato ad evitare che per un detenuto la partecipazione dibattimentale mediante video conferenza possa essere attivata esclusivamente nell’ipotesi in cui si proceda per i delitti indicati negli articoli 51, comma 3-bis, e 407, comma 2, lettera a), numero 4), c.p.p.

Per effetto della modifica, quindi, il giudice, potrà ora disporre l’attivazione della videoconferenza per un detenuto ristretto per taluno dei delitti indicati, anche nel caso in cui si proceda per fatti diversi. Ciò a condizione che ricorrano le specifiche esigenze indicate dalle lettere a) e b) ovvero che sussistano gravi ragioni di ordine pubblico e di sicurezza, anche penitenziaria  ovvero cheil dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento.

Al pari delle modifiche introdotte dall’art. art. 6, anche la novella in esame può essere positivamente apprezzata nell’ottica del miglior contemperamento delle esigenze di sicurezza, di effettività del diritto di difesa e di ragionevole durata del processo.

Ed invero, pur al cospetto del comprensibile interesse dell’imputato ad essere fisicamente presente nel luogo ove si svolge il processo a suo carico, l’ausilio dei più moderni presidi tecnologici gli garantisce la possibilità di seguire in maniera adeguata, consapevole e piena le attività di udienza e di mantenere un proficuo e continuo contatto con i difensori, sì da escludere che la partecipazione mediante collegamento a distanza provochi significativo pregiudizio alle sue prerogative.

Per contro, tangibili sono i vantaggi che derivano dall’assenza del detenuto in udienza in chiave sia di più spedita conduzione del processo che di contenimento delle incombenze gravanti sulla polizia penitenziaria, quotidianamente impegnata, in un contesto notoriamente connotato dalla limitatezza delle risorse, in delicate e faticose attività di traduzione.

Del resto,la Cortecostituzionale da tempo ormai ha chiarito che la partecipazione a distanza, se attuata con accorgimenti idonei a rendere effettiva la partecipazione dell’imputato, è pienamente compatibile con il “diritto di difesa” come garantito dall’articolo 24 della Costituzione, non potendosi accettare l’idea secondo la quale soltanto la presenza fisica dell’accusato nella sala d’udienza assicura l’effettività di questo diritto, limitandosila Costituzionea richiedere la partecipazione personale e consapevole dell’imputato al dibattimento (sentenza n. 342 del 22 luglio 1999).»

Il presente parere viene trasmesso al Ministro della Giustizia.

[1] Il riferimento attiene, rispettivamente, alla proposta di legge n. 2737, presentata alla Camera dei Deputati il 20 novembre 2014 ed avente ad oggetto “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, e all’ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n.12”, ed a quella n. 2786, presentata alla Camera dei Deputati il 18 dicembre 2014 ed avente ad oggetto “Delega al Governo in materia di misure per il sostegno in favore delle imprese sequestrate e confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria e dei lavoratori da esse dipendenti, nonché di organizzazione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”.

[2]Diversa è, invece, la filosofia che ispira la già citata proposta di legge n. 2737, che, traendo spunto dalla relazione, licenziata il 22 ottobre 2014 dalla Commissione parlamentare antimafia, auspica una revisione organica del codice antimafia, distribuita su ben 58 articoli.

[3]In proposito,la Commissione ritiene opportuna l’introduzione di un limite temporale, prevedendo che questioni concernenti la competenza per territorio siano precluse se non proposte entro la conclusione della discussione di primo grado e possano essere rilevate d’ufficio non oltre la decisione di primo grado.

[4] Identica previsione è contenuta nella proposta di legge n. 2737, nella quale sono riversate le proposte formulate nell’ottobre 2014 dalla Commissione parlamentare antimafia, talune delle quali corrispondono, in tutto o in parte, a quelle inserite nel corpo dell’art. 11 del disegno di legge, presentato in pari data.

[5] Che trova pendant in norma dal contenuto quasi identico nella proposta di legge n. 2737.

[6] Cassazione penale, Sez. U, 29 luglio 2014, n. 33451, Repaci e altri, secondo cui “In tema di confisca di prevenzione di cui all’art. 2 ter legge 31 maggio 1965, n. 575 (attualmente art. 24 D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159), la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, atteso che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti i beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso”.

[7] Il testo originario è, peraltro, già stato sostituito, a decorrere dall’1 gennaio 2013, dall’art. 1, comma 189, lett. a), L. 24 dicembre 2012, n. 228.

[8] Nella novella la preposizione disgiuntiva “o” lascia il posto a quella congiuntiva “e”.

[9] composto da un unico comma, a tenore del quale “Se la persona nei cui confronti e’ proposta la misura di prevenzione disperde, distrae, occulta o svaluta i beni al fine di eludere l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro o di confisca su di essi, il sequestro e la confisca hanno ad oggetto denaro o altri beni di valore equivalente. Analogamente si procede quando i beni non possono essere confiscati in quanto trasferiti legittimamente, prima dell’esecuzione del sequestro, a terzi in buona fede”.

[10] Al pari, va detto, della più volte citata proposta di legge n. 2737, il cui testo è, per questa parte, quasi identico.

[11] Prevedendosi, ad opera del novellato comma 3, che questi “esercita tutte le facoltà spettanti ai titolari dei diritti sui beni e sulle aziende oggetto della misura” e, nel caso di imprese esercitate in forma societaria, “può esercitare i poteri spettanti agli organi di amministrazione e agli altri organi sociali secondo le modalità stabilite dal tribunale, tenuto conto delle esigenze di prosecuzione dell’attività d’impresa”.

[12] Che oggi presuppongono, relativamente ai beni aziendali, “l’immissione in possesso dell’amministratore e con l’iscrizione nel registro tenuto dalla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura presso il quale è iscritta l’impresa”.

[13] Per completezza espositiva, va detto che, in atto, il comma 8 dell’art. 34 del codice antimafia contempla, sotto la voce “Controllo giudiziario”, un istituto dal contenuto prescrittivo molto esiguo in quanto circoscritto a meri obblighi informativi ex posta carico dell’attività sottoposta alla misura, e collocato in posizione ancillare rispetto alla amministrazione giudiziaria, potendo essere disposto soltanto in sede di revoca di quest’ultima e per un periodo di tre anni.

[14] “gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti, e gli altri atti o contratti indicati dal tribunale, di valore non inferiore a euro 10.000 o del valore superiore stabilito dal tribunale in relazione al reddito della persona o al patrimonio e al volume d’affari dell’impresa”.

[15] Il tribunale può, infatti, imporre: “a)l’obbligo di non cambiare la sede, la denominazione e la ragione sociale, l’oggetto sociale e la composizione degli organi di amministrazione, direzione e vigilanza, e di non compiere fusioni o altre trasformazioni, senza l’autorizzazione da parte del giudice delegato; b) di adempiere ai doveri informativi di cui alla lettera a) del comma 2 nei confronti del commissario giudiziario; c) di informare preventivamente il commissario giudiziario circa eventuali forme di finanziamento della società da parte dei soci o di terzi; d) l’obbligo di adottare ed attuare effi-cacemente misure organizzative, anche ai sensi degli articoli 6, 7 e 24-ter del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231; e) l’obbligo di assumere qualsiasi altra iniziativa finalizzata a prevenire specifica-mente il rischio di tentativi di infiltrazione o condizionamento mafiosi”.

[16] Che costituisce una prima risposta alle sollecitazioni provenienti dalla dottrina; scrive, in particolare, C. Visconti, in Proposte per recidere il nodo mafie-imprese, in www.penalecontemporaneo.it, 7 gennaio 2014: “…se si condivide l’idea che lo Stato – nei casi … in cui l’azienda non è irrimediabilmente compromessa ma risulta comunque in qualche modo esposta al condizionamento o all’infiltrazione mafiosi – potrebbe svolgere una funzione – per dir così – ‘terapeutica’, nella duplice prospettiva di assicurare la continuità dell’impresa e al contempo “isolarla” dal contesto criminale, allora occorre rafforzare il Controllo giudiziario quanto a contenuti e spazio applicativo. … Un nuovo Controllo giudiziario … insieme alla valorizzazione nella prassi della già esistente Sospensione temporanea, potrebbero fungere, verosimilmente, da strumenti più flessibili, selettivi e meno dirompenti in un’ottica economico-aziendale, in modo da graduare meglio la risposta giudiziaria al variegato fenomeno delle infiltrazioni mafiose nelle attività imprenditoriali e ottenere una rapida ed efficace ‘bonifica’ dell’impresa ritenuta ‘contaminata'”.

[17] L’esigenza di non protrarre eccessivamente, in attesa della pronunzia definitiva, il vincolo su beni ed aziende fonda, d’altro canto, la vigente previsione di termini di efficacia del sequestro e della confisca, nelle differenti fasi del procedimento. 

[18] Tanto è accaduto, deve ritenersi, in forza sia della elevata tecnicità della materia, che richiede una particolare competenza che abbraccia il diritto penale come quello civile, che di ragioni più latamente culturali, che hanno indotto a posporre la trattazione di procedimenti che coinvolgono valori, pure di rango costituzionale, quali la proprietà e l’iniziativa economica privata, ritenuti minusvalenti rispetto a quello della libertà personale, interessato dal procedimento penale ordinario e dalle misure di prevenzione personali.

[19] Così C. cost., 30 settembre 1996, n. 335; Cass. Sez. II, 21 marzo 1997, n. 12541, Nobile, in Cass. pen, 1997, p. 3170; Sez. I, 15 giugno 2005, n. 27433, Libri, rv. 231755.

[20]Il Consiglio direttivo, la cui composizione è stata modificata dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228, è formato dal Direttore dell’Agenzia scelto tra i Prefetti (che lo presiede), da un magistrato designato dal Ministro della giustizia, da un magistrato designato dal Procuratore nazionale antimafia e terrorismo, da due esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali (art. 111 del Codice Antimafia).

L’Agenzia è dotata di un organico di  trenta elementi e la legge n. 228/12 prevede che possa avvalersi, nella forma del comando, di 100 dipendenti di altre Pubbliche Amministrazioni.

[21] Per questo, ad esempio, si prevede che l’Agenzia abbia una sola sede secondaria, in Roma, sopprimendo la possibilità di sedi ulteriori. Si stabilizza il supporto delle prefetture, presso ognuna delle quali è costituito un nucleo di assistenza specifico, la cui composizione non è predeterminata in  maniera rigida ed uniforme, ma può essere modulata – da parte del Prefetto sulla base delle indicazioni della stessa Agenzia – a seconda delle caratteristiche dei beni e della loro possibile destinazione in ciascuna singola fattispecie.

Viene modificata la composizione del Comitato direttivo prevedendo l’inserimento di un esperto in gestioni patrimoniali e di uno in materia di gestioni aziendali, entrambi di nomina ministeriale.

Viene inoltre costituito un nuovo organo, il Comitato consultivo, composto, oltre che da esperti rappresentanti delle istituzioni interessate, anche da rappresentanti della associazioni che possono essere destinatarie dei beni e dalle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro. Il Comitato ha compiti di consulenza ed indirizzo in materia di pianificazione e programmazione delle attività, nonché in ordine ad ogni altra questione in materia di utilizzazione dei beni sequestrati o confiscati.

[22] Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2003 (dep. 19 gennaio 2004), n. 920, Montella, in C.E.D. Cass., n. 226490.

[23] V. Cass., Sez. 2, 12 febbraio 2014 (dep. 5 marzo 2014), n. 10471.

[24] Cass., Sez. I, 21 febbraio 2008 (dep. 9 aprile 2008), n. 14928, Marchitelli, in CED Cass., n. 240164.

[25] Cfr., in particolare, le sentenze della Corte EDU, 20 gennaio 2009, Sud Fondi c. Italia e 29 ottobre 2011, Varvara. In quest’ultimo casola Corte EDU ha condannato il nostro Paese per violazione dell’art. 7 (nulla poena sine lege) della Convenzione e dell’art. 1 (diritto di proprietà) del Primo Protocollo addizionale.

[26] Cass., Sez. II, 25 maggio 2010, n. 32273..

[27] Cass., Sez. III, ordinanza n. 1139/2014.

[28] Analoga previsione è già prevista in materia di confisca di prevenzione, ove, non essendo richiesto l’accertamento di responsabilità penali individuali,la Corte costituzionale ha ritenuto che tale disciplina sia pienamente compatibile conla Carta (cfr. sent. n. 21 del 2012). 


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