Presentazione dei contributi in materia ordinamentale, penale e civile di Andrea Penta

1. Quando vennero introdotti gli strumenti alternativi di definizione delle lite, di matrice anglosassone, si disse che la magistratura era stata dotata finalmente degli strumenti per assicurare una risposta tempestiva alla domanda di giustizia.

Analogo approccio propagandistico venne adottato all’indomani della introduzione del processo civile telematico, senza chiarire all’opinione pubblica e, ancor prima, ai magistrati, che l’operazione determinava altresì il passaggio a carico di questi ultimi di compiti che, anche sulla base dell’attuale codice di rito civile (art. 130 c.p.c.), sarebbero riservati ai cancellieri.

Con la recente proposta di riforma del processo civile, del processo penale e dell’ordinamento giudiziario elaborata dal Ministro della Giustizia Bonafede si cavalca l’onda mediatica generata dai noti eventi per introdurre, in un coacervo di disposizioni innovative prive di un minimo comune denominatore, alcune riforme di cui non vengono sempre adeguatamente ponderate le ricadute sul piano applicativo.

Un primo dato balza agli occhi immediatamente: si sbandierano gli obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile (proclamando una stretta correlazione tra competitività del Paese e tempi della giustizia civile), ma non si fa cenno ai carichi di lavoro sostenibili da ciascun magistrato, alla mole inesigibile di istanze dalle quali ognuno è gravato, all’assenza di risorse, sul piano umano ed economico, dalla quale è endemicamente caratterizzato il sistema giustizia.

Un timido approccio costruttivo lo si intravede nell’obiettivo di realizzare, mediante lo strumento di una dotazione di pianta flessibile, una task force di magistrati che dovrebbe aggiungersi alla dotazione di pianta degli uffici giudiziari interessati e che dovrebbe determinare, in generale, l’introduzione di un regime di flessibilità delle piante organiche del territorio distrettuale (per un approfondimento si rinvia alla parte curata da Ileana Fedele).

1.1. La principale modifica che si intende introdurre nell’ambito del processo civile è la sostituzione dell’articolato procedimento ordinario di cognizione con un rito semplificato modellato sull’elastico schema procedimentale del rito sommario.

Le linee direttrice lungo le quali si intende agire sono rappresentate a) dalla semplificazione del processo (in primo grado e in appello), b) dalla riduzione dei riti e dalla loro semplificazione, c) dalla introduzione di strumenti di istruzione preventiva affidata agli avvocati (nella fase della negoziazione assistita).

Non ho mai visto, quale giudice civile, l’attuale rito (recte, gli attuali riti) a disposizione delle parti come un ostacolo, per la sua (loro) farraginosità, alla rapida definizione dei giudizi. Tutto è perfettibile, ma a me sembra che la struttura del processo civile sia di buona qualità e rappresenti un giusto punto di equilibrio tra le esigenze di giustizia e quelle di rispetto dei diritti di difesa e del contraddittorio.

La sommarizzazione generalizzata del processo civile, semmai, potrebbe scaricare sui giudizi di impugnazione gli effetti di eventuali scelte sbagliate nella gestione del rito (sul punto si rinvia alle osservazioni di Silvia Vitrò).

Siamo proprio sicuri che la qualità della giurisdizione civile verrebbe migliorata intervenendo sul rito, rendendolo peraltro poco duttile, o i rischi connessi, ad esempio, ad una degiurisdizionalizzazione dell’istruttoria svincolata dal filtro terzo e imparziale del giudice (ci si riferisce, soprattutto, all’attività di istruzione stragiudiziale nell’ambito della procedura di negoziazione assistita per favorire soluzioni transattive, connotata dall’acquisizione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti in relazione all’oggetto della controversia e dalla sollecitazione alla controparte alla confessione stragiudiziale – art. 2735 c.c. -, nonché dall’acquisizione di informazioni dalla p.a. – sul contenuto di atti e provvedimenti -; sul tema si rimanda alle note di Eugenia Italia e Fabio Doro) potrebbero essere maggiori dei vantaggi che si intende conseguire?

Anche con questo preannunciato intervento normativo si dimentica superficialmente che il collo di bottiglia è costituito dalla fase decisoria e che la semplificazione del rito non costituisce di per sé, in assenza di un aumento delle risorse (oltre che di una migliore distribuzione delle stesse), la panacea per risolvere il problema dell’arretrato.

Ed allora le tre principali novità che caratterizzano la sostituzione del rito ordinario con quello sommario, quanto al processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica (eliminazione della possibilità di conversione; introduzione di un sistema di preclusioni destinate a consentire la fissazione del thema decidendum ancor prima dell’udienza di prima comparizione delle parti; anticipazione della definitiva cristallizzazione del thema decidendum a dieci giorni prima dell’udienza di comparizione delle parti; per l’analisi della fase introduttiva ed istruttoria dinanzi al tribunale in composizione monocratica si rinvia alle note a firma di Antonella Stilo), altro non sono che ‘specchietti per le allodole’ finalizzati a distogliere l’attenzione dal vero problema che attanaglia il sistema giustizia. Al contempo, la previsione secondo cui il rinvio tra l’udienza di trattazione e quella istruttoria non deve superare i 110 giorni (art. 3.1., b)-6)) è effimera.

1.2. Inserendosi nel solco di precedenti interventi normativi, vengono previste: a) l’esclusione del ricorso obbligatorio, in via preventiva, alla mediazione in materia di colpa medica e sanitaria, contratti finanziari, bancari e assicurativi (sono sufficienti altri istituti finalizzati ad agevolare una soluzione stragiudiziale della controversia, quale, in materia di responsabilità medica e sanitaria, l’a.t.p. disciplinato dalla l. 8.3.2017, n. 24); b) l’esclusione del ricorso obbligatorio alla negoziazione assistita nel settore della circolazione stradale; c) l’estensione della mediazione obbligatoria alle controversie derivanti dai contratti di mandato e da rapporti di mediazione; d) l’estensione della negoziazione assistita facoltativa alle materie di cui all’art. 409 c.p.c. Per un’analisi delle ricadute sul piano pratico delle preannunciate modifiche si rinvia alle note di Michele Ruvolo. Quanto alla individuazione delle attività processuali che costituiscono per la parte condizione per potere chiedere l’indennizzo per irragionevole durata del processo, vedasi Fabio Di Lorenzo.

1.3. Quanto alla fase decisoria, mi limito a segnalare nella presente sede che, prevedendo la relativa possibilità come alternativa rispetto al vaglio del giudice sulla complessità della controversia, le parti o, almeno, una di esse (quella che ritiene di poter perdere la lite e, quindi, ha più interesse ad un differimento) tendenzialmente chiederanno (anche in assenza di complessità) un rinvio per la discussione ad altra udienza.

Al contempo, il concetto di note difensive è estremamente più vago e generico rispetto a quello, ormai consolidato, di comparse conclusionali (e di memorie di replica).

1.4. Con riferimento all’appello (per il quale si rinvia all’approfondimento a cura di Danilo Chieca), appaiono opportuni sia il chiarimento (art. 6.1., lett. b) sull’art. 346 c.p.c. (nel senso che le domande ed eccezioni non accolte, siccome ritenute assorbite, in primo grado devono essere riproposte, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di 20 giorni prima della data di udienza) sia l’abrogazione dell’art. 348 bis c.p.c. (che ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti, tra l’altro scaricando di fatto sulla cassazione un carico non indifferente di nuovo contenzioso).

Non si considera, peraltro, che, di regola, in assenza di attività istruttoria, l’udienza di trattazione, all’esito della quale le parti dovrebbero essere invitate a precisare le conclusioni ed il collegio dovrebbe pronunciare la sentenza, è quella fissata dall’appellante, sicchè il collegio stesso rinvierà la causa ad altra udienza (questa volta di discussione), non fosse altro perché il numero di cause definibili all’udienza di trattazione non dipende da un disegno organizzativo del giudice.

1.5. Apprezzabile è la consacrazione sul piano normativo del principio di chiarezza e di sinteticità degli atti di parte e del giudice (art. 7.1., lett. d), così come l’introduzione del divieto di sanzioni processuali sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico dell’atto, quando questo abbia comunque raggiunto lo scopo (art. 7.1., lett. e).

In ordine al primo profilo (sul quale vi sono le osservazioni di Silvia Vitrò), va ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità.

1.5. L’esperienza negativa del passato a volte non sempre insegna qualcosa. Nell’abrogato processo societario una delle novità che vennero più aspramente criticate fu quella della previsione della cd. ficta confessio (art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 5 del 2003), in palese contrasto con il costante riconoscimento di una valenza di per sé neutra alla contumacia del convenuto.

Ora il legislatore intende reintrodurre l’istituto (art. 9.1., lett. e), sia pure nel limitato ambito dei giudizi di scioglimento delle comunioni (per la cui disamina si rinvia al contributo di Dario Cavallari), prevedendo che il giudice, in assenza di contestazioni sul diritto alla divisione (nulla quaestio), “compresi i casi di contumacia di una o più parti”, disponga lo scioglimento della comunione con ordinanza non revocabile.

Estremamente pericolosa, prestandosi a facili strumentalizzazioni ed elusioni, è la legittimazione riconosciuta al debitore, nell’ambito delle procedure di espropriazione immobiliare, a chiedere l’autorizzazione alla vendita diretta (sul tema si rinvia all’ampia disamina a cura di Emanuela Musi), ponendosi problemi per certi versi simili a quelli che sono sorti, in ambito fallimentare, avuto riguardo, in particolare, alla natura forzata di questo tipo di vendita e agli effetti “purgativi” alla stessa connessi.

Si inserisce nel solco dell’intento di rimpinguare le anemiche casse dello Stato la previsione secondo cui il beneficiario delle sanzioni pecuniarie, in caso di responsabilità aggravata, è la Cassa Ammenda e Prestiti, anziché la controparte (sulla relativa questione si rinvia allo scritto di Fabio Di Lorenzo).

2. Solo all’art. 30 (lett. d) si opera un fugace riferimento ai “carichi esigibili”, ma al solo fine di valutare in concreto la negligenza inescusabile del magistrato che non abbia adottato misure per definire i processi civili e penali da lui iniziati nel termine massimo all’uopo previsto (di quattro anni quanto al giudizio di primo grado; tre anni quanto al giudizio di secondo grado; due anni quanto al giudizio di legittimità). A tal ultimo riguardo, una domanda nasce spontanea: che senso ha prevedere l’obbligo di adottare misure per definire rapidamente i processi pendenti se poi, in concreto, queste misure non sono attuabili? Sembrerebbe che costituisca illecito disciplinare la mancata adozione delle dette misure. E la loro mancata attuazione sul piano pratico?

Ed ancora: quali sono le misure che il magistrato dovrebbe adottare per definire i processi civili e penali da lui iniziati nel termine di quattro anni quanto al giudizio di primo grado? Il calendario del processo (artt. 3, lett. b, punto 8 – quanto ai processi civili -, e 17, lett. a – quanto ai processi penali -) ? Non si è considerato, tra l’altro, quanto al giudizio di legittimità, che i ruoli di udienza, in cassazione, sono predisposti dai presidenti di sezione.

Ulteriore criticità: costituisce specifico illecito disciplinare la mancata adozione delle misure, da cui derivi per negligenza inescusabile il mancato rispetto dei termini in più di un terzo dei processi civili e dei processi penali iniziati dal magistrato (art. 30.1., lett. b). Sembra quasi una istigazione a lasciare andare alla deriva fino a un terzo (1/3) delle cause presenti sul ruolo. Senza tralasciare, ovviamente, che naturaliter la propensione di ogni magistrato sarà nel senso di privilegiare la definizione dei processi di minor complessità.

Riemergono, in modo però non programmatico, i criteri di priorità nella trattazione degli “affari”. Ciò avviene nel disciplinare le indagini preliminari e l’udienza preliminare (art. 15, lett. i), prevedendosi che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme  esercizio dell’azione penale, selezionino le notitiae criminis da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati, nel regolamentare le funzioni direttive e semidirettive (art. 24.2., lett. b)-3)), stabilendosi che il progetto organizzativo delle procure della Repubblica contengano in ogni caso “i criteri di priorità nella trattazione degli affari”, e nell’introdurre le piante organiche flessibili distrettuali (art. 47, nella parte in cui sostituisce l’art. 5, co. 3, della l. 13.2.2001, n. 48), prevedendosi che, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il CSM, siano, tra l’altro, definiti i criteri di priorità per destinare i magistrati della pianta organica flessibile alla sostituzione (nei casi di assenza dall’ufficio) ovvero per assegnare gli stessi per far fronte alle condizioni critiche in cui versa un ufficio.

Diventano nevralgici i menzionati criteri di priorità, che dovranno essere elaborati periodicamente dai dirigenti degli uffici, previa interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale, dovranno essere indicati nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica e dovranno tener conto “della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”.

3. Nell’ambito del processo penale, a fronte di taluni elementi positivi (l’intervento seppur minimale in tema di notificazioni, i poteri delgGiudice dell’udienza preliminare, con la previsione di una fase pre-dibattimentale che possa essere realmente deflattiva, con il mutamento della regola di giudizio ex art. 425 comma 3 c.p.p., e di rimando, dell’art. 125 norme att. c.p.p.), restano numerose criticità e perplessità. Per i relativi approfondimenti si rinvia a David Mancini, Luigi Cuomo, Aldo Natalini (avuto riguardo, in particolare, ai riti speciali) e, anche in una prospettiva de iure condendo, Alessandro De Santis.

4. Apprezzabile risulta l’eliminazione, nella stesura attuale, dell’originaria abrogazione ex lege dei semidirettivi (sullo specifico profilo, si rinvia ai commenti, estesi anche alle funzioni direttive, di Santi Bologna, di Silvia Vitrò e di Tony Nicastro)  Se si voleva tutelare l’autonomia dei singoli magistrati, l’obiettivo certamente non sarebbe stato raggiunto creando capi degli uffici che sarebbero stati dei “domini” assoluti all’interno dei Tribunali e delle Procure, sostanzialmente liberi di selezionare la semidirigenza. Anche a voler prescindere dalla palese violazione dell’art. 105 Cost. che in tal guisa operando si sarebbe realizzata, non vi è chi non veda che solo un sistema di regole trasparenti e di indicatori specifici può evitare che i ruoli di vertice si trasformino in occasioni di esercizio arbitrario dei poteri. La gerarchizzazione delle Procure non ha dato buona prova di sé, come i noti eventi purtroppo testimoniano. Ciò nonostante, si intendeva estenderla anche agli uffici giudicanti. La sottrazione al CSM di questa competenza avrebbe, del resto, determinato un forte accentramento verso la dirigenza giudiziaria, al pari di quanto è già avvenuto nelle Procure.

E’ vero, semmai, il contrario: in un sistema di bilanciamento, connotato da pesi e contrappesi, è proprio la nomina dei semidirettivi sottratta al capo dell’ufficio che consente di ‘compensare’ il potere di quest’ultimo, che altrimenti diverrebbe senza limiti e tale da condizionare l’attività dei magistrati da lui scelti.

5. In ordine al profilo dell’aumento irragionevole delle ipotesi di illecito disciplinare (su cui vedasi Santi Bologna), con particolare riferimento alla tutela dei soggetti che avrebbero dovuto segnalare illeciti dei magistrati e del personale amministrativo degli uffici giudiziari (art. 25, eliminato nella versione che attualmente circola), si rinvia a Francesco Lo Gerfo, non senza qui evidenziare che la norma reintrodurrebbe, di fatto, surrettiziamente la figura del sicofante (modernizzato) contro magistrati e cancellieri sgraditi, fornendogli l’anonimato e l’impunità di fatto.

6. Sul sistema elettorale dei componenti togati del CSM non mi soffermerò, rimandando agli approfondimenti tematici (ed in particolare, all’articolo di Salvo Leuzzi, contenente anche una proposta costruttiva). Mi permetto qui solo di evidenziare che siamo al cospetto di una rappresentatività senza vincolo di mandato, che il metodo di scelta è una “elezione” e che il sorteggio (in qualunque fase collocato) si rivelerebbe senz’altro incostituzionale (siccome in contrasto con l’art. 103, co. 4, Cost.).

Siamo poi sicuri che il CSM, sul piano della trasparenza, verrebbe migliorato o la via della responsabilizzazione passa sempre e comunque attraverso una elevazione degli standard deontologici e comportamentali?

La sfiducia nel possesso da parte della categoria di magistrati di anticorpi per combattere le pressioni esercitate dall’esterno ed i virus presenti all’interno ha indotto il legislatore a cadenzare in modo rigoroso il procedimento di elezione dei componenti togati (artt. 38-41): si va dalla individuazione (con decreto del Ministro della giustizia) dei collegi almeno tre mesi prima del giorno fissato per le elezioni, alla convocazione delle elezioni (fatta dal CSM) almeno 60 giorni prima della data stabilita per l’inizio della votazione), al termine stringente di 7 giorni dalla pubblicazione dell’elenco dei magistrati sorteggiati per la presentazione, ad opera degli stessi, della loro candidatura, alla pubblicazione degli elenchi dei candidati (distinti per singolo collegio) almeno 7 giorni prima della data della votazione, alla previsione che ogni elettore riceve una scheda ed esprime il proprio voto per un solo magistrato. Lo scopo è chiaro: impedire ai gruppi associativi di organizzarsi per fare opera di proselitismo (per una approfondita disamina, che trae origine dal preliminare inquadramento del Consiglio superiore nell’ambito dell’architettura costituzionale, v. Fulvio Troncone).

Ma siamo proprio sicuri che le degenerazioni cui si è assistito nell’ultimo periodo, in assenza di un percorso virtuoso nella direzione di un innalzamento dell’etica, verranno bandite completamente?

7. Nel rinviare per le modifiche che si intende introdurre in tema di valutazioni di professionalità alle osservazioni di Andrea Penta, quanto allo specifico profilo del ricorso ad uno psicologo (sul cui tema rimando alla nota a firma della Professoressa Barbara Segatto e alle osservazioni di Eugenia Italia), ricordo quando nel 2003 l’onorevole Silvio Berlusconi lanciò un’idea non troppo dissimile, definendo, in un’intervista al periodico britannico Spectator, i magistrati come “mentalmente disturbati”. Nel solco di questa esternazione, il Guardasigilli dell’epoca, Roberto Castelli, ipotizzò anche d’introdurre i test.

Non mi piacciono le preconcette “difese di categoria”. Il riconoscimento della delicatezza del ruolo svolto da un magistrato comporta che l’empatia e, soprattutto, la stabilità mentale siano di basilare importanza.

E’ il metodo che trovo sbagliato. Mi meraviglierei molto se lo squilibrio mentale di un collega emergesse solo in occasione delle valutazioni quadriennali di professionalità. Se veramente anomalie di carattere psichico significative esistessero, il capo dell’ufficio sarebbe tenuto a segnalarle a prescindere e senza attendere le dette valutazioni periodiche.

Ed ancora: perché allora non estendere l’ipotesi di utilizzare uno psicologo per selezionare il titolare di un importante incarico pubblico o introdurla per i titolari di un incarico pubblico elettivo, che pur svolgono funzioni altrettanto delicate?

Ed infine mi domando, ragionando per assurdo: e se all’esito della valutazione dello psicologo dovesse emergere che un magistrato versa in uno stato di forte stress determinato dall’eccessivo e non gestibile carico di lavoro che ha inciso sul suo equilibrio psico-fisico, il collega sottoposto a valutazione di professionalità potrebbe instaurare una causa risarcitoria contro il Ministero per ottenere il ristoro del pregiudizio in tal guisa patito?

7.1. Nel restituire una maggiore rilevanza all’anzianità quale indice sintomatico di esperienza nell’esercizio delle funzioni, si parte da un presupposto: che le varie valutazioni di professionalità siano state effettive e personalizzate. Un presupposto che, come l’esperienza ci insegna, è tutto (almeno allo stato) da dimostrare. E’ evidente, infatti, che, a parità (ma solo a parità) di valutazione di professionalità (reso sulla base dei diversi parametri da prendere in considerazione), un magistrato che abbia dimostrato di avere capacità e/o attitudini per un periodo più ampio debba essere preferito rispetto ad un altro che, pur ugualmente meritevole, lo abbia fatto per un periodo più ridotto.

8. Piero Calamandrei, nell’Elogio scritto da un avvocato, sosteneva che “Proprio per questo dovrebbero essere i giudici i più strenui difensori dell’avvocatura: poiché solo là dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici possono essere imparziali; solo dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici; e dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia”.

Non mi preoccupa la convivenza con gli avvocati, perché ritengo che la magistratura e l’avvocatura rappresentino due corpi indefettibili del sistema giustizia. Ciò che mi preoccupa è il rischio di strumentalizzazioni.

Molti interventi sul piano normativo determinerebbero di fatto anche un ampliamento delle aree dalle quali i professionisti (e, in primo luogo, gli avvocati) potrebbero attingere per ottenere incarichi, a detrimento delle sfere di competenza dei giudici, e, quindi, consentire ai primi il realizzo di maggiori entrate economiche. La scelta annida dentro di sé un recondito scopo propagandistico, ma non mi diffonderò sulla stessa. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 2, lettere e) (il quale prevede una semplificazione della procedura di negoziazione assistita, anche utilizzando un modello di convenzione elaborato dal Consiglio Nazionale Forense), f) (il quale consente, nell’ambito della procedura di negoziazione assistita, un’attività istruttoria con la necessaria partecipazione di tutti gli avvocati che assistono le parti coinvolte), g)-4) (il quale contempla una maggiorazione del compenso degli avvocati, in misura non inferiore al 30%, anche con riguardo al successivo giudizio, che abbiano fatto ricorso all’istruttoria stragiudiziale; per quanto, nel successivo n. 5, sia previsto, a mò di contraltare, che il compimento di abusi nell’attività di acquisizione delle dichiarazioni costituisca per l’avvocato grave illecito disciplinare), 9, lett. a) (che, nell’ambito delle controversie aventi ad oggetto lo scioglimento delle comunioni, prevede un obbligatorio procedimento di mediazione pregiudiziale innanzi ad un notaio o a un avvocato; nel qual caso la determinazione dei compensi da riconoscersi al professionista per l’espletamento di tale procedimento è rimessa ad un decreto ministeriale), 10, lett. g) (che, nell’ambito dei procedimenti di espropriazione immobiliare, prevede la delega, da parte del giudice dell’esecuzione, ad uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’art. 179-ter disp. att. c.p.c. della riscossione del prezzo e delle operazioni di distribuzione del ricavato).

Le disposizioni “pericolose” sono gli artt. 24, lett. a) (nella parte in cui prevede, nell’ambito dei procedimenti per la deliberazione dei posti direttivi, l’obbligo di sentire tra l’altro, sia pure con le modalità stabilite dal CSM, i rappresentanti dell’avvocatura) e 26.1., lett. a) (che introduce il diritto cd. di tribuna, vale a dire il diritto dei componenti non togati – avvocati e professori universitari – del consiglio giudiziario di assistere alle discussioni e deliberazioni relative alla formulazione di pareri sull’attività dei magistrati sotto il profilo della preparazione, della capacità tecnico-professionale, della laboriosità, della diligenza, dell’equilibrio nell’esercizio delle funzioni). Un conto è, infatti, acquisire preventivamente e per iscritto le motivate e dettagliate valutazioni del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel luogo dove il magistrato esercita le sue funzioni e, se non coincidente, anche del consiglio dell’ordine degli avvocati avente sede nel capoluogo del distretto (art. 15, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 25/2006), un altro conto è consentire una partecipazione (silenziosa?) dell’avvocatura. E ciò non in quanto vi siano scheletri negli armadi da nascondere, ma perché delle due l’una. Ma perché si percepirebbe inevitabilmente la mera presenza fisica dei componenti non togati come un segnale di sfiducia nei confronti della componente togata ed alla stregua di un “cavallo di Troia” fatto entrare con l’inganno nei sancta sanctorum dei consigli giudiziari.

9. Di un testo normativo, soprattutto se, come quello in esame, in fieri, è anche metodologicamente sbagliato porre in rilievo solo gli aspetti negativi, senza segnalare gli eventuali passaggi condivisibili.

Oltre a quelli già indicati in precedenza, meritano, a mio modo di vedere, di essere evidenziati i seguenti:

  1. la previsione di un termine non superiore a 60 giorni entro il quale la p.a., cui siano state richieste informazioni ai sensi dell’art. 213 c.p.c., deve trasmetterle o deve comunicare le ragioni del diniego (art. 11, lett. c; sul punto si rinvia alle osservazioni di Fabio Di Lorenzo);
  2. la previsione che i procedimenti per la deliberazione dei posti direttivi e semidirettivi siano tendenzialmente avviati ed istruiti secondo l’ordine temporale con cui i posti si sono resi vacanti (art. 24.1., lett. a);
  3. la previsione – finalizzata ad assicurare una continuità nello svolgimento dell’incarico – che le funzioni direttive e semidirettive possano essere conferite esclusivamente ai magistrati che, alla data della vacanza del posto messo a concorso, assicurino almeno 4 anni di servizio prima della data di collocamento a riposo (art. 24.1., lett. n);
  4. la previsione secondo cui il termine per i tramutamenti su domanda sia ridotto a tre anni per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione (art. 27.1., lett. g);
  5. la regolamentazione al passo coi tempi della disciplina dell’accesso in magistratura (art. 27; tema approfondito da Santi Bologna).

10. Concludo ringraziando tutti i colleghi che, ritagliando piccoli spazi di tempo in un periodo dell’anno in cui le energie psico-fisiche sono agli sgoccioli, hanno dato la loro disponibilità ad approfondire le questioni sottese al ddl in esame, dimostrando di nutrire la passione per il confronto dialettico, pur delusi per le pratiche distorte divenute di recente di dominio pubblico di cui l’intera magistratura deve fare severa autocritica.