Prime riflessioni sulla legge delega n. 155/2017 di riforma delle procedure concorsuali (di S. De Matteis)

La legge delega n. 155/2017 di riforma delle procedure concorsuali

di Stanislao De Matteis

SOMMARIO: 1.L’obiettivo gius-politico del legislatore delegante. –2.L’oggetto della delega. –3.La scomparsa del fallimento. –4.Il modello unico per l’accertamento dello stato di crisi o insolvenza. –5.Lo stato di crisi e di insolvenza. –6.Il tribunale delle procedure di insolvenza. –7.Le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi.-8.La procedura di liquidazione giudiziale. –9.Il concordato preventivo. –10.Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ed i piani di risanamento attestati. –11.-I gruppi di imprese. –12.Il sovraindebitamento. –13.Altre disposizioni

1.  L’obiettivo gius-politico del legislatore delegante

Costituisce un dato di comune di comune esperienza che ogni tentativo di superare la crisi ha un grado di successo direttamente proporzionale alla sua tempestività. La percezione immediata della situazione di difficoltà è, perciò, fondamentale per aumentare le probabilità di affrontarla con successo, permettendo all’impresa di ritornare in uno stato di normalità. E più grande è l’impresa maggiormente anticipato deve essere il tempo dell’allerta.

Per questa ragione, il debitore deve “poter procedere alla ristrutturazione in una fase precoce, non appena sia evidente che sussiste probabilità di insolvenza”  (par. III, lett. A, punto 6, lett. a, della Raccomandazione della Commissione UE n. 135 del 12.3.2014). L’obiettivo gius-politico di creare un quadro giuridico idoneo al risanamento dell’impresa  è ribadito nell’art. 4, n. 1, della proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di procedure di ristrutturazione e di insolvenza pubblicata il 22.11.2016, nel cui considerando n. 17 si osserva che gli Stati membri devono assicurare un regime di ristrutturazione disponibile prima che il debitore divenga insolvente secondo la normativa nazionale, perché l’insolvenza comporta normalmente la nomina di un liquidatore ed il totale spossessamento del debitore (cfr., inoltre, il considerando n. 1, 11 e 12 nonché par. I, punto 1).

Lo stesso Regolamento UE 2015/845 sottolinea (nel considerando n. 10) l’opportunità “di estendere l’ambito di applicazione del presente regolamento a procedure che promuovono il salvataggio delle società economicamente valide ma che si trovano in difficoltà economiche e che danno una seconda opportunità agli imprenditori”. Ma anche l’art. 1 precisa che “Laddove le procedure di cui al presente paragrafo possano essere avviate in situazioni in cui sussiste soltanto una probabilità di insolvenza, il loro scopo è quello di evitare l’insolvenza del debitore o la cessazione delle attività di quest’ultimo”.

Ormai da qualche anno, gli interventi normativi in ambito ‘concorsuale’ denotano, invero, una sempre più avvertita sensibilità del legislatore – nazionale e non – al tema della prevenzione della crisi di impresa (cd. l’early warning, definitivo nella proposta di Direttiva come il complesso degli strumenti che possono evidenziare l’avvio di un peggioramento delle performance dell’impresa e segnalare all’imprenditore la necessità di attivarsi con urgenza: art. 3, n. 1). La constatazione è importante perché permette di individuare dei modelli prevalenti che circolano in modo trasversale, anche al di là della nota classificazione dei sistemi giuridici come di civil law o di common law.

Grande attenzione è, perciò, dedicata dal legislatore delegante alle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, “di natura non giudiziale” e di carattere “confidenziale”  (art. 4, comma 1),  con cui è stato attuato il compito assegnato alla Commissione Rordorf dal decreto ministeriale istitutivo del 28.1.2015 di individuare, tra le altre, “misure idonee a incentivare l’emersione della crisi” (lett. c). Obiettivo della cui legittimità non è dato dubitare, essendo il nostro ordinamento, come quello francese, ispirato a quanto è prescritto nell’art. 41, commi 2 e 3, Cost. Non si comprende, perciò, il motivo per il quale sono state escluse dal campo di applicazione della procedura di allerta le società quotate in borsa o in altro mercato regolamentato e le grandi imprese come definite dalla normativa dell’Unione Europea (art. 4, lett. a).

2L’oggetto della delega

Con questo obiettivo, il Parlamento, sul finire della XVII legislatura, ha approvato, in via definitiva, la legge delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza.

In seguito allo stralcio dell’art. 15 del disegno di legge n. 3671 (riguardante l’amministrazione straordinaria), deliberato dall’Assemblea il 18.5.2016, il  disegno di legge, presentato al Parlamento l’11.3.2016 dal Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro dello Sviluppo Economico, ha assunto il n. 3671-bis e come titolo “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” in luogo di “Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”.  L’1.2.2017 l’Assemblea della Camera ha approvato il disegno di legge n. 3671bis-A, che delega il Governo a riformare – entro 12 mesi – la disciplina delle crisi d’impresa e dell’insolvenza (a quest’ultimo articolato si farà riferimento nel prosieguo del lavoro). Il testo, passato all’esame del Senato con il numero S. 2681, è stato approvato l’11.10.2017. La legge ha assunto il n. 155 del 19.10.2017 ed è stata pubblicata in GU il 30.10.2017.

Trattasi dell’ennesima riforma delle procedure concorsuali che, dopo una lunga stagione emergenziale iniziata con il decreto legge n. 35/2005, conv. con modifiche nella l. n. 80/2005 e culminata con il decreto legge n. 59/2016, conv. con modifiche nella l. n. 119/2016, immediatamente preceduto dal decreto legge 83/2015, conv. con modifiche nella l. n. 132/2015, sopraggiunto nel bel mezzo dei lavori della Commissione cd. Rordorf istituita con decreto del Ministro della Giustizia del 28.1.2015, dovrebbe essere destinata a disciplinare, in maniera più o meno organica, le procedure di insolvenza, sostituendosi alla “gloriosa” legge fallimentare del 1942  novellata nel 2006 (cfr. d.lgs. n. 5/2006) e 2007 (cfr. d.lgs. n. 169/2007).

Potranno, infatti, essere oggetto di riforma, con uno o più decreti legislativi, le procedure concorsuali disciplinate nell’attuale legge fallimentare (fallimento, concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti e liquidazione coatta amministrativa) e nella legge n. 3/2012 (accordo di ristrutturazione, piano del consumatore e liquidazione dei beni). In seguito allo stralcio innanzi indicato, solo la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi è fuori dall’oggetto della delega.   

D’altronde, l’esigenza di una risistemazione complessiva della materia concorsuale è oggi resa ancora più impellente dalle sollecitazioni provenienti dall’Unione europea e in particolare dalla Raccomandazione della Commissione UE n. 135 del 12.3.2014, oltre che dalla recente rifusione delle pertinenti disposizioni nel Regolamento UE 2015/845 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20.5.2015, relativo alle procedure di insolvenza. Né vanno trascurati i princìpi della model law, elaborati in tema di insolvenza dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL), cui hanno aderito molti Paesi anche in ambito extraeuropeo (tra cui gli Stati Uniti d’America).

3La scomparsa del fallimento

Il superamento della legge del 1942 è innanzitutto lessicale, proponendosi il legislatore di sostituire il termine “fallimento” con l’espressione “liquidazione giudiziale” (art. 2, lett. a). È evidente l’intenzione del legislatore, già palesata con la riforma del 2006/2007, di eliminare ogni valenza stigmatizzante nei confronti del debitore che storicamente a quella parola si accompagna.

Le più recenti legislazioni di civil law, ispirate da quelle di common law  (tradizionalmente debtor oriented), tendono infatti ad attenuare il carattere sanzionatorio delle procedure concorsuali, da un lato, perché è stata abbandonata la concezione in base alla quale l’impresa insolvente è necessariamente “una pianta malata nell’hortus dell’economia” e, dall’altro, perché la crisi è vista oggi come una situazione oggettiva di difficoltà in cui l’imprenditore si è venuto a trovare e non più come un fatto colpevole da sanzionare.

La stessa Comunicazione della Commissione COM (2007)584 del 5.10.2007 (“Superare la stigmatizzazione del fallimento aziendale – per una politica della seconda possibilità”, che si inseriva nella “attuazione del partenariato di Lisbona per la crescita e l’occupazione”) rilevava, sotto l’aspetto della prevenzione dell’insolvenza, che la stigmatizzazione del fallimento è uno dei motivi che inducono le imprese a nascondere le difficoltà anziché anticiparle per risolverle, mentre (all’opposto) è necessaria un’azione tempestiva per l’emersione e la risoluzione della crisi e che la ristrutturazione è in molti casi preferibile alla liquidazione.

Un diverso approccio lessicale può, quindi, meglio esprimere una nuova cultura del superamento dell’insolvenza, vista come evenienza fisiologica nel ciclo vitale di un’impresa, da prevenire ed eventualmente regolare nel modo migliore.

4Il modello unico per l’accertamento dello stato di crisi o insolvenza

Nonostante le differenti scelte dipolicyoperate da ciascun ordinamento e nonostante il peso delle rispettive tradizioni giuridiche, il punto centrale delle riforme è costituito dall’introduzione di strumenti di carattere preventivo dell’insolvenza (specie nel diritto francese) e dalla previsione (specie nel diritto tedesco e spagnolo) di una procedura unitaria di regolazione dell’insolvenza, che sostituisce le previgenti discipline di fallimento e concordato preventivo.

A tale ultimo riguardo, la legge delega di riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza prevede che sia adottato un unico e celere modello per l’accertamento dello stato di crisi e di insolvenza del debitore (art. 2, lett. d), quali che ne siano la natura (civile, professionale, agricola, commerciale), le dimensioni (piccola, media, grande) e la struttura (persone fisiche, persone giuridiche, gruppi di imprese, cooperative, associazioni, fondazioni, organizzazioni non lucrative di utilità sociale, enti ecclesiastici banche, assicurazioni, società partecipate pubbliche e società in house), con la sola esclusione degli enti pubblici, fatte salve le eventuali disposizioni speciali riguardanti l’una o l’altra di tali situazioni (art. 2, lett. e).

Si propone, pertanto, una sorta di reductio ad unum della fase iniziale delle diverse procedure concorsuali oggi esistenti, con l’istituzione di un unico procedimento di accertamento giudiziale della crisi e dell’insolvenza, destinato a costituire una sorta di “contenitore processuale” uniforme di tutte le iniziative di carattere giudiziale fondate sulla prospettazione della crisi o dell’insolvenza.

A fronte di un avvio processuale unitario, potranno corrispondere diversi esiti processuali: e così una pronuncia giudiziale che accerti lo stato di crisi  (o di insolvenza ) e che, al contempo, avvii un tentativo di superamento su basi negoziali; una pronuncia giudiziale  che accerti lo stato d’insolvenza e che, al contempo, apra la liquidazione giudiziale. Nel procedimento unitario, del quale dovrà essere assicurata la celerità (cfr. anche l’art. 2, lett. i, a proposito delle modalità di notifica dell’istanza dell’atto che dà inizio al procedimento di accertamento dello stato di crisi) anche e soprattutto nella fase di reclamo onde evitare che la decisione intervenga troppo tardi e senza effetti (per questo il delegante dispone che venga disciplinato anche il profilo dell’efficacia delle pronunce rese avverso i provvedimenti di apertura della procedura di liquidazione giudiziale ovvero di omologazione del concordato: art. 2, lett. d), dovranno confluire anche le domande contrapposte nonché quelle eventualmente proposte in via subordinata o alternativa dal debitore.

Diversamente da Spagna e Germania, quindi, all’iniziale fase unitaria seguirà uno sbocco che non è in grado di portare alternativamente al concordato o alla liquidazione. Si tratta, quindi, di una mera semplificazione dal punto di vista processuale (v. par. 4 della Relazione), anche se non manca chi ritiene che la disposizione di cui all’art. 2, lett. d), abbia tenore anche “sostanziale ed ordinamentale”

Ad ogni modo è bene rilevare che il problema della unicità/pluralità di procedimento ha carattere neutro rispetto alla finalità perseguita dall’intervento del legislatore, anche se il progressivo affermarsi di sistemi “neutrali” di soluzione della crisi, con conseguente riduzione della contrapposizione tra modelli pro debtors e modelli pro creditors, sta spingendo le legislazioni più recenti a prevedere un’unica procedura suscettibile di svolgersi secondo varie fasi alternative, con esiti differenti, a seconda della specifica caratteristica del caso concreto.

Stante la maggiore proattività del ruolo del collegio sindacale (cfr. anche art. 4, lett. c), si prevede che anche i soggetti con funzioni di controllo e vigilanza possano instaurare il procedimento per l’accertamento dello stato di crisi o insolvenza, allacciandosi la responsabilità di questi soggetti per ritardato accesso alla procedura concorsuale con l’attribuzione dell’effettivo potere di attivarsi in tal senso. Si prevede anche l’estensione della legittimazione del pubblico ministero in ogni caso in cui egli abbia notizia dell’esistenza di uno stato di insolvenza (art. 2, lett. d)  e, quindi, (si deve credere) anche al di fuori delle ipotesi attualmente previste dall’attuale art. 7 l.fall.; la legge delega, nel contesto delle procedure di allerta, amplia ulteriormente la legittimazione attiva del pubblico ministero (v. art. 4, lett. b).

Il centro degli interessi principali del debitore (o COMI, acronimo dell’inglese center of main interests), è il principale criterio di giurisdizione, oltre che di applicazione generale, utilizzato per l’apertura di procedure principali di insolvenza transfrontaliere aventi portata universale e comprensive di tutti i beni del debitore. Tale criterio viene utilizzato, in particolare, nel Regolamento (CE) n. 1346/2000 sulle procedure di insolvenza; nel Regolamento (UE) n. 2015/848, nonché nella legge modello sull’insolvenza transnazionale (“Model Law”) adottata dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL) nel 1997.

Con legge delega tale principio è destinato divenire anche criterio di competenza territoriale, al fine di ripartire in orizzontale il lavoro dei diversi tribunali nazionali (art. 2, lett. f).

5Lo stato di crisi e di insolvenza

Il legislatore delegante prevede, tra i principi generali, le necessità di introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come “probabilità di futura insolvenza” (art. 2, lett. c).

La definizione che il legislatore delegante si propone venga adottata è in linea con i lavori preparatori della riforma (si fa riferimento, in particolare, allo schema di d.d.l. elaborato dalla Commissione Trevisanato ministeriale istituita nel 2004, il cui art. 2, lett. h, espressamente definisce la crisi “come la situazione patrimoniale,  economica o finanziaria in cui si trova l’impresa, tale da determinare il rischio di insolvenza”, in un’accezione mutuata dalla legge tedesca, che pone l’accento sul pericolo di involuzione delle difficoltà dell’impresa tali da rischiare da degenerare in insolvenza), con la Raccomandazione della Commissione UE n. 135 del 12.3.2014, nel cui par. III, punto 6, lett. a), si legge che “il debitore dovrebbe poter procedere alla ristrutturazione in una fase precoce, non appena sia evidente che sussiste soltanto la probabilità dell’insolvenza”, con il Regolamento UE del 20.5.2015, nel cui art. 1 si legge che “Laddove le procedure di cui al presente paragrafo possano essere avviate in situazioni in cui sussiste soltanto una probabilità di insolvenza, il loro scopo è quello di evitare l’insolvenza del debitore o la cessazione delle attività di quest’ultimo” e con la proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di procedure di ristrutturazione e di insolvenza diffusa il 22.11.2016, il cui art. 4 precisa che “gli Stati membri provvedono affinché, qualora sussista una probabilità di insolvenza, il debitore in difficoltà finanziarie abbia accesso a un efficace quadro di ristrutturazione preventiva”.

Mancando una definizione normativa del concetto di “crisi” , si è voluto sottolineare che l’iniziativa del debitore non deve essere tardiva, ma neppure prematura, dovendosi, in ogni caso, assicurare all’imprenditore di pianificare (almeno in linea di principio) la prosecuzione dell’impresa nonostante la crisi, ossia nella prospettiva di un suo superamento, evitando che venga raggiunto il punto di non ritorno dell’insolvenza vera a propria, in termini di situazione irreversibile.

Occorre, infatti, evitare di ampliare troppo il requisito di accesso alla procedura in modo da evitarne un utilizzo improprio o esorbitante a favore di chi, pur vertendo in una situazione di difficoltà, non si trova ancora in condizioni tali da mettere a rischio nell’immediatezza la soddisfazione dei creditori e ciò per la capacità dell’imprenditore di superare la crisi con mezzi propri o autonomamente reperiti. Diversamente opinando si avrebbe una illecita lesione della concorrenza, in quanto il debitore otterrebbe un’abusiva falcidia dei debiti con pregiudizio dei debitori concorrenti che, invece, devono adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. L’aspetto è colto a livello europeo, essendosi sottolineato che, onde evitare abusi della procedura, è opportuno che le difficoltà finanziarie del debitore riflettano una probabilità di insolvenza (v. considerando n. 17 della proposta di Direttiva UE del 22.11.2016).

In definitiva, non risponde a criteri di proporzionalità e ragionevolezza l’attribuzione al debitore del potere di regolamentazione di attività di interesse generale ogniqualvolta non verta in una situazione che metta a rischio le probabilità di soddisfacimento delle proprie obbligazioni determinandosi, viceversa, una situazione di svantaggio competitivo per tutti coloro che sono tenuti ad onorare con impegno e sacrificio i propri debiti.

Ecco allora che l’accesso anticipato in procedura deve essere consentito – de minimis  – in caso di “probabilità di futura insolvenza” , di rischio insolvenza, ovvero di uno stato prodromico all’insolvenza, che, ad ogni modo, consente di anticipare l’apertura della procedura concorsuale rispetto alla manifestazione esterna della crisi. Si tratta, in definitiva, della prevedibile incapacità di adempiere le obbligazioni esistenti, ma non ancora scadute: il giudizio attuale dell’imprenditore è positivo, tuttavia la prognosi è negativa.

È, quindi, il legislatore ad indicare, da un lato, che crisi e insolvenza sono concetti diversi, superando l’ampia nozione di crisi contenuta nell’attuale comma 3 dell’art. 160 l.fall. che pone  tra le due fattispecie un rapporto di genus ad speciem, e, dall’altro, implicitamente a dare atto che l’insolvenza non sempre è  preceduta dalla crisi, ben potendo l’impotenza economica di far fronte alle proprie obbligazioni rivelarsi repentinamente senza una naturale progressione crisi vs. insolvenza.  Se, quindi, normalmente la crisi precede l’insolvenza (e non viceversa), può anche accadere che l’insolvenza non sia preannunciata da alcun sintomo della crisi come accade, ad esempio, in caso di distruzione accidentale dell’opificio industriale.

Rispetto al disegno di legge delega presentato al Parlamento l’11.3.2016 dal Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro dello Sviluppo Economico, la Camera dei Deputati ha precisato (con il testo approvato l’1.2.2017, poi confluito nella legge delega) che il legislatore delegato è tenuto a definire lo stato di crisi anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica. A tal proposito, l’art. 4, lett. h), nell’ambito delle procedure di allerta, precisa che i fondati indizi della crisi sono desumibili, in particolare, dal rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, dall’indice di rotazione dei crediti, dall’indice di rotazione del magazzino e dall’indice di liquidità.

Questi ultimi sono parametri tipici della forma societaria strutturata con bilanci; di qui la difficoltà del loro utilizzo nella generalità delle altre imprese.

Ad ogni modo, il richiamo alle riflessioni della scienza aziendalistica è da valutare favorevolmente, tenuto conto delle incertezze che da sempre caratterizzano la descrizione dello stato di crisi, anche se dovrà evitarsi, per quanto possibile, un’eccessiva estensione degli indici sintomatici, che se non correttamente intesi possono generare, come è stato già notato, “falsi positivi” in ordine alla ricorrenza della crisi d’impresa, con tutte le conseguenze in termini di pregiudizio per l’imprenditore

Le due nozioni di stato di crisi, quella giuridica e quella aziendalistica, sono comunque destinate ad integrarsi, pur dovendo riconoscersi prevalenza alla prima al fine di mantenere un’ordinata e più o meno fisiologica relazione progressiva con la nozione base di stato di insolvenza, che il legislatore delegante mostra di voler mantenere inalterata (v. art. 2, lett. c) nonostante sia abbastanza evidente l’opportunità di rivedere o ripensare la definizione contenuta nell’art. 5 l.fall. al fine di chiarire, per esempio, se c’è o meno distinzione fra stato di insolvenza e manifestazione di tale stato, se possa costituire (sempre o in certi casi) stato di insolvenza il semplice sbilancio fra attivo e passivo, etc.

6Il tribunale delle procedure di insolvenza

La legge delega (art. 2, lett. n) supera il criterio di competenza stabilito nell’art. 9 dell’attuale legge fallimentare, ai sensi del quale “Il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l’imprenditore ha la sede principale dell’impresa”.

Tale criterio, infatti, pur rispondendo ad un elementare principio di vicinanza, non è idoneo ad assicurare un’adeguata specializzazione dei giudici che si occupano delle procedure di insolvenza, specie nei tribunali di piccole dimensioni che hanno difficoltà a gestire la rilevante collegialità delle decisioni in materia e il regime di incompatibilità volto a garantire la terzietà del giudice.

La soluzione prescelta dalla legge delega è tripartita.

Si è deciso così di mantenere inalterato il criterio di competenza dell’art. 9 l.fall. solo per i soggetti interessati dalle procedure di sovraindebitamento: consumatori, professionisti e imprenditori non fallibili.

Le sezioni specializzate in materia di impresa istituite presso i tribunali e le corti di appello aventi sede nel capoluogo di ogni regione saranno, invece, competenti a gestire le procedure di insolvenza dei gruppi di imprese di rilevanti dimensioni nonché le procedure di amministrazione straordinaria.

Tutte le altre procedure saranno, viceversa, ripartite tra un numero ridotto di tribunali, dotati di una pianta organica adeguata, scelti in base a parametri oggettivi da individuare (numero dei magistrati addetti all’ufficio, numero delle imprese operanti nel circondario, flussi di procedure registrati negli ultimi anni). Tutto ciò, comunque, in concomitanza con l’emanazione di disposizioni volte ad assicurare un maggiore grado di effettiva specializzazione dei giudici comunque chiamati a occuparsi delle procedure anzidette.

Come notazione finale, si deve osservare che le sezioni specializzate di Tribunale e di Corte di Appello in materia di imprese istituite con l’art. 2 d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. con modif. in l. 24.3.2012, n. 27, esclusa ogni disciplina processuale speciale, sono connotate sul piano ordinamentale solo attraverso il blando richiamo ad una professionalità specifica dei loro componenti. Grandi passi avanti non sono compiuti dalla legge delega, che si limita a prevedere che sia assicurata “la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale” (art.  2, lett. m), lasciando in un cono d’ombra le modalità attraverso le quali assicurare l’invocata specializzazione, priva di adeguata aggettivazione.

Tutto ciò molto diversamente dalla legislazione francese, ove i membri del Tribunale di Commercio sono magistrati consolari scelti tra imprenditori o dirigenti di società per la loro esperienza professionale sia sul piano giuridico, sia sul piano economico, con conseguente gestione delle procedure più consapevole dal punto di vista delle esigenze dell’impresa. Questa caratteristica della magistratura del commercio, differente da quella degli altri Paesi, consente di riporre una maggiore fiducia nei sistemi di allerta e prevenzione nella risoluzione delle crisi d’impresa. 

In effetti, in Italia, l’autorità giudiziaria (allo stato attuale) difficilmente potrà assolvere al gravoso compito di sollecitare e persuadere l’impresa in crisi ad adottare le soluzioni più adeguate. Questa incombenza, infatti, è ben lontana dal ruolo classico dei magistrati, che (tradizionalmente) non risiede nell’immistione nella gestione, neppure sotto il profilo di sindacato sulla fattibilità economica (che la legge delega restituisce al giudice: art. 6, lett. f) o sul merito di congruenza delle scelte, riservato ai creditori, in quanto il giudice è carente di specializzazione e di competenze professionali, di strumenti tecnici per intervenire rapidamente, non essendo un operatore di mercato (terreno sul quale si misura la gestione), ma di procedimento.

Considerazione questa tanto diffusa da indurre il rapporto UNCITRAL elaborato dal quinto gruppo di lavoro a sottolineare che è frequente il pericolo che l’autorità giudiziaria sia priva dell’esperienza necessaria per valutare i comportamenti imprenditoriali nel periodo di crisi e tenda spesso erroneamente a compiere valutazioni ex post e non ex ante, che da un lato finiscono per aggravare la responsabilità degli organi di gestione e, dall’altro lato, hanno come inevitabile contropartita l’effetto di scoraggiare iniziative dirette al risanamento dell’impresa.

Per la verità, per ovviare ai descritti inconvenienti, basterebbe una diversa formazione ed un’adeguata specializzazione dei giudici addetti al settore della crisi di impresa, i quali, se a tempo debito fossero state introdotte le misure di allerta (si pensi all’esperienza della cd. Commissione Trevisanato), già si sarebbero calati nel “nuovo” ruolo evitando il rischio di risultare, a livello economico, un costo di transazione negativo. Conoscendo la giurisdizione ordinaria diverse ipotesi di partecipazione laica, si potrebbe anche pensare ad una composizione mista della sezione specializzata in materia di impresa  per la gestione delle procedure di allerta e per assolvere ad un compito che sarebbe tutt’altro che paternalistico, come talvolta pur si afferma, avendo il giudice (non solo l’autorità, ma anche e soprattutto) l’autorevolezza per persuadere l’imprenditore a vincere i perverse incentives  e a mettere in atto tutte le iniziative necessarie per tentare di superare la crisi.

7Le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi.-

Attraverso la previsione di procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, “di natura non giudiziale” e di carattere “confidenziale”  (art. 4, comma 1),  è stato attuato il compito assegnato alla Commissione Rordorf dal decreto ministeriale istitutivo del 28.1.2015 di individuare, tra le altre,“misure idonee a incentivare l’emersione della crisi” (lett. c). Obiettivo della cui legittimità non è dato dubitare, essendo il nostro ordinamento, come quello francese, ispirato a quanto è prescritto nell’art. 41, commi 2 e 3, Cost. Ed è proprio quest’ultima notazione a segnare la differenza rispetto ai sistemi anglosassone, spagnolo e tedesco.

Non si comprende, perciò, il motivo per il quale sono state escluse dal campo di applicazione della procedura di allerta le società quotate in borsa o in altro mercato regolamentato e le grandi imprese come definite dalla normativa dell’Unione Europea (art. 4, lett. a).

Tutta la procedura ruoterà intorno ad un apposito organismo da istituire presso ciascuna camera di commercio, al quale è attribuita la competenza per la gestione della fase preventiva di allerta e di composizione assistita della crisi (lett. b).

Il collegio dovrà essere composto da almeno tre esperti, di cui uno designato, tra gli iscritti all’albo di cui all’art. 2, comma 1, lett. o), dal presidente della sezione specializzata in materia di impresa del tribunale competente per il luogo in cui l’imprenditore ha sede, uno designato, tra gli iscritti al predetto albo, dalla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura e uno designato, tra gli iscritti al medesimo albo, da associazioni di categoria (art. 4, lett. b). Non è dato sapere, quindi, se l’apposito organismo da istituire presso le camere di commercio sarà in grado di assolvere ad una funzione che si ritiene fuori della portata dei giudici specializzati in materia concorsuale e delle imprese. Occorrerà, inoltre, verificare se gli organismi di composizione della crisi avranno l’autorevolezza  necessaria per assolvere alle impegnative incombenze che il legislatore pensa di attribuirgli.

Ciò si dovrebbe, comunque, imporre per il carattere (prevalentemente ed) inizialmente stragiudiziale della procedura di allerta italiana e si dovrebbe giustificare stante la peculiarità, nel contesto delle legislazioni occidentali, dei Presidenti dei Tribunali di Commercio che pure sono oggetto di critica e di proposte di riforma , ma che di certo non possono essere paragonati alle sezioni specializzate di Tribunale e di Corte di Appello in materia di imprese istituite con l’art. 2 d.l. 24.1.2012, n. 1, conv. con modif. in l. 24.3.2012, n. 27.

Solo qualora il collegio non individui misure idonee a superare la crisi e attesti lo stato di insolvenza, l’organismo ne darà notizia al pubblico ministero presso il tribunale del luogo in cui il debitore ha sede, ai fini del tempestivo accertamento dell’insolvenza medesima (art. 4, lett. b). La fase giudiziale, ovvero il possibile avvio del procedimento unitario per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza (art. 2, comma 1, lett. d), dipende, quindi, non solo dall’attestazione dello stato di insolvenza e della mancata adozione delle misure idonee a superare la crisi, ma anche e soprattutto dall’attivazione del pubblico ministero, la cui iniziativa è sempre eventuale non essendo obbligato dalla segnalazione dell’organismo.

Deve notarsi come l’art. 4, lett. b, contempli innanzitutto la possibilità per il debitore di adire direttamente l’organismo di composizione della crisi al fine di individuare – previa convocazione (anche dell’organo di controllo, ove esistente) e verifica della situazione patrimoniale, economica e finanziaria in essere – le misure idonee a porre rimedio allo stato di crisi (lett. e). E ciò nell’ottica di responsabilizzare chi, prima di tutti, è in grado di cogliere i segnali della crisi. La crisi, infatti, può anche non esteriorizzarsi, non divenendo conoscibile ai terzi e rimanendo nella stretta sfera dell’imprenditore. Sussiste qui un tipico caso di asimmetria informativa tra il debitore – che conosce la propria situazione e le ragionevoli prospettive di miglioramento o peggioramento – e i creditori, che proprio la condotta virtuosa del primo deve tendere a colmare non solo nell’interesse di questi ultimi, ma anche dell’impresa.

Al fine di stimolare l’imprenditore a chiedere l’apertura della procedura assistita di composizione della crisi è previsto, in disparte la protezione eventualmente accordata dal giudice (lett. g), che il legislatore delegato introduca delle misure premiali, sia di natura patrimoniale  sia in termini di responsabilità personale, per l’imprenditore che ricorra tempestivamente alla procedura (lett. h) . Per come è formulata la lett. h), le misure dovrebbero poter essere adottate tanto dagli organismi tanto dal giudice, secondo un criterio di ripartizione delle competenze che il legislatore delegato farebbe bene a stabilire in modo chiaro.

Bene ha fatto poi il delegante a stabilire, con molta precisione, le condizioni in presenza delle quali dovrebbero poter scattare le misure premiali, richiedendo che il debitore si attivi nel proporre l’istanza del debitore di cui alla lett. b), la domanda di concordato preventivo, il ricorso per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale e la richiesta di omologazione di un accordo di ristrutturazione entro “sei mesi dal verificarsi di determinati indici di natura finanziaria da individuare considerando, in particolare, il rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, l’indice di rotazione dei crediti, l’indice di rotazione del magazzino e l’indice di liquidità” (lett. h, in fine).

Non è, invece, più previsto che il legislatore delegato adotti misure sanzionatorie, ivi compresa l’introduzione di un’ulteriore fattispecie tipica di bancarotta semplice, per l’imprenditore che ingiustificatamente ostacoli la procedura o non vi ricorra, pur in presenza dei relativi presupposti.

La tecnica utilizzata rimane, però, quella “della carota e del bastone”, tanto più che l’art. 217, comma 1, n. 4, l.fall. impone all’imprenditore un obbligo di attivazione, in mancanza della quale l’aggravamento dell’insolvenza si risolve nel reato di bancarotta semplice.

La procedura contemplata dalle legge delega si differenzia, pertanto, da quella regolata dalla Commissione Trevisanato  per la sostanziale perdita del carattere della volontarietà prevedendosi specificamente degli incentivi (anche di carattere penale) per gli imprenditori che decidono di avvalersi delle procedure previste dalla legge in situazioni di crisi (o insolvenza). È questo una sorta di meccanismo di coazione indiretta, che (secondo le intenzioni del legislatore) dovrebbe dare i suoi frutti “eticizzando” il ruolo del debitore spingendolo verso la salvaguardia dell’impresa, piuttosto che verso la sua dissoluzione attraverso comportamenti troppo rischiosi.

L’allerta prevista dalla lett. c) è attivabile dall’interno della società ed è disciplinata molto similmente dell’istituto dell’allerta cd. interna ad opera dei commissaires aux comptes del sistema francese. La differenza sta nel fatto che quella italiana è strutturata (diversamente da quella francese che prevede tre fasi) su una (eventuale) doppia fase e si conclude, in caso di omessa o inadeguata risposta degli amministratori, con l’informativa da parte dell’organo di controllo all’organismo di composizione della crisi (e non al Presidente del Tribunale del Commercio) e, dunque, ad un organismo non giudiziario.

L’obbligo di allerta posto in capo all’organo di controllo è in linea con quanto previsto dall’art. 2406 c.c., a tenore del quale il collegio sindacale, previa comunicazione al presidente del consiglio di amministrazione, può convocare esso stesso l’assemblea qualora nell’espletamento del suo incarico ravvisi “fatti censurabili di rilevante gravità” e vi sia urgente necessità di provvedere.

Avvenuta la segnalazione all’organo amministrativo e all’organismo di cui alla lett. b), la legge delega prevede un’esenzione dalla responsabilità “solidale dei sindaci con gli amministratori per le conseguenze pregiudizievoli dei fatti o delle omissioni successivi alla predetta segnalazione” (lett. f). Nell’incentivo si annida, però, il pericolo di una segnalazione troppo anticipata con la finalità di evitare eventuali responsabilità. Solo la sapiente discrezionalità dell’organo di controllo e la consapevolezza del delicatissimo incarico ricoperto saranno in grado di scongiurare segnalazioni avventate e strumentali.

Il (pre)requisito per l’attivazione della procedura di allerta interna è costituito dall’esistenza “di fondati indizi della crisi” (lett. c): trattasi dell’introduzione della nozione del cd. “rischio di crisi” come presupposto oggettivo.

Per “stato di crisi” si deve intendere la “probabilità di futura insolvenza” (art. 2, comma 1, lett. c), che il delegato è tenuto a definire anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica. A tal proposito, la lett. h), espressamente richiamata dalla lett. c), precisa che i fondati indizi della crisi sono desumibili, in particolare, dal rapporto tra mezzi propri e mezzi di terzi, dall’indice di rotazione dei crediti, dall’indice di rotazione del magazzino e dall’indice di liquidità.

La lett. d), prevede un’allerta esterna, già presente nei testi elaborati dalla Commissione Trevisanato nel 2003  e nel 2004.

È chiara l’intenzione del legislatore di attribuire alle pubbliche amministrazioni, statali, territoriali e autonome , il compito di effettuare segnalazioni in ordine ai mancati pagamenti  di crediti pubblici di “importo rilevante”, previsione che assume una significativa portata sol che si pensi all’abitudine dell’imprenditore medio di iniziare a non pagare con regolarità quegli enti che per la loro struttura possiedono una capacità di reazione meno efficace in termini di rapidità. È noto, peraltro, che molto spesso talune categorie di imprese ricorrono sistematicamente, come mezzo di auto-finanziamento, all’omissione dei pagamenti nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

Per evitare che l’obbligo di segnalazione da parte della pubblica amministrazione divenga una norma senza “sanzione”, è prevista, in difetto, l’inefficacia dei privilegi accordati ai crediti di cui sono titolari o per i quali procedono (lett. d). In tale ipotesi potrebbe ipotizzarsi la responsabilità civile del funzionario per i danni arrecati da quantificare in base all’importo del credito che avrebbe trovato (laddove fosse stato trattato come privilegiato) utile collocazione nel successivo fallimento (recte, liquidazione giudiziale), ma (perché no?) anche in uno strumento di regolazione concordata della crisi d’impresa.

Il destinatario della segnalazione proveniente dai creditori qualificati è l’organo di controllo e, in ogni caso, l’organismo di composizione della crisi istituito presso la camera di commercio.

Ma prima della segnalazione, il creditore pubblico qualificato deve opportunamente dare immediato avviso al debitore che la sua esposizione debitoria ha superato “l’importo rilevante” e che effettuerà la segnalazione agli organi di controllo della società e all’organismo di cui alla lett. b), se entro i successivi tre mesi il debitore non avrà attivato il procedimento di composizione assistita della crisi o non avrà estinto il debito o non abbia raggiunto un accordo con il creditore pubblico qualificato o non avrà chiesto l’ammissione ad una procedura concorsuale. Il creditore pubblico deve, cioè, mettere il debitore in condizione di evitare la segnalazione.

L’organo di controllo che ha ricevuto la segnalazione è tenuto a comportarsi come innanzi indicato. Deve, cioè, avvisare immediatamente l’organo amministrativo e, in caso di omessa o inadeguata risposta, informare tempestivamente l’organismo di composizione della crisi.

La lett. b) prevede che la procedura di allerta (non giudiziale) sia gestita dall’organismo di composizione della crisi appositamente istituito presso la camera di commercio, che (si ripete) si frappone tra chi effettua la segnalazione e l’autorità giudiziaria (sub specie  pubblico ministero), con evidente accentuazione del carattere privatistico della procedura. L’organismo – ricevuta la segnalazione da parte dell’organo di controllo ovvero di un creditore qualificato o, comunque, direttamente su istanza del debitore – è tenuto, infatti, a disporre, senza indugio, l’audizione riservata e confidenziale del debitore e (ove esistente) dell’organo di controllo della società, al fine di conoscere le iniziative assunte e le soluzioni allo studio per porre rimedio allo stato di crisi ed a tutela dei creditori (lett. e).

Resta da chiarire se il “gestore della crisi”, come il presidente del Tribunale di Commercio, abbia il potere di suggerire soluzioni, anche non giuridiche, per il superamento della crisi di impresa. Stando al tenore della lett. e), sembra proprio di sì, prevedendosi che la convocazione abbia come finalità di individuare “nel più breve tempo possibile, previa verifica della situazione patrimoniale, economica e finanziaria esistente, le misure idonee a porre rimedio allo stato di crisi”.

Non è invece, più prevista la possibilità che l’organismo di composizione della crisi affidi ad un mediatore l’incarico di addivenire ad una soluzione concordata della crisi tra debitore e creditori, entro un congruo termine prorogabile, ma non superiore a mesi sei. Si tratta(va) qui di un esperto facilitatore  e non di un giudice facilitatore pur essendo questa figura non ignota alla legislazione di un numero crescente di paesi. Essendo necessaria l’istanza del debitore, era abbastanza chiaro come il legislatore italiano avesse immaginato una procedura preventiva di tipo esclusivamente volontario, il che la rende(va) molto diversa dalla conciliation introdotta in Francia con la Loi de sauvegarde des entreprises 845/2005 del 26.7.2005, in vigore dall’1.1.2006, ma molto simile all’allerta francese ad iniziativa del presidente del Tribunale di Commercio, il quale, solo su istanza del debitore, può nominare un mandatario di giustizia.

È confermata, invece, la rimessione ai decreti delegati dell’individuazione delle condizioni in base alle quali gli atti istruttori della procedura possono essere utilizzati nell’eventuale fase giudiziale. Non dovrebbe, quindi, trattarsi mai di atti “fine a se stessi”.

La legge delega espressamente prevede che all’organismo di composizione della crisi sia attribuito dai decreti delegati un congruo termine (in ogni caso non superiore a mesi sei) entro il quale addivenire ad una soluzione della crisi concordata tra il debitore e i creditori, prorogabile una sola volta a fronte di un positivo riscontro  delle trattative.

Il pubblico ministero dovrà essere notiziato dall’organismo qualora il collegio, non avendo individuato le misure idonee a superare la crisi, abbia attestato lo stato di insolvenza. Ovviamente analoga notizia dovrà essere data nel caso in cui, sussistendo lo stato di insolvenza, il debitore abbia disertato l’invito a comparire.

I creditori qualificati di cui alla lett. d), invece, devono essere in ogni caso avvisati della proposizione da parte del debitore dell’istanza di accesso alla procedura di allerta. Il che appare (solo) apparentemente incomprensibile. La lett. i) prevede, infatti, da un lato che il creditore qualificato, ricevuta la comunicazione, sospenda la segnalazione in attesa della comunicazione da parte dell’organismo della conclusione del procedimento innanzi ad esso e, dall’altro, che la effettui qualora il debitore, prima della scadenza del termine adeguatamente contenuto decorrente dalla data di ricezione della predetta comunicazione o da quando sono decorsi sei mesi dalla data di presentazione dell’istanza di cui alla lettera b), non abbia avviato la procedura di composizione assistita della crisi o non abbia estinto il debito o non abbia raggiunto un accordo con il creditore pubblico qualificato o non abbia chiesto l’ammissione ad una procedura concorsuale.

Al fine di rendere più appetibile ed efficace la procedura di allerta, è  prevista – su istanza del debitore che abbia attivato la procedura o che sia stato comunque convocato dall’organismo – la possibilità che la “sezione specializzata in materia di impresa” con decreto, previa audizione delle parti interessate (e, quindi, anche dei creditori), conceda delle misure protettive necessarie per condurre a termine le trattative in corso (lett. g).  A tal fine, il debitore è tenuto ad allegare e adeguatamente provare che sono in atto negoziati con i creditori. 

La disciplina di tali provvedimenti è rimessa ai decreti delegati, i quali dovranno stabilire durata, effetti, regime di pubblicità , competenza ad emetterli e revocabilità, anche d’ufficio in caso di atti in frode ai creditori o quando il collegio di esperti di cui alla lett. b) riferisce che non vi è possibilità di addivenire ad una soluzione concordata della crisi o che non vi sono significativi progressi nell’attuazione delle misure idonee a superare la crisi medesima (lett. g).

Al legislatore delegato è rimessa inoltre l’eventuale disciplina dell’impugnazione.

È auspicabile che il Governo, nell’esercizio della delega, assicuri gli effetti dei provvedimenti per tutta la durata del procedimento senza soluzione di continuità anche nel caso in cui l’imprenditore sia ammesso alla procedura concordataria, ovvero presenti domanda di omologazione di accordo di ristrutturazione anche con intermediari finanziari, ovvero sia aperta una procedura di liquidazione giudiziale, anche su istanza dello stesso debitore.

Quanto al procedimento, è invece espressamente stabilito che le misure vengano concesse “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”. In questa prospettiva, si deve procedere normalmente previa instaurazione del contraddittorio; del resto non vi è alcuna controindicazione all’attivazione del contradditorio, essendo i creditori già informati della situazione stanti le trattative in corso.

Quanto al contenuto, si tratta di misure particolarmente incisive che, avendo la finalità di salvaguardare il patrimonio del debitore da iniziative sparse dei creditori, possono disporre (strumentalmente all’esaurimento delle trattative in corso ) il divieto, a carico dei creditori per titolo e causa anteriore alla pubblicazione del ricorso, di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore e sui beni facenti parte dell’impresa nonché di acquisire titoli di prelazione, a pena di nullità degli atti compiuti in violazione del divieto, a far data dalla pubblicazione nel registro delle imprese. Nemmeno è esclusa la possibilità di ordinare la sospensione dei contratti pendenti.

Tra le misure protettive occorre anche ricordare “la possibilità di sospensione dell’operatività della causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, n. 4 ed all’articolo 2545-duodecies, nonché degli obblighi posti a carico degli organi sociali dagli articoli 2446, secondo e terzo comma, 2447, 2482-bis, quarto, quinto e sesto comma, 2482-ter e 2486…” (art. 14, comma 1, lett. d).

Nel complesso si tratta di previsioni che sicuramente favoriranno la diffusione e la tempestività dell’utilizzo delle misure di allerta.

Si è, infine, già detto che con i decreti delegati, al fine di ulteriormente incentivare il successo della procedura di allerta, dovranno essere introdotte misure premiali per l’imprenditore che ricorra tempestivamente alla procedura (lett. h). 

8La procedura di liquidazione giudiziale

La nuova procedura di liquidazione giudiziale non stravolge del tutto il precedente sistema concorsuale, ma ha il merito di innovare l’assetto preesistente a cominciare dalle funzioni e dai poteri attribuiti al curatore, prevedendo una riscrittura della norma, integrando innanzitutto la disciplina delle incompatibilità “tra gli incarichi assunti nel succedersi delle procedure”.

Al riguardo, è ancor vivo il contrasto, tutt’ora esistente, in merito all’interpretazione della norma introdotta con il d.l. n. 83/2015 che aveva inizialmente previsto, tra le cause di incompatibilità, la nomina a curatore di colui che avesse svolto la funzione di Commissario Giudiziale nell’ambito della stessa procedura. Disposizione poi sostanzialmente soppressa dalla conversione in legge di detto decreto con una formulazione, però, poco lineare che ha indotto a ritenere (stante anche la non corretta stesura del testo coordinato riportato in Gazzetta Ufficiale) l’incompatibilità ancora sussistente.

Altro tema sviluppato attiene i riconosciuti poteri di accertamento e di accesso a banche dati che, a ben vedere, rappresenta una ulteriore codificazione della disposizione già esistente, e scarsamente applicata, dell’art. 155-sexiesdisp.att. c.p.c. che prevede, nell’ottica della ricostruzione dell’attivo e del passivo all’interno delle procedure concorsuali, la possibilità per il curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, di avvalersi delle regole dettate in materia di ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare.

In maniera incidentale rispetto alle formulazioni attinenti i poteri del curatore viene conferita delega per una maggiore specificazione del contenuto minimo del programma di liquidazione che, a ben vedere, risulta già specificato al comma 2 dell’art. 104terl.fall. 

Indicazione che sembra collegarsi all’unico vero elemento di novità che si rinviene nel rafforzamento dei poteri del curatore il quale, munito delle necessarie autorizzazioni, in esecuzione di quanto sancito nel programma di liquidazione, potrà compiere tutti gli atti che riguardano l’organizzazione e la struttura finanziaria della società, interloquendo con soci e creditori, attuando anche sistemi di tutela degli stessi.

Una norma che sembra attingere in forma sparsa al dettato dell’esercizio provvisorio, a quello della relazione periodica ed al concordato preventivo, e che attribuisce al provvedimento di approvazione del programma di liquidazione il compito di segnare la conclusione della vera e propria fase giudiziale della procedura.

Sicché, così ridisegnata la disciplina, una volta approvato il programma, il Curatore dovrebbe godere di una certa autonomia ( nei limiti delle linee guida di quanto previsto e conformemente a quanto disposto in caso di esercizio provvisorio autorizzato) dando concreta esecuzione al piano ( quasi ad evocare la fase successiva all’omologazione del concordato preventivo) e lasciando al giudice un potere di intervento in caso di risoluzione di contrasti in ordine alla liquidazione programmata; tutto ciò innestando una informativa a soci e creditori, come del resto oggi già previsto dall’art. 33, ult. comma, l.fall.

Infine, incidentalmente, viene individuata una migliore specificazione dei poteri di purgazioneexart. 108 l.fall. qualora il Curatore subentri nel contratto preliminare di vendita.

Con una laconica disposizione il legislatore della riforma sembra prendere atto del mancato decollo dell’operatività di tale organo sul quale molto il primo intervento riformatore del 2006 aveva puntato. Così prevedendo, seppur con riferimento alle gestioni meno complesse, un ” ritorno al passato”, sfruttando il canale telematico di consultazione dell’intero ceto creditorio in luogo dell’organo di essi rappresentativo, e facendo rivivere il tramontato criterio del ” silenzio-assenso”.

Quanto alle esecuzioni speciali, alle revocatorie, ai rapporti pendenti e a quelli di lavoro subordinato, non si è trattato di una vera rivoluzione, riconoscendo al redattore solo il merito di aver prestato attenzione a separate problematiche e di aver rivisitato tutto il tessuto normativo al fine di renderlo più trasparente e chiaro.

In primo luogo viene prevista l’abolizione del c.d. “privilegio processuale” attribuito soprattutto al creditore fondiario, che troppo spesso, in omaggio ad una riconosciuta e non del tutto motivata tutela, aveva creato problemi applicativi e contenzioso. L’abolizione, seppur graduale di tali forme oramai desuete, aiuterà di certo ad eliminare contrasti.

Miglior specificazione la norma impone per la disciplina delle azioni di inefficacia e/o di revocatoria prevedendo la decorrenza del periodo c.d. sospetto dal deposito della domanda cui sia seguita l’apertura della liquidazione giudiziale.

In tema non si rinviene nessun elemento di grande innovazione in presenza della norma già vigente, anche richiamata, dell’art. 69 bis l.fall.

Quanto ai “rapporti pendenti”, interessante è la limitazione della  prededuzione ai soli crediti maturati in corso di procedura, probabilmente da applicare anche ai rapporti ad esecuzione continuata o periodica  (a meno che l’inciso “salva diversa previsione normativa” non voglia comunque salvaguardare alcuni specifici casi). Così favorendo l’autonomia del Curatore nelle scelte gestionali ed evitando che il subentro in alcuni contratti essenziali sia condizionato dalla presenza di una pregressa morosità.  

Si è, inoltre, ipotizzato di introdurre per i contratti caratterizzati da intuitus personae una norma già esistente in materia di appalti pubblici ex art. 81, comma 2, l.fall., prevedendo un disciplinare, da definire, per i contratti preliminari, soprattutto con riferimento agli immobili da costruire stante le peculiari esigenze di tutela dei promissari acquirenti.

Da apprezzare, infine, l’intento di coordinamento della normativa concorsuale con la legislazione vigente in materia di lavoro con una disposizione tutta da riempire.

In un’ottica di ulteriore potenziamento e miglior specificazione viene ora prevista la legittimazione del curatore a promuovere o proseguire specifiche azioni giudiziali per tutte le società di capitali: dall’azione sociale di responsabilità, all’azione dei creditori sociali (art. 2394 c.c.), all’azione contro i soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società (art. 2476, comma 7, c.c.), alle azioni di responsabilità verso società o enti che esercitano attività di direzione e coordinamento di società (art. 2497 c.c.).

Non sfugge l’intento della riforma che è quello di integrare e coordinare in maniera definitiva il diritto societario con quello concorsuale.

Per le società di persone viene poi prevista l’applicabilità dell’azione anche al socio amministratore eventualmente non attinto dall’estensione del fallimento, così recuperando in capo a quest’ultimo il profilo della responsabilità eventualmente sfuggito in sede dichiarativa.

Particolare attenzione anche nel corso dei lavori preparatori è stata dedicata alla fase dell’accertamento dello stato passivo, e, nel corso dell’iter formativo, è stata addirittura caldeggiata l’ipotesi di attribuire al curatore il compito di formare lo stato passivo con riserva di intervento del giudice nella fase delle successive contestazioni ( adottando il sistema già in uso in altre procedure anche minori).

Soluzione ritenuta evidentemente troppo spinta e pertanto abbandonata, dando invece ingresso a nuove disposizioni finalizzate ad un maggior efficientamento in termini di rapidità e snellezza.

Le linee direttive, che andranno ovviamente meglio articolate dal legislatore delegato, rimandano ad un utilizzo telematico ( sistema, per vero, non nuovo e che già costituisce la regola) nella presentazione delle domande tempestive, con un non meglio precisato “restringimento” delle domande tardive (anch’esse già calmierate con il sistema dell’ultratardività).

Per quanto è dato intendere, anche dalla lettura del percorso formativo della norma, l’agevolazione potrebbe essere intesa in termini temporali prevedendo un termine più ampio rispetto a quello attuale di trenta giorni; parallelamente, il restringimento dovrebbe riguardare le domande definite “ultratardive” e la casistica della prova da parte del creditore del ritardo non colpevole.

Di non agevole comprensione è anche la previsione di “forme semplificate” per le “domande di minor valore o complessità” per la quale si attenderanno migliori esplicitazioni.

Ulteriori condivisibili disposizioni mirano poi ad armonizzare il sistema della verifica del passivo affermando il carattere sommario del procedimento con preclusioni attenuate, introducendo la tutela delle posizioni di chi vanta diritti reali immobiliari, valorizzando la particolare posizione del debitore terzo datore di ipoteca, ed infine prevedendo l’attrazione al foro concorsuale della fase di accertamento dei crediti opposti in compensazione.

Da ultimo si mira anche ad un auspicabile adeguamento dei criteri di calcolo degli interessi civilistici di cui agli artt. 55 l.fall. e 2855 c.c., oggi obiettivamente eccessivamente complesso.

Altro tema toccato, di grossa attualità e già fatto oggetto di profonde e radicali modifiche, è il sistema della liquidazione dell’attivo che resta sostanzialmente ancorato al precetto di cui all’art. 107 l.fall. della c.d. “procedura competitiva”.

Fermo, indiscusso e sostanzialmente riaffermato il principio inteso ad applicare all’intera gestione della liquidazione la massima vigilanza, trasparenza e pubblicità, il criterio di delega prevede un nuovo concetto di competitività basato su tre misure fondamentali che possono essere così riassunte:

  • l’introduzione di un mercato nazionale telematico unificato dei beni da vendere nella procedura,
  • la possibilità di acquisto di tali beni da parte dei creditori, appositamente abilitati, su tale mercato;
  • l’istituzione di uno o più fondi per la gestione dei beni invenduti.

Si tratta, in buona sostanza, di dare applicazione codicistica ad un sistema di vendita dei beni che prende spunto dalle iniziative messe in campo dagli operatori specializzati del settore (soprattutto immobiliare) e che armonizza le esigenze di trasparenza, competitività e maggior soddisfazione dei creditori.

E’ nient’altro, quindi, che l’applicazione del c.d. sistema Common, già delineato dalla Commissione Ministeriale del 04 agosto 2014, che prevede, prefigurando di fatto una sorta di “borsa dei fallimenti”, la creazione di un mercato telematico unificato a livello nazionale (market place) caratterizzato dalla presenza di tutti i beni ed assets delle procedure concorsuali e che funge da vera e propria piattaforma di formazione dei prezzi, i quali si realizzeranno con meccanismi d’asta differenziati, così ampliando la platea dei potenziali interessati acquirenti (ferma restando, a disposizione immutata dell’art. 107 l.fall., la necessità di formazione preventiva del valore di stima da parte di operatori esperti).

Su detto mercato i beni potranno essere acquisiti, oltre che con il tradizionale metodo del danaro, con appositi titoli incorporanti il diritto speciale (una sorta di voucher, denominato appunto “common”) attribuito ai quei creditori cui un ente certificato terzo abbia riconosciuto la concreta possibilità di soddisfazione ( sulla base di un valore prudenziale e degli attivi più agevolmente vendibili).

Quale fenomeno residuale viene, infine, prevista l’istituzione di un fondo nel quale vengono conferiti i beni rimasti invenduti in attesa, si ritiene, di una nuova valorizzazione e modalità di cessione. 

Quel che non è stato previsto in materia di accertamento del passivo viene riproposto in tema di riparto affidando l’intera fase di attribuzione delle somme al Curatore, fatto salvo l’intervento giudiziale in caso di opposizioni.

Disposizione da salutare con favore ma che potrebbe portare maggiori frutti se si eliminasse quel sistema di “costrizione alla lite” oggi imposto dalla presenza del reclamo ex art. 36 L.Fall., facendo rivivere il tramontato regime delle “osservazioni”.

Con il dichiarato fine di accelerare la chiusura della procedura vengono, infine, dettate una serie di regole conseguenti alla recente introduzione dell’art. 118, comma 3, l.fall. che null’altro sono che la riproposizione codicistica delle prassi virtuose formatesi a seguito delle prime applicazioni della norma.

In primo luogo si definisce il perimetro dei “giudizi in corso” all’interno dei quali vengono fatte confluire tutte le liti, e quindi anche le azioni a seguito delle quali sorgerà un diritto alla reintegra dei beni ( per le quali si era dubitato dell’applicazione in considerazione di una nuova fase di liquidazione da attuare).

Viene confermata la legittimazione processuale del curatore nei detti giudizi, prevedendo, come già concretamente applicato, che nel decreto di chiusura debbano essere disposte le modalità di rendiconto, di riparto supplementare, di determinazione del compenso ulteriore al Curatore ed il mantenimento in vita della partita IVA.

Al legislatore della delega il compito di definire il perimetro applicativo risolvendo anche i primi contrasti applicativi in ordine, in particolare, alle modalità di esecuzione dei riparti ed alla quantificazione del compenso ulteriore.

Resta la previsione, tra le modalità di chiusura della procedura di liquidazione, di quello che attualmente è il concordato fallimentare, per il quale è prevista l’incentivazione con proposizione da parte sia dei creditori che di terzi.

La legittimazione viene estesa anche al debitore alla medesima condizione imposta per i concordati liquidatori, vale a dire l’apporto di ulteriori risorse ( la cui entità non risulta però specificata).

A tal proposito merita notazione l’abrogazione della previsione introdotta nel corso dei lavori del divieto di accesso nei casi in cui il debitore aveva già fatto ricorso alla procedura di concordato preventivo.

Un ulteriore principio è volto a prevedere misure per garantire l’accesso e la partecipazione dell’insolvente ad ogni fase della procedura con disposizione forse ultronea considerata la piena tutela riconosciuta anche nel testo vigente all’insolvente dall’ art. 90 l.fall. 

La Legge delega, con una riscrittura sintetica, ma piena di novità, si occupa inoltre dell’esdebitazione, innovando sull’attuale regime regolato agli artt. 142 e ss. l.fall.

Introdotta per la prima volta con la novella del 2006, quale recepimento di norma già presente in altri ordinamenti, rappresenta una misura premiale finalizzata a tutelare la posizione di garanzia dell’insolvente e la sua ripresa.  L’attuale sistema prevede un accesso limitato alle sole persone fisiche ed ai soci illimitatamente responsabili, ma alla sola condizione della chiusura della procedura e del pagamento almeno parziale dei creditori.

Prendendo le mosse dalla Raccomandazione 2014/135/UE, l’intervento riformatore ha il pregio di estendere il beneficio prevedendo, in primo luogo, per le insolvenze di minor portata, la possibilità di un’esdebitazione di diritto – quindi senza apposita pronuncia giudiziale- conseguente alla chiusura della procedura di liquidazione giudiziale, con salvezza per i creditori di opposizione e successivo intervento giudiziale.

Diversamente, per le insolvenze maggiori ( e qui andrà individuato il parametro dimensionale), l’esdebitazione è formulata su istanza di parte rivolta al giudice chiamato a provvedervi.

Il vero elemento di novità è qui costituito dalla possibilità di richiedere l’esdebitazione non solo dopo la chiusura immediata della procedura, ma anche a liquidazione in corso e senza che sia ancora intervenuto il pagamento, anche parziale, dei creditori.

La legittimazione resta però subordinata alla duplice condizione che siano decorsi almeno tre anni dall’apertura del concorso e che non si rinvengano atti di frode e malafede in presenza, tra l’altro, di un atteggiamento collaborativo del debitore.

La ratio della norma, nel riconoscere che le procedure più complesse possano non trovare compimento nei tre anni, favorisce l’anticipata fruizione del beneficio, pur ponendo a carico del debitore gli oneri della buona condotta e dell’assenza di atti di frode onde evitare che ne risultino avvantaggiati gli imprenditori disonesti.

Quanto ai soggetti viene esteso l’ambito di applicazione fino a ricomprendere anche gli organismi collettivi, siano essi società di capitali o di persone,  dovendosi in tal caso i requisiti di meritevolezza riferire, rispettivamente, agli amministratori ed ai soci.

Sicché, di fatto, considerato che la liquidazione giudiziale è destinata a regolare qualunque insolvenza, l’istituto andrà esteso a tutti i soggetti, ovvero persone fisiche, imprenditori non commerciali, piccoli imprenditori al di sotto delle soglie dimensionali, imprenditori individuali e società.

9Il concordato preventivo

I principi dettati in argomento presentano, da un lato, significative e condivisibili innovazioni nate sul solco della giurisprudenza formatasi e delle prassi virtuose e, dall’altro, un evidente arretramento dell’autonomia negoziale delle parti inteso a ridare rinnovato vigore al ruolo del tribunale e degli organi di giustizia, in uno  al riconoscimento della centralità dell’organo di controllo societario.

Ed è proprio in forza della rinnovata centralità dell’organo giudiziario che l’art. 6, lett. f, attribuisce al tribunale “poteri di verifica in ordine alla fattibilità economica dello stesso”, con ciò disattendendo lo spirito dell’originaria riforma nettamente improntata all’autonomia delle parti.

Ma forse, a ben vedere, non del tutto irragionevole se sol si considera che la fase di autonomia negoziale avrebbe già trovato piena espressione nell’ambito delle anticipate procedure di allerta.   

Direttiva, tra l’altro, già sottesamente preannunciata con l’ultimo intervento riformatore che, nel prevedere la soglia minima del 20% nel concordato liquidatorio, aveva, in buona sostanza, riconosciuto nella valutazione giudiziale l’importante aspetto della componente economica della fattibilità, come prodromica al presupposto di ammissibilità.

E dunque, la disposizione ha l’effetto, da un canto, di affermare l’ampliato ruolo del tribunale – troppo spesso relegato a mera funzione notarile – attribuendogli pieni poteri di intervento anche in ordine al merito del piano, e dall’altro quello di eliminare in radice il contenzioso che spesso si era generato in ordine ai limiti del potere di sindacato del tribunale. 

Resta il ragionevole dubbio se, stante il richiamo dell’ultimo capoverso “tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”, la fattibilità economica possa essere indagata anche in occasione del vaglio di apertura della procedura, o, piuttosto, solo nella successiva fase concordataria ( perché solo questo sarebbe il momento in cui si potrebbe tener conto dei rilievi dell’organo commissariale – a meno di voler ritenere che la disposizione faccia riferimento al c.d. pre-commissario).

Ai decreti delegati il compito di delimitare confini e poteri nel contemperamento degli interessi, comunque legittimi, del ceto creditorio chiamato, in ogni caso, ad esprimersi sul merito del piano.

L’istituto della classazione, inserito nell’originaria riforma del 2005, ha sovente creato non pochi problemi di interpretazione dovendo rispettare non meglio definiti concetti di “posizione giuridica ed interessi economici omogenei”; e la dottrina si è sin da subito interrogata sulla obbligatorietà, o meno, della articolazione in classi, riconoscendo ben presto la sicura possibilità di proporre concordati a “classe unica” e lasciando alla discrezionalità del debitore la scelta di servirsi di tale facoltà.

Oggi, dunque, l’intervento riformatore ha il pregio di affrontare in via definitiva la problematica, attribuendo al legislatore della delega l’onere di individuazione della casistica in cui la suddivisione deve essere obbligatoriamente adottata, determinandone sin d’ora la necessità allorquando nel piano si presentino creditori assistiti da garanzie esterne. Però perdendo l’occasione per definire i criteri caratterizzanti la posizione giuridica e l’omogeneità degli interessi economici lasciati così, ancora una volta, alla discrezionalità del giudicante.

Di sicura utilità è, invece, la disposizione, nata dalla incertezza sempre presente nei piani che prevedevano il pagamento dilazionato dei creditori assistiti da privilegio, intesa definitivamente a disciplinare il diritto di voto di tali creditori “falcidiati in termini temporali” e/o beneficiari di altra utilità diversa dal pagamento in danaro.

Norma di portata generale, successivamente richiamata alla lettera l) con particolare riferimento al concordato in continuità aziendale, con la previsione di una moratoria per un tempo anche superiore ad un anno e con il contestuale riconoscimento del diritto di voto.

Disciplina che ha, dunque, anche in questo caso il merito di dirimere il contrasto presente tra i giudici, oscillante tra la giurisprudenza di legittimità che aveva derogato al limite della moratoria annuale (nel tentativo di agevolare quei piani capienti ma che non presentavano incassi nel breve periodo ) e quella, soprattutto di merito, che riteneva di doversi conformare rigidamente al dettato normativo.

Occorrerà, però, in prospettiva valutare il necessario coordinamento tra la classazione ed il diritto di voto dei creditori privilegiati dilazionati.

La mission affidata nel testo definitivo al legislatore delegato attiene la fissazione delle “modalità di accertamento della veridicità dei dati aziendali e di verifica della fattibilità del piano”.

Espressione che ha fatto pensare, ad una prima lettura, alla mera definizione delle modalità di svolgimento dell’attestazione.

Senonché la rivisitazione dell’iter normativo lascia piuttosto intendere che la revisione del sistema di accertamento sia più ampia, fino a spingersi alla valutazione dell’abolizione del ruolo dell’attestatore in considerazione dei dubbi sulla reale utilità di tale figura.

In ogni caso, quale che sarà il soggetto deputato alla verifica, resta senza dubbio apprezzabile lo sforzo legislativo di definire le linee guida dell’accertamento di “veridicità” e “fattibilità”. 

Di più, con una esternata preoccupazione di tutelare il ceto creditorio (si veda a tal proposto anche la lettera l) dell’art. 2 dedicato ai principi generali), si chiede di determinare la soglia massima dei compensi da riconoscere ai professionisti del debitore, indicandone anche il criterio di parametrazione, così creando, all’evidenza, un potenziale conflitto con l’autonomia negoziale delle parti e con la disposizione dei parametri ministeriali di cui al D.M. 140/2012.

Quanto al rango di tali compensi, nel solco della recente e più accreditata giurisprudenza, si pone fine alla insorta querelle considerando prededucibili detti crediti alla sola condizione dell’apertura della procedura; e ciò sul condivisibile assunto della utilità dell’attestazione per il ceto creditorio, riconoscendo maggiore tutela a quelle lavorazioni dotate di un elevato grado di affidabilità.

Il che lascia, però, per ora irrisolto il nodo di quei crediti relativi a prestazioni che hanno consentito di superare il primo vaglio di ammissibilità ma la cui conseguente procedura concordataria si è poi arenata per inammissibilità ex art. art. 173 L.fall.

Delega ampia, sicuramente da “riempire” di contenuti è quella relativa alla prevista revisione delle misure protettive e dei rapporti pendenti.

Delle prime molto spesso si è abusato confidando su ritardi degli organi di giustizia o su frettolose proroghe concesse, di fatto rendendo spuntate le armi dei creditori e generando un senso di sfiducia negli stessi.

Sicuramente il periodo di automatic stay è norma condivisibile perché finalizzata a consentire l’adeguata formazione dei piani, ma va contemperata con le prospettive di tutela dei creditori, ed in tal senso sembra disporre la delega.

E nello stesso solco va valutata con favore una più penetrante disciplina dei rapporti pendenti che meglio tuteli i contrapposti interessi e consenta di dare certezze in merito alla quantificazione del sacrificio derivante dalla sospensione e/o dallo scioglimento dei rapporti.  

Il criterio direttivo di cui al comma 1, lettera a), salvando, in sede di emendamenti, il concordato preventivo liquidatorio, pone nuove condizioni di ammissibilità con l’unico vero elemento di novità rappresentato dalla richiesta presenza di apporto di risorse esterne.

Argomentazione certamente nuova ma che, tutto sommato, recepisce quel disfavore che i giudici di merito avevano, nel tempo, mostrato nei confronti di una procedura che, nella sostanza, non si discostava granché dalla alternativa liquidazione fallimentare; tema, tra l’altro che si accosta a quello recentemente introdotto dalla decretazione di urgenza.

In prospettiva la delega introduce ora due distinti concetti che andranno necessariamente meglio precisati affinchè il riordino non si risolva in una disposizione foriera di ulteriori interpretazioni.

La previsione di un “quid pluris” significativo (atteso che si parla di aumento ” in misura apprezzabile”) finalizzato ad accrescere la soddisfazione dei creditori; e poi l’altra condizione che sia “assicurato” il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare complessivo dei crediti chirografari, rappresentano quindi, insieme, le condizioni legittimanti l’apertura di una procedura di concordato liquidatorio.

Particolare attenzione nel corso di tutti i lavori preparatori è stata dedicata all’istituto del concordato in continuità per l’ importante valenza sociale che esso riveste.

Tra i principi generali figura, infatti, quello volto a “dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche per il tramite di un diverso imprenditore, purché funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori e purché la valutazione di convenienza sia illustrata nel piano, riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un’idonea soluzione alternativa” (art. 2, lett. g).

Questa disposizione si salda con quella contenuta nell’art. 6, lett. a), che circoscrive l’ammissibilità del concordato liquidatorio nella sola ipotesi in cui è previsto l’apporto di risorse esterne che aumentino in misura apprezzabile la soddisfazione dei creditori.

La nuova fisionomia del concordato preventivo è, dunque, destinata a segnare i rapporti con la procedura di liquidazione giudiziale, nel senso che deve aver priorità di trattazione la proposta che prevede, versando l’impresa in situazione di crisi o di vera e propria insolvenza, il superamento di tale situazione mediante la prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività aziendale.

Il favor per la continuità aziendale è, però, condizionato alla circostanza che sia assicurato il  miglior soddisfacimento dei creditori, in linea con l’attuale previsione dell’art. 186 bis, comma 2, lett. b), ma con una netta inversione di tendenza rispetto al testo licenziato dalla Commissione Rordorf che elevava la continuità aziendale a valore-fine.

Stando alla lettera del testo normativo, la tutela dei creditori è, dunque, la finalità principale delle procedure di insolvenza, la “stella polare”  dell’ordinamento concorsuale anche quando venga perseguito l’obiettivo della conservazione dell’impresa  che, viceversa, ancora non assurge al rango di bene in sé da tutelare. La continuità aziendale è, cioè, destinata a restare un valore-mezzo.

Fermo ed indiscusso il favor del legislatore, la legge delega si limita ad enunciare alcuni principi che, a ben vedere, nient’altro sono che la risposta legislativa ai contrasti giurisprudenziali sorti a seguito delle diverse articolazioni dei piani di continuità ( caratterizzati, stante l’ampia formulazione, da una particolare “fantasia” degli advisor ).

Della moratoria ultrannuale si è già riferito in precedenza; le ulteriori due precisazioni, frutto, come detto, del recepimento dei principi giurisprudenziali già affermatisi, riguardano l’una il concordato c.d. “misto”, fatto rientrare nell’alveo dei concordati in continuità qualora i creditori siano soddisfatti in maniera prevalente dalla continuità stessa; e l’altra il c.d. “concordato indiretto” ovvero quello dove la continuità è garantita a mezzo di un contratto di affitto, anche se stipulato antecedentemente la domanda, anch’esso ritenuto appartenente a tale categoria.

Importante, infine, segnalare la scelta adottata dal legislatore che sembra far riferimento al concetto di “prevalenza” di tipo quantitativo (atteso il rimando al “ricavato”), nonché rimarcare l’importanza dell’intervento legislativo considerate le inevitabili ricadute dell’esatta qualificazione del piano in termini di preclusioni che possono generarsi ( su tutte la soglia di sbarramento del 20% applicabile al solo concordato liquidatorio).

L’art. 6 si occupa, poi, dell’ulteriore fase di esecuzione del piano senza che si possano intravedere, per vero, significative innovazioni, solo facendo riferimento all’art. 2560 c.c. ed alla introdotta possibilità di affidare ad un organo terzo gli atti per l’esecuzione della proposta.

Maggiormente interessante è, invece, la trattazione della fase patologica attinente la revoca, l’annullamento o la risoluzione del concordato.

Meritoria nell’individuazione della problematica, ma assolutamente non condivisibile nella risoluzione del problema, atteso che si prevede la legittimazione del commissario giudiziale a richiedere la risoluzione per inadempimento, ma solo su istanza di un creditore.

Il che lascia irrisolto il nodo che affligge gran parte delle procedure che, pur manifestando evidenti incapacità di poter essere onorate nei tempi e modi previsti nell’omologazione, continuano a vegetare a causa della stasi dei creditori che restano sovente inerti, anche rispetto alle sollecitazioni degli organi di procedura,  senza proporre istanza di risoluzione.

Sicché sarebbe auspicabile la previsione di una legittimazione autonoma del Commissario Giudiziale a promuovere la risoluzione pur in assenza di istanza di parte, dovendo solo fare i conti con le limitazioni della la c.d. risoluzione d’ufficio.

Disposizione aperta che mira ad un auspicabile riordino di tutta la disciplina dei finanziamenti fatta oggetto di separati interventi con ulteriore adeguamento, in tema di imposta sul valore aggiunto, agli orientamenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea anche con riferimento ai rapporti con l’istituto della transazione fiscale.

Il comma 2 è dedicato infine, ai principi e criteri direttivi nei casi, frequenti, di concordato preventivo delle società.

La riforma tende, pertanto, alla definizione di un impianto normativo maggiormente dettagliato per questi concordati che non trovano all’interno della  legge fallimentare una autonoma considerazione, disciplinando in primis presupposti, legittimazione ed effetti dell’azione di responsabilità e dell’azione dei creditori della società.

Con una prima disposizione che, tutto sommato, oltre a qualificare meglio l’azione, sul solco delle disposizioni del Codice Civile, affida alla delega la risoluzione del nodo della legittimazione all’esercizio dell’azione di responsabilità e della necessità, o meno, di includere tale potenziale assetnella proposta.

Di non minore importanza l’altro precetto finalizzato ad una maggiore responsabilizzazione degli organi della società, troppo spesso ritenutisi esautorati dai loro compiti a seguito della ottenuta omologazione, con la introdotta possibilità da parte del Tribunale di nominare, in caso di comportamenti dilatori o ostruzionistici, un amministratore provvisorio che adempia all’obbligo di attuare tempestivamente i contenuti della proposta; dando vita così ad una sorta di commissariamento con attribuzione a detto amministratore dei poteri dell’assemblea dei soci e con facoltà di sostituirsi ai soci stessi nell’esercizio del voto.

Infine, particolare attenzione viene rivolta alle operazioni straordinarie ( trasformazione, fusione o scissione) attuate nel corso della procedura ed al necessario coordinamento delle norme civilistiche e concorsuali.

Esigenza sentita stante le incongruenze e sovrapposizioni che oggi si presentano tra le quali si segnalano, a mero titolo esemplificativo, la disciplina codicistica dell’opposizione dei creditori alla fusione e alla scissione della società, oggi non coordinata con il principio maggioritario della proposta e con la disciplina dell’opposizione all’omologazione; o anche la disciplina del recesso del socio, potenzialmente foriera di oneri di rimborso non previsti all’atto della formulazione del piano.

Un’ultima notazione riguarda il presupposto oggettivo di accesso alla procedura concordato preventivo. Al fine di favorire l’emersione anticipata della crisi d’impresa, sarebbe stato preferibile consentire l’accesso alla procedura volontaria nel solo caso di stato di crisi, nel senso innanzi indicato (v. par. 3). Il legislatore delegante, invece, sembra aver privilegiato una diversa soluzione, consentendo il concordato preventivo anche alle imprese in stato di insolvenza, “ma reversibile”(così la Relazione alla legge delega, par. 6), così assimilando il presupposto oggettivo a quello dell’amministrazione straordinaria. Nonostante non sia sempre facile distinguere tra insolvenza reversibile e irreversibile, si tratta di un deciso passo in avanti rispetto all’attuale disciplina del concordato preventivo, ammissibile, viceversa,  in qualsiasi stadio dell’insolvenza.

10Gli accordi di ristrutturazione dei debiti ed i piani di risanamento attestati

In maniera incisiva vengono toccate anche le procedure stragiudiziali alternative alla composizione della crisi, cui l’art. 5 dedica autonomo spazio con l’introduzione di principi e criteri direttivi dichiaratamente volti all’incentivazione di detti strumenti.

In primo luogo gli accordi di ristrutturazione dei debiti, previsti dall’art. 182 bis l.fall., per i quali si propone la riduzione o addirittura l’eliminazione del limite del 60% dei crediti, alla duplice condizione dell’esclusione della moratoria del pagamento dei creditori estranei e delle misure protettive del patrimonio del debitore durante le trattative; così privilegiando la celerità dell’accordo e dando nuova linfa ad un istituto che non ha avuto, a distanza di un decennio dall’introduzione, grande successo.

Nel contempo mutuando la disciplina delle misure protettive previste negli accordi di ristrutturazione dei debiti da quelle adottate nell’ambito del concordato preventivo, certamente dotate di maggiore organicità.

Ed infine, per condivisibili esigenze di ordine sistematico, prevedendo l’estensione degli effetti dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ai soci illimitatamente responsabili, così come già disposto nell’ambito del concordato preventivo.

Quanto alle convenzioni di moratoria, previste dall’art. 182 septies l.fall., l’intento è quello di estendere l’applicazione anche a creditori diversi da banche e intermediari finanziari, a condizione che il piano non sia meramente liquidatorio e che i creditori con cui viene raggiunto l’accordo rappresentino almeno il 75% del passivo riconducibile a una o più categorie giuridicamente ed economicamente omogenee.

Norma solo di opportunità, dettata dagli inconvenienti verificatisi nella prassi, quella poi prevista per i piani attestati di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d), l.fall. per i quali si prevede ora forma scritta, data certa e contenuto analitico.

Ed infine, con disposizione di carattere generale, applicabile a tutti i richiamati istituti di derivazione stragiudiziale, viene previsto che, in caso di modifiche non marginali, sia necessario rinnovare l’attestazione da parte del professionista indipendente iscritto all’albo dei revisori legali; anche in tal caso lasciando un pericoloso margine di discrezionalità che andrebbe auspicabilmente meglio determinato.

11I gruppi di imprese

Una delle principali novità introdotte dalla Legge delega è quella che attiene alla disciplina della crisi e dell’insolvenza dei gruppi di imprese (art. 3 della Legge n. 155 del 19 ottobre 2017).

Si legge, infatti, nella relazione che accompagnava lo schema di disegno di legge delega elaborato dalla Commissione c.d. Rordorf che il capitolo relativo ai gruppi di impresa è di particolare importanza perché si tratta di colmare una lacuna dell’attuale legge fallimentare che ignora del tutto le peculiarità dell’insolvenza riguardante non una singola impresa (in veste individuale o societaria che sia) bensì un gruppo d’imprese, e cioè una pluralità di società collegate ovvero controllate da un’unica holding.

Da questo punto di vista l’esercizio della delega porrà definitivamente fine alla serie di tentavi posti in essere dalla dottrina ed in qualche modo non avallati dalla giurisprudenza diretti a prevedere ipotesi di coordinamento tra le procedure afferenti diverse società di un gruppo, per una gestione unitaria dell’insolvenza.

Il dato normativo, quindi, nel colmare una lacuna, dà anche una risposta concreta alle sollecitazioni europee e, come si legge nella relazione, al recente Regolamento UE n. 2015/848 sulla insolvenza transfrontaliera che pone l’accento sulle caratteristiche peculiari cui si incorre nel caso in cui l’insolvenza colpisce un gruppo di imprese nella sua interezza (il riferimento è alla dettagliata disciplina contenuta nel Capo V del Regolamento rubricato “Procedure d’insolvenza delle società facenti parte di un gruppo di società, artt. 52 e ss), laddove la Commissione, nella propria relazione ha inteso sottolineare, in particolare, le problematiche che riguardano le procedure di concordato preventivo in cui emerge con tutta evidenza l’esigenza di abbracciare unitariamente la realtà imprenditoriale del gruppo di imprese, anche, si può aggiungere, nell’ottica della continuità aziendale.

Punto di partenza dell’intera disciplina è certamente quello che attiene ad una nozione o definizione non rigida di gruppo e certamente non nuova ed ulteriore rispetto a quella assunta dal codice civile all’esito della riforma organica del diritto societario tanto è vero che nel comma 1, lett. a) dell’art. 3 in commento è espressamente detto che essa è modellata sulla nozione di direzione e coordinamento di cui agli art. 2497 e ss., nonché 2545 septies c.c., estendendo, anche a tali fini, la presunzione semplice di assoggettamento a direzione e coordinamento in presenza di un rapporto di controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c.

Strumentale all’assoggettamento a procedure concorsuali del gruppo di imprese è poi la individuazione di specifici obblighi dichiarativi, nonché il deposito del bilancio consolidato di gruppo, ove redatto, a carico delle imprese appartenenti ad un gruppo, a scopo di informazione sui legami di gruppo esistenti (comma 1, lett. b), nonché l’attribuzione del potere all’organo di gestione della procedura (la norma riecheggia la definizione data nel Regolamento UE del 2015) di richiedere alla Consob, o a qualsiasi altra pubblica autorità, informazioni utili ad accertare l’esistenza di collegamenti di gruppo, nonché di richiedere alle società fiduciarie le generalità degli effettivi titolari di diritti sulle azioni o sulle quote ad esse intestate (comma 1, lett. c)).

Da queste norme non può che attendersi, però, una definizione non strettamente formale ma anche sostanziale basata sulla effettiva esistenza del rapporto in ordine di governance e di effettivo legame del gruppo societario.

Si prevede, quindi, di introdurre un generale obbligo di cooperazione comunicazione tra gli organi che sono coinvolti nelle procedure di insolvenza delle società facenti parte di un gruppo non solo per il miglior coordinamento ma anche per garantire la migliore efficacia delle procedure di crisi e di insolvenza (così proprio il Regolamento UE citato al considerando n. 51).

Del resto l’idea di fondo che ha ispirato il Parlamento è quella della trattazione unitaria della insolvenza delle imprese costituenti il gruppo se sottoposte alla giurisdizione dello Stato italiano (diversa è la disciplina come si dirà della insolvenza transfrontaliera del gruppo di imprese) con la possibilità di proporre con unico ricorso domanda di omologazione di un accordo unitario di ristrutturazione dei debiti, di ammissione al concordato preventivo o di liquidazione giudiziale, con la precisazione della necessità di mantenere in ogni caso l’autonomia delle rispettive masse attive e passive. Nel rispetto del principio del giudice naturale sarà necessario predeterminare il criterio attributivo della competenza, ai fini della gestione unitaria delle rispettive procedure concorsuali, ove le imprese abbiano la propria sede in circoscrizioni giudiziarie diverse (comma 1, lett. d)) con la precisazione, opportuna e necessaria, che nel caso in cui le imprese insolventi del gruppo siano soggette a separate procedura concorsuali, in Italia o all’estero, vanno previsti obblighi reciproci di informazione e di collaborazione tra gli organi di gestione delle diverse procedure (comma 1, lett. e). Da questo punto di vista, quindi, non può che attendersi in sede di attuazione della delega un riferimento anche alle regole dettate dal Regolamento UE 2015/848 che introduce la procedura di coordinamento per una ristrutturazione coordinata del gruppo societario laddove è espressamente previsto che gli Stati membri possono istituire norme nazionali ad integrazione delle norme sulla cooperazione, la comunicazione e il coordinamento in merito all’insolvenza delle società facenti parte di un gruppo di società, purché l’ambito di applicazione di tali norme nazionali sia limitato alla competenza nazionale e la loro applicazione non pregiudichi l’efficacia delle norme stabilite dal regolamento (considerando n. 61)

Resta quindi la diversa problematica della insolvenza transfrontaliera di gruppo di imprese che non è certamente l’ipotesi di cui all’art. 3, § 2 del Regolamento (CE) n. 1346 del 29 maggio 2000, relativo alle procedure di insolvenza principale e secondaria in più Stati membri secondo il criterio del centro degli interessi principali (c.d. C.O.M.I., acronimo di Centre of manine interests), ai sensi e per gli effetti dell’art. 3, §1 del Regolamento citato (che pure viene richiamato nella legge delega in commento all’art. 2, comma 1, lett. f), ma è la distinta ipotesi delle varie procedure relative a più società facenti parte dello stesso gruppo di società che siano state aperte in più di uno Stato membro, dovendosi applicare tutte le norme in materia di cooperazione, comunicazione e coordinamento nel quadro dell’insolvenza di società facenti parte di un gruppo di società previste dal Regolamento UE 2015/848 ed in particolare quelle della procedura di coordinamento che crea vari problemi, primo fra tutti, quello della scelta del giudice di quale Stato sia competente a gestire la procedura di coordinamento (art. 66 del Regolamento citato).

Resta, inoltre, da analizzare del comma 1 dell’art. 3, la lett. f) in cui si riafferma il principio, già fissato dall’art. 2497 quinquies c.c., della postergazione del rimborso dei crediti di società o imprese appartenenti allo stesso gruppo, in presenza dei presupposti di cui all’articolo 2467 del codice civile, fatte salve le deroghe dirette a favorire l’erogazione di finanziamenti in funzione o in esecuzione di una procedura di concordato preventivo ovvero di accordo di ristrutturazione dei debiti.

Il comma 2 dell’art. 3 della legge delega, pur facendo riferimento già il precedente comma 1, lett. d) alla facoltà di proporre un ricorso unitario, ha inteso dettare delle regole specifiche per la gestione unitaria della procedura di concordato preventivo di gruppo. Le previsioni, cui dovrà attenersi il Governo sono particolarmente significative ed esse latamente si ispirano a quanto previsto nel Regolamento UE.

In primo luogo la previsione della nomina di un unico giudice delegato e di un unico commissario giudiziale e il deposito di un unico fondo per le spese di giustizia (comma 2, lett. a) ma anche la contemporanea e separata votazione dei creditori di ciascuna impresa (lett. b) con esclusione, al fine di evitare ogni possibile abuso, dal voto delle imprese del gruppo che siano titolari di crediti nei confronti delle altre imprese assoggettate alla procedura (lett. d).

Le disposizioni si ispirano al principio di cui all’art. 2740 c.c. con riferimento alle società del gruppo meno capienti rispetto alle società del gruppo più capienti per cui si giustifica la gestione separata delle masse attive e passive nonché la previsione di un particolare procedimento per l’approvazione del concordato di gruppo.

A ciò si ispira anche la lett. f) del comma 2 dell’art. 3 in commento che prevede espressamente che bisognerà stabilire dei criteri per la formulazione del piano unitario di risoluzione della crisi del gruppo, eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative intragruppo funzionali alla continuità aziendale e al migliore soddisfacimento dei creditori, fatta salva sempre la tutela in sede concorsuale per i soci e per i creditori delle singole imprese nonché per ogni altro controinteressato (oltre al principio generale della responsabilità patrimoniale, cioè, si fa riferimento al principio della par condicio creditorum e della generale tutela dei terzi).

Di particolare interesse è la previsione contenuta nella lett. c (erroneamente ripetuta anche nella lett. e) in ordine alla previsione della disciplina degli effetti dell’eventuale annullamento o risoluzione della proposta unitaria omologata che deve essere vista nell’ottica del complessivo piano concordatario ai fine della rilevanza dei presupposti dell’annullamento o dell’inadempimento per la risoluzione ed alla luce proprio dei principi di informazione e di cooperazione nel comma 1 dell’art. 3.

Anche le disposizioni che dettano i criteri per la gestione unitaria della procedura di liquidazione di gruppo sono particolarmente significativi (oltre che ispirate alle norme contenute nel Regolamento UE sopra richiamato).

Si prevedono due distinte ipotesi.

La prima riguarda il caso della gestione unitaria di più imprese dello stesso gruppo che sono dichiarate insolventi.

In tale ipotesi il comma 3 dell’art. 3 in commento prevede che venga nominato un unico giudice delegato (anche qui il riferimento è al predeterminato criterio che il Governo individuerà per stabilire la competenza dell’unico giudice delegato nel caso in cui le imprese abbiano la propria sede in circoscrizioni giudiziarie diverse) ed anche un unico curatore ma, per le cose già sopra dette, si prevede la nomina di distinti comitati dei creditori per ciascuna impresa del gruppo ed un criterio di ripartizione proporzionale dei costi della procedura tra le singole imprese del gruppo (lett. a) e b) del comma 3.

Si può verificare che alcune delle imprese del gruppo non siano insolventi ed in tale seconda ipotesi il legislatore ha previsto particolari poteri in capo al curatore che potrà: 1) azionare rimedi contro operazioni antecedenti l’accertamento dello stato di insolvenza e dirette a spostare risorse a un’altra impresa del gruppo, in danno dei creditori; 2) esercitare le azioni di responsabilità di cui all’art. 2497 c.c.; 3) promuovere la denuncia di gravi irregolarità gestionali nei confronti degli organi di amministrazione delle società del gruppo non assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale; 4) nel caso in cui ravvisi l’insolvenza di imprese del gruppo non ancora assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale, segnalare tale circostanza agli organi di amministrazione e di controllo ovvero promuovere direttamente l’accertamento dello stato di insolvenza di dette imprese.

È evidente che in tal caso si tratta di porre in essere ogni azione che limiti situazione di abuso rispetto a determinate categorie di creditori piuttosto che di altre, ovvero di prevedere poteri che pongano un limite alla direzione e coordinamento che si concretizzino in irregolarità gestionali o azioni lesive fonte di responsabilità.

Particolare rilievo ha la norma che riconosce allo stesso curatore la legittimazione ad agire per far accertare l’insolvenza delle imprese del gruppo non ancora assoggettate alla procedura di liquidazione giudiziale, dovendo ritenere che in tal caso la dichiarazione di insolvenza comporti che l’originario giudice delegato ed il curatore che agisce possa occuparsi degli adempimenti conseguenti alla dichiarata insolvenza della società del gruppo.

Da questo punto di vista resta sempre il favore del legislatore verso la possibilità di eventuali proposte di concordato liquidatorio giudiziale. In tal caso, la lett. d) del comma 3 richiama altra disposizione da cui si ricava la volontà di incentivare proposte di concordato liquidatorio giudiziale da parte dei creditori e di terzi ma anche del debitore, ove questi apporti risorse che incrementino in modo apprezzabile l’attivo e tale circostanza è particolarmente attuale proprio nell’ipotesi di gruppi di imprese.

12Il sovraindebitamento

Anzitutto, va sottolineato come l’intervento chiarificatore richiesto al Governo debba procedere nel senso del riordino e della semplificazione: la legge n. 3/2012 infatti, è stata accompagnata nell’applicazione da pesanti dubbi interpretativi, essendo, in alcuni passaggi, laconica e criptica. La scelta dei primi interpreti è stata quella di sciogliere i dubbi accostando la procedura da sovraindebitamento alle procedure concorsuali. L’effetto, in alcuni casi, è stato quello di travisare lo spirito della legge, offrendo soluzioni poco soddisfacenti sul piano pratico che hanno penalizzato molto il ricorso all’istituto.

Anzitutto, l’art. 9, lett. a), prevede che la procedura sia estensibile ai soci illimitatamente responsabili di società di persone. Questa soluzione appare coerente con l’impianto normativo delegato, soprattutto con riferimento articolo 2, comma 1, lett. e) laddove vi è il superamento il discrimen rispetto all’applicazione delle procedure, attraverso una considerazione univoca dei soggetti. Difatti, già in via interpretativa, la giurisprudenza aveva individuato alcuni parametri e ricostruito il sistema dei principi escludendo l’applicabilità della normativa ai soci illimitatamente responsabili solo quando il fallimento della società si fosse chiuso per insufficienza di attivo.

Sempre secondo quanto statuito alla lett. a), il Governo dovrà individuare i criteri di coordinamento nella gestione delle procedure da sovraindebitamento riguardanti più membri della stessa famiglia. Invero questa puntualizzazione del legislatore delegato è la risposta che, sul piano pratico, la giurisprudenza ha già offerto, consentendo la proposizione di piani del consumatore congiunti, ad esempio, ai coniugi, laddove, questi fossero stati entrambi richiedenti e/o garanti di finanziamenti contratti per la famiglia. L’estensione agli altri membri consente di aprire scenari nuovi, allargando la possibilità di presentazione del piano, ovvero, dell’accordo anche ai conviventi o a membri della famiglia legati da altro grado di parentela.

In linea con lo spirito della riforma va letta la lett. b), comma 1, dell’art.9, laddove delega al Governo la disciplina di soluzioni che siano dirette a promuovere la continuazione dell’attività svolta dal debitore, nonché, le modalità di una loro eventuale conversione nelle soluzioni liquidatorie.

Viene, altresì, enfatizzato l’aspetto legato alla colpa grave, alla mala fede o alla frode del debitore, laddove, viene consentita al solo debitore consumatore solo la soluzione liquidatoria con esclusione della esdebitazione quando la situazione di crisi o di insolvenza sia stata, per l’appunto, determinata da un suo comportamento gravemente colposo o fraudolento.

La legge delega, superando il disposto dell’attuale normativa sul sovraindebitamento, riserva l’esame della meritevolezza ai soli casi in cui il debitore non è in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno futura (art. 9, lett. c), ma al solo fine di consentire al debitore di accedere all’esdebitazione  a seguito della procedura di liquidazione . In tutte le altre ipotesi, garantendosi, cioè, ai creditori un’utilità, diretta o indiretta, anche futura, infatti, il debitore-consumatore è ammesso alla procedura di sovraindebitamento indipendentemente dalla cd. meritevolezza , escludendo l’art. 9, lett. b), l’accesso al piano del consumatore nei soli casi di colpa grave, malafede o frode del debitore.

Nei casi di assenza di dolo, colpa grave o frode del debitore, dunque, l’interesse del debitore è sempre prevalente rispetto a quello dei creditori, determinandosi un’inversione rispetto a quanto previsto dall’attuale normativa sul sovraindebitamento nella quale l’interesse dei creditori, conformemente alla disciplina fallimentare , costituisce la finalità principale delle tre procedure previste dalla legge n. 3/2012, la “stella polare”  dell’ordinamento in materia di sovraindebitamento, come chiaramente evincibile prima dall’art. 12 bis, comma 3, e poi dal disposto degli art. 12, comma 2 , e 12 bis, comma 4 , che riguardano la convenienza cd. economica della procedura di accordo e di piano. Con la riforma che il legislatore delegato intende proporre, invece, l’interesse del debitore (anche lievemente colpevole) diviene un valore-fine, nel senso che, indipendentemente dalla continuazione dell’attività d’impresa, i diritti dei creditori devono soccombere “sin, forse, ad essere pretermessi”, come dimostra anche l’art. 9, lett. g), che prevede l’introduzione di misure protettive del patrimonio del debitore simili a quelle già disciplinate nel concordato preventivo. Ma ciò sempre che l’alternativa liquidatoria non appaia maggiormente conveniente per i creditori.

Il requisito della meritevolezza rileva, a ben vedere, anche in relazione alle finalità dell’accesso al credito. Sul punto, però, occorre una precisazione. Nella fase dell’erogazione del credito assume rilevanza solo il merito creditizio che fa riferimento , sulla base di un giudizio di prognostico, esclusivamente alla capacità del debitore di restituire il credito  e non alla valutazione dell’impiego che ne farà il consumatore.

Alla valutazione del merito creditizio deve fare necessariamente riferimento l’organismo di composizione della crisi in sede di redazione della relazione ex art. 9, comma 3 bis, l.n. 3/2012. Essendo escluso il giudizio di meritevolezza del debitore , è abbastanza evidente l’incidenza nel giudizio di omologazione del piano del consumatore della (corretta) valutazione del merito creditizio del richiedente operata dall’organismo di composizione della crisi; dovrà, infatti, senz’altro ritenersi non colpevole  il debitore al quale sia stato concesso credito all’esito di una completa, trasparente e consapevole istruttoria del soggetto finanziatore. Viceversa, dovrà ritenersi doloso/fraudolento, o quantomeno affetto da colpa grave, il comportamento del debitore che non abbia consentito un sufficiente e proporzionato scambio di informazioni a favore del soggetto finanziatore.

La preventiva valutazione del merito creditizio, al momento dell’erogazione del finanziamento da parte del creditore erogante, non incide, però, in assenza di una espressa sanzione civilistica collegabile all’inadempimento dell’obbligo, sulla validità del contratto , né sulla responsabilità del debitore ex art. 2740 c.c. Viceversa si rischierebbe di introdurre nel sistema un elemento di instabilità dato dalla elisione della garanzia patrimoniale a seguito dell’errata valutazione del merito creditizio, nel caso in cui il debitore abbia assunto l’obbligazione tacendo di comunicare al creditore una serie di circostanze che, se conosciute, di certo lo avrebbero persuaso a negare l’accesso al credito.

Questa soluzione parrebbe destinata a sopravvivere alla legge delega di riforma delle discipline della crisi d’impresa e dell’insolvenza, che sembra limitarsi a disporre che, in sede di decreto delegati, vengano previste misure sanzionatorie di natura processuale a carico del creditore che abbia colpevolmente contribuito all’aggravamento della situazione di indebitamento (art. 9, lett. l). Il contratto di finanziamento, dunque, non dovrebbe essere affetto da alcuna patologia negoziale, essendo la sanzione per il creditore colpevole limitata all’esclusione del potere di impugnativa e di opposizione.

Ci si può domandare allora quali conseguenze, sul piano sostanziale, possono derivare in caso di violazione del merito creditizio, di cui all’art. 124 bis TUB, nell’ipotesi di una concessione abusiva di credito al consumatore. In particolare ci si intende riferire alla configurabilità di un’ipotesi di responsabilità del concedente una forma di credito in violazione del merito creditizio e, quindi, abusivamente rispetto alla capacità di restituzione di un consumatore, già sovra indebitato, rispetto ad altri creditori che abbiano erogato precedentemente un finanziamento per così dire meritevole.

L’incapacità del consumatore alla restituzione delle somme oggetto di finanziamento potrebbe, infatti, non dipendere dalla propria genetica situazione di difficoltà economica, bensì dal sommarsi di successive concessioni di credito che, per questo, risultano abusive in quanto non tengono in debito conto i precedenti impegni finanziari del consumatore.

Il discorso, fin qui svolto in merito alla concessione abusiva del credito bancario  ben potrebbe riguardare l’ipotesi del consumatore sovraindebitato per identità di ratio, rappresentata dalla tutela di quei creditori anteriori che, rispettando la norma sulla verifica del merito creditizio al momento dell’erogazione del credito, si trovano, poi, a subire il danno di un consumatore insolvente perché successivamente sovraindebitato.

Nel caso di specie l’illecito si consuma nella erogazione stessa del credito, che di per sé, però, non costituisce un fatto dannoso (al momento della erogazione del credito) essendo – come è stato efficacemente detto – un contratto in sé neutro.

In relazione alla concessione abusiva di credito bancario è stato evidenziato che per “concessione abusiva di credito”, pur se vi è qualche incertezza in ordine ai suoi esatti lineamenti, s’intende l’ipotesi in cui una banca eroghi credito (o mantenga il credito già concesso) in modo “imprudente”, nel senso che ha erogato (o mantenuto) il credito pur conoscendo o dovendo conoscere le condizioni di grave difficoltà economica del finanziato, e da questa concessione derivi un danno ingiusto ai creditori del finanziato. In questo caso la banca viola il dovere di corretta erogazione del credito e causa un danno ai creditori di quest’ultimo, sia a quelli anteriori e sia a quelli successivi all’erogazione del credito, per effetto dell’apparenza di solvibilità creata dal credito irregolarmente concesso e del conseguente ritardo nella manifestazione “naturale” delle effettive condizioni patrimoniali di quel soggetto . Tale definizione è stata poi ripresa e ricostruita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite che, con le note sentenze del 2006  , ha definito la concessione abusiva di credito come il comportamento del soggetto finanziatore che mantiene “artificiosamente ” in vita un’impresa insolvente suscitando nel mercato (id est: negli altri operatori del mercato) un'”errata percezione” della realtà finanziaria ed economica dell’impresa sovvenuta e così inducendo i terzi operatori “a contrattare o a continuare a contrattare” con tale impresa in una situazione di sostanziale aggravamento del dissesto, che se avessero conosciuto, si sarebbero, presumibilmente, astenuti dal contrarre o si sarebbero attivati per tutelare le proprie ragioni di credito già maturate. Chiarita la fattispecie, la dottrina ha posto da subito due problemi uno relativo alla qualificazione giuridica ed un altro relativo all’identità dell’interesse leso dal comportamento di concessione abusiva di credito.

Secondo l’originario modello enucleato dalla dottrina, il comportamento della banca nell’erogazione abusiva di credito, quanto ai terzi, va a violare il principio del neminem laedere e, pertanto, per consolidato indirizzo dottrinario, la responsabilità che ne viene originata è stata qualificata come responsabilità aquiliana. Anche recentemente, secondo parte della dottrina, la responsabilità aquiliana sarebbe l’unica possibile in quanto dell’illecito lesivo non preesiste un rapporto giuridico tra banca e terzi danneggiati. Tale ricostruzione è argomentata sulla base della celebre sentenza n. 500/1999 , con la quale le Sezioni Unite hanno tratteggiato gli elementi della responsabilità ex art. 2043 c.c. in un modello di esemplare chiarezza. Tale fattispecie ben potrebbe evidenziarsi in relazione al sovraindebitamento del consumatore anzitutto poiché a carico dell’ente erogatore vi è uno specifico dovere di verifica del merito creditizio, opportunamente introdotto con l’art. 124 bis TUB che impone un dovere di screening sulla base di informazioni adeguate.

In secondo luogo in relazione all’identità dell’interesse leso dal comportamento di concessione abusiva di credito. Nella fattispecie l’interesse leso non è rappresentato da un diritto di credito, ancorché nella forma dell’aspettativa, quanto piuttosto nella facoltà del creditore di autodeterminarsi liberamente e senza condizionamenti nelle scelte economiche. E tale affermazione, se è pacifica quanto ai creditori divenuti tali successivamente all’atto di erogazione abusiva, varrebbe anche per coloro che erano già creditori, dissuasi dall’attivarsi nelle potestà riconosciute dall’ordinamento per l’autotutela del proprio interesse in caso di pericolo d’insolvenza proprio dalla concessione (abusiva) del credito da parte dell’ente finanziante.

Proseguendo vanno lette, in concomitanza, con la lett. b), le lettere f) e g): in dettaglio, la lett. f) espressamente prevede che sia precluso l’accesso alle procedure di esdebitazione a coloro che siano già stati esdebitati nei 5 anni precedenti la proposizione della domanda, ovvero, che abbiano beneficiato del refresh start per due volte, o ancora siano stati immeritevoli nel senso che ne sia stata accertata la frode negli atti dai medesimi compiuti.

Analogamente, la lett. g) prevede l’introduzione di misure protettive simili a quelle previste nel concordato preventivo revocabili in caso gli atti in frode ai creditori, sia su istanza dei creditori che d’ufficio.

Al beneficio dell’esdebitazione potranno essere ammesse anche le persone giuridiche su domanda o con procedura semplificata sempre ché non vi sia stata frode ai creditori o il volontario inadempimento del piano o dell’accordo: la lett. i), come enunciata, risponde all’esigenza di uniformità che ispira la legge delega ai criteri adottati, in linea generale, all’art. 8 succitato.

Si auspica che in merito il legislatore delegato sia particolarmente chiaro nello specificare quali siano le obbligazioni assoggettabili alla richiesta di piano e di accordo, difatti, come noto, in base alla interpretazione della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 1869/2015), vengono ammessi alla procedura di piano quei soggetti, persone fisiche anche esercenti attività di impresa o professionali che richiedano l’accesso alla procedura in base ad obbligazioni legate al consumo, cosicché la previsione di un inadempimento – riferita dalla lett. i) – a persone giuridiche rispetto al piano (del consumatore) o all’accordo lascia intendere che anche le persone giuridiche possano richiedere un piano del consumatore: il dubbio è lecito.

Rivestono poi, significativo rilievo nella impostazione voluta dalla riforma, le previsioni di cui alla lett. d) ed e) dell’articolo in commento. Alla lett. d) viene previsto espressamente che nel piano del consumatore possa essere indicata anche la ristrutturazione dei crediti derivanti da contratti di finanziamento con cessione del quinto dello stipendio. Con questa previsione la legge delega, ha risolto, esprimendo l’esigenza di apposita previsione, un problema applicativo importante che ha interessato la giurisprudenza di merito sulla computabilità delle somme oggetto di cessione del quinto nel piano o nell’accordo. Sul punto, si è potuto affermare in via interpretativa che essendo la procedura di sovraindebitamento una procedura concorsuale, il creditore chirografario pignorante il quinto dello stipendio per la parte che residui impagata alla data dell’apertura del concorso, non potrà continuare a riscuotere il (non più suo) quinto fino a soddisfazione integrale, ma dovrà subire la falcidia come tutti gli altri poiché l’esecuzione forzata per lui non è ancora terminata, e non può essere portata ad ulteriore complimento. Il cessionario del quinto, infatti, non beneficia di un effetto definitivo come nel caso di cessione del credito tout court, ma soltanto di una modalità di riscossione che diventa incompatibile con la procedura da sovraindebitamento e con la par condicio, con riferimento al debito che residua alla data di apertura del concorso anch’esso strutturalmente destinato alla falcidia e a ritornare chirografario.

Significativo è anche l’intervento di cui alla lett. e) di cui si è accennato. Nella relazione particolareggiata di cui all’art. 9, comma 3 bis, della legge 3/2012 dovrà, infatti, essere indicato, se il soggetto finanziatore, ai fini della concessione del finanziamento, abbia tenuto conto del merito creditizio del richiedente, valutandolo in relazione al suo reddito disponibile, dedotto dell’importo necessario a mantenere un dignitoso tenore di vita.

Va, inoltre, rimarcato quanto previsto dalla lett. h) ovvero la possibilità di riconoscere l’iniziativa per l’apertura delle soluzioni liquidatorie di cui alla legge 3/2012, anche in pendenza di procedure esecutive individuali, ai creditori e, laddove l’insolvenza riguardi l’imprenditore, al pubblico ministero.

Si tratta di una previsione importante perché, come noto, la legge 3/2012 riservava esclusivamente al debitore la facoltà di attivare le procedure da sovraindebitamento, questa previsione, invece, avvicina le procedure de qua a quelle concorsuali consentendo l’iniziativa a soggetti diversi dal debitore.

Nella stessa logica, va letto anche l’intervento auspicato alla lett. m) ovvero attribuire ai creditori ed al PM l’iniziativa per la conversione del piano o dell’accordo nella procedura liquidatoria nei casi di frode o di inadempimento.

13Altre disposizioni

La revisione del sistema delle garanzie

Gli art. 10, 11 e 12 della Legge delega sono diretti a rivedere in modo ampio anche la disciplina delle garanzie che sono inserite nel contesto delle norme che le precedono perché, sia pure in senso lato, insistono anche nel campo delle problematiche che attengono alla crisi di impresa.

La revisione del sistema dei privilegi (art. 10). Partendo dall’art. 10 questo è genericamente rubricato “privilegi” con ciò anticipando la portata generalissima della delega, in parte qua, conferita al Governo che dovrà riordinare e revisionare il sistema dei privilegi con il principale obiettivo: a) di ridurre i privilegi generali e speciali (in particolare, quelli di natura retentiva o anche detti possessori che sono privilegi speciali mobiliari i quali, oltre a poter essere soddisfatti con precedenza sul ricavato dei beni oggetto di privilegio, hanno la prerogativa di poter essere tenuti dal creditore presso di sé fino alla soddisfazione del credito e di poter essere venduti, in caso di inadempimento, secondo le disposizioni stabilite per la vendita del pegno, quindi al di fuori delle normali procedure esecutive) e b) di adeguare, di conseguenza, l’ordine delle cause legittime di prelazione.

La genericità e la vastità di quanto previsto nell’art. 10 rende difficile immaginare ogni tipo di possibile intervento per cui è davvero necessario attendere l’esercizio della delega per vedere come essa in concreto si compie ma, per cercare di individuare almeno la direzione in cui ha inteso muoversi il Parlamento, giova riprendere parte della relazione predisposta dalla Commissione Rordorf di accompagnamento allo schema del disegno di legge delega, laddove si dice espressamente che la disciplina dei privilegi è molto frastagliata (da qui la necessità del riordino visto anche il notevole intervento della legislazione speciale in materia che ha contribuito a rendere oltremodo asistematica la materia dei privilegi) e, per molti aspetti anche obsoleta, perché buona parte delle fattispecie contemplate dal codice civile appaiono essere frutto di concezioni assai risalenti nel tempo, che hanno perso quasi completamente di attualità mentre altre situazioni emergenti nel contesto evolutivo della società potrebbero magari oggi apparire altrettanto o forse più meritevoli di una considerazione privilegiata (da qui la necessità di una revisione sistematica).

Emerge dalla sopra detta relazione l’intenzione di una drastica riduzione delle ipotesi di privilegio laddove è espressamente chiarito che nell’opera di riordino e revisione generale bisognerà tener conto che il privilegio si pone, per sua stessa definizione, come un’eccezione al fondamentale principio di eguaglianza, onde esso si giustifica solo a condizione di rispondere ad un interesse del pari costituzionalmente protetto.

Le garanzie non possessorie (art. 11). L’art. 11, invece, si occupa della garanzie non possessorie e precisamente con tale norma il Governo è delegato a prevedere la disciplina del sistema delle garanzie reali mobiliari e cioè a regolamentare una forma di garanzia mobiliare non possessoria, avente ad oggetto beni, materiali o immateriali, anche futuri, determinati o determinabili, con la previsione di determinate forme costitutive e di pubblicità e con la previsione che il soggetto costituente la garanzia, salvo diverso accordo delle parti, abbia la facoltà di utilizzare, nel rispetto dei princìpi di buona fede e di correttezza, e in ogni caso nel rispetto della destinazione economica, i beni oggetto di garanzia, anche nell’esercizio della propria attività economica (lett. a), b) e c).

Inoltre, in deroga al divieto del patto commissorio, si prevede che il creditore possa escutere stragiudizialmente la garanzia a condizione che il valore dei beni sia determinato in maniera oggettiva, fatto salvo l’obbligo di restituire immediatamente al debitore, o ad altri creditori, l’eventuale eccedenza tra il valore di realizzo o assegnazione e l’importo del credito (cd. patto marciano) e prevedere forme di pubblicità e controllo e di tutela dei terzi in buona fede (lett. d) e e).

Nell’esercizio della delega il Governo dovrà, però, fare attenzione a coordinare le norme emanande con quelle che contenute nel DL n. 59/2016, convertito con Legge n. 119/2016 che, come è noto, all’art. 1 ha introdotto e disciplinato la figura del pegno mobiliare non possessorio ed all’art. 2, invece, ha introdotto l’art. 48bisdel Decreto Legislativo n. 385/1993 (c.d. Testo Unico Bancario) rubricato “Finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato”, che, sia pure con le limitazioni soggettive ed oggettive previste dalla norma, ha disciplinato una delle maggiori novità normative degli ultimi anni nel panorama del sistema delle garanzie reali che si sostanzia nel prevedere la possibilità per le parti, a fronte di un finanziamento, di stipulare un contratto di cessione di bene quale garanzia della restituzione della somma data a mutuo condizionandone sospensivamente l’efficacia all’ipotesi dell’inadempimento del debitore (ipotesi ispirata al cd. patto marciano).

Quindi al Governo spetterà il compito di disciplinare l’ampio fenomeno delle garanzie non possessorie (di cui il pegno mobiliare non possessorio è una delle ipotesi) e di introdurre, magari attraverso modifiche al codice civile, l’utilizzo in via generale del c.d. patto marciano come un efficace strumento di garanzia alternativo alle ipotesi tradizionali e quindi disciplinare più in generale le ipotesi delle alienazioni a scopo di garanzia che da sempre occupano dottrina e giurisprudenza in uno sforzo interpretativo che, da una parte, invera la certezza della necessità di ampliare, innovandolo, il sistema delle garanzie reali tipiche, ritenute non più completamente idonee a far fronte agli interessi sempre più dinamici dei contraenti nel settore della concessione del credito e della conseguente garanzia, e dall’altra, però si scontra con la necessità di porre un limite all’autonomia privata che può degenerare in finalità abusive, prima fra tutte quelle forme di manifestazione negoziale che sono funzionalmente dirette ad aggirare il divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. (volendo esemplificare alcune ipotesi di cui si è interessata la giurisprudenza si allude alla vendita sotto condizione sospensiva ovvero risolutiva dell’inadempimento dell’obbligazione garantita, alla vendita con patto di riscatto o di retrovendita, alla procura conferita dal debitore o da un terzo al creditore per vendere il bene e soddisfarsi sul ricavato, all’ipotesi in cui la condizione è apposta ad un contratto preliminare di vendita, al contratto di sale and lease back, etc.).

Le garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire (art. 12). La tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, nel caso di situazione di crisi in cui può incorrere il costruttore, viene ulteriormente rinforzata con la previsione contenuta nell’art. 12 della Legge delega n. 155/2017.

Giova premettere che il D.Lgs. n. 122/2005, emanato a tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire nel caso di situazione di crisi in cui il costruttore incorre per essere sottoposto ad esecuzione immobiliare, in relazione all’immobile oggetto del contratto, ovvero a fallimento, amministrazione straordinaria, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, prevede proprio per arginare le conseguenze della crisi del costruttore, agli art. 2 e 3 la prestazione di una garanzia fideiussoria in favore dell’acquirente all’atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità (in genere il contratto preliminare di cui all’art. 6 del D.Lgs. citato), ovvero in un momento precedente, a garanzia della restituzione delle somme e del valore di ogni altro eventuale corrispettivo effettivamente riscossi e dei relativi interessi legali maturati fino al momento in cui la predetta situazione si è verificata. Tutto ciò a pena di nullità del contratto che è relativa nel senso che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente.

Il successivo articolo 4, inoltre, prevede che il costruttore è obbligato a contrarre ed a consegnare all’acquirente all’atto del trasferimento della proprietà una polizza assicurativa indennitaria decennale a beneficio dell’acquirente e con effetto dalla data di ultimazione dei lavori a copertura dei danni materiali e diretti all’immobile, compresi i danni ai terzi, cui sia tenuto ai sensi dell’art. 1669 c.c., derivanti da rovina totale o parziale oppure da gravi difetti costruttivi delle opere, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, e comunque manifestatisi successivamente alla stipula del contratto definitivo di compravendita o di assegnazione, senza però previsione di alcuna sanzione nel caso di inadempimento.

Orbene con la Legge delega si intende affidare al Notaio il compito del controllo di legalità sull’adempimento dell’obbligo di stipulazione della sopra detta garanzia fideiussoria e della polizza assicurativa indennitaria e per far ciò si prevede, si immagina in sede di esercizio della delega modificandosi le norme sopra richiamate, una determinata forma ad substantiam del preliminare di cui all’art. 6 del D.Lgs. sopra citato che quella dell’atto pubblico o la scrittura privata autenticata e si estende la sanzione della nullità relativa del contratto anche al caso dell’inadempimento dell’obbligo assicurativo sopra indicato.

Rapporti con le misure penali

L’art. 13 stabilisce principi e criteri direttivi di delega, volti a disciplinare i casi in cui la liquidazione giudiziale si interseca con i procedimenti ablatori su beni di soggetti sottoposti a procedura concorsuale disposti dalla magistratura penale (sequestro e confisca).

Nell’esercizio della delega il Governo deve adottare disposizioni di coordinamento con il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (D.Lgs. n. 159 del 2011), stabilendo condizioni e criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di insolvenza e con la disciplina relativa alla responsabilità amministrativa degli enti (D.Lgs. n. 231 del 2001), e in particolare con le misure cautelari previste da tale normativa, nel rispetto del principio di prevalenza del regime concorsuale, salvo che ricorrano ragioni di preminente tutela di interessi di carattere penale.

Sul punto, ed in attesa dell’esercizio della delega, giova rammentare che è stata varata pochi giorni prima della approvazione in Senato della Legge delega in commento, la Legge di riforma organica del D.Lgs. n. 159/2011 (Legge n. 161/2017) che contiene norme ampiamente riferibili alle problematiche che il Governo è chiamato ad affrontare in sede di esercizio della delega. Si allude alle modifiche all’art. 63 del Codice Antimafia, recante disciplina dei rapporti tra misure di prevenzione e dichiarazione di fallimento dell’imprenditore successiva al sequestro, e all’art. 64 del Codice citato che prevede l’ipotesi in cui la misura ablativa sia successiva alla dichiarazione di fallimento. Si vedrà in che modo la delega verrà esercitata.

Le modifiche al codice civile

L’art. 14 delega il Governo a procedere ad una serie di modifiche al codice civile che sono necessarie, oltre che a risolvere contrasti interpretativi su determinate norme come si ricava nei principi generali, anche a rendere coerenti le stesse nell’ottica della disciplina organica attuata con la Legge delega.

Proprio in tale ottica si deve leggere il contenuto della lett. a) comma 1 dell’art. 14 che prevede espressamente, così prendendo posizione su una dibattuta questione, l’applicabilità dell’art. 2394 c.c., relativo alla responsabilità degli amministratori delle società per azioni verso i creditori sociali, anche alle società a responsabilità limitata ed abroga l’art. 2394 bis c.c. sulle azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali.

Ci sono poi disposizioni che contengono ulteriori accorgimenti che sono funzionali alla effettività delle norme sull’emersione tempestiva della crisi di cui all’art. 4 della Legge delega. Esse sono quelle relative al dovere dell’imprenditore e degli organi della società di creare strutture interne all’impresa tali da consentire una tempestiva rilevazione dello stato di crisi, per potere altrettanto tempestivamente attivarsi per adottare uno degli strumenti di superamento della crisi e di recupero della continuità aziendale previsti dalla riforma (comma 1, lett. b) e quelle secondo cui nell’ambito delle misure protettive che si attivano a seguito delle procedure di allerta, di composizione assistita della crisi, di accordo di ristrutturazione dei debiti e di regolazione concordata preventiva della crisi, prevedono la sospensione delle cause di scioglimento della società relative alla perdita del capitale sociale o alla sua riduzione al di sotto del minimo legale (articolo 2484, n. 4 e articolo 2545-duodecies c.c.), nonché la sospensione di alcuni obblighi degli organi sociali. In particolare, nelle società di capitali, potranno essere sospesi gli obblighi relativi: alla riduzione del capitale sociale in proporzione alle perdite subite (articolo 2446, 1 e 3 comma; articolo 2482-bis, 4, 5 e 6 comma), la cui funzione è quella di ricostituire la corrispondenza tra capitale sociale e patrimonio effettivo, permettendo ai terzi che contrattano con la società di potersi immediatamente rendere conto della situazione economica; all’aumento del capitale sociale per portarlo ad una cifra non inferiore al minimo legale, quando la riduzione del capitale l’abbia portato sotto la soglia prevista dalla legge (articolo 2447 c.c. per le società per azioni; articolo 2482-ter per le società a responsabilità limitata); alla gestione della società da parte degli amministratori (articolo 2486 c.c.).

Si dovrà poi integrare l’elenco delle cause di scioglimento delle società di capitali (di cui all’art. 2484 c.c.), includendovi anche l’assoggettamento alla procedura di liquidazione giudiziale (comma 1, lett. c)) e definire i criteri di quantificazione del danno risarcibile in caso di azione di responsabilità verso gli amministratori che abbiano violato l’art. 2486 c.c., recando danni alla società e ai soci, ai creditori sociali e ai terzi, attraverso una gestione non limitata alla conservazione del patrimonio sociale (comma 1, lett. e).

Vi sono, inoltre, una serie di altre norme che attengono alla disciplina delle società a responsabilità limitata, prima fra tutte quella che estende l’applicabilità alle società a responsabilità limitata, anche prive di organo di controllo, delle disposizioni dell’art. 2409 c.c., in tema di denunzia al Tribunale (delle imprese) delle irregolarità commesse dagli amministratori, norma particolarmente significativa che legittima anche i soci a poter ricorrere al Tribunale per la denuncia delle gravi irregolarità al fine di ottenere rimedi più effettivi rispetto a quello che si può ottenere con la richiesta cautelare di revoca di cui all’art. 2476 c.c. (comma 1, lett. f).

Resta da analizzare quanto contenuto nella lettera g), h) e i) del comma 1 dell’art. 14 in ordine al sistema di controllo. Non può tacersi che la complessa revisione del sistema di controllo è anche strettamente collegato alla necessità di prevedere un assetto organizzativo che possa interpretare anche un ruolo in ordine alla tempestiva emersione della crisi per l’attivazione delle misure di allerta per il superamento della crisi. Si prevede, infatti, che vanno estesi i casi nei quali per le società a responsabilità limitata è obbligatoria la nomina di un organo di controllo o di un revisore, prevedendo comunque la nomina obbligatoria quando la società – per due esercizi consecutivi- presenta alcuni requisiti dimensionali (attivo o ricavi delle vendite superiori a 2 milioni di euro o 10 unità di dipendenti). Inoltre è stabilito che dovrà essere previsto che l’obbligo di nomina dell’organo di controllo o del revisore cessi quando, per tre esercizi consecutivi, i ricordati requisiti dimensionali non vengono superati. Ed infine si prevede che in caso di violazione delle disposizioni sulla nomina dell’organo di controllo il Tribunale possa provvedere su richiesta di ogni interessato o del Conservatore del registro delle imprese.