Rassegna cassazione civile ottobre 2016

a cura di Andrea Penta

Nel corrente mese le Sezioni Unite si segnalano, soprattutto per due pronunce.

Con la prima, a soluzione di un contrasto, hanno affermato che deposito e pubblicazione della sentenza coincidonoe che, nel caso in cui tali momenti risultino impropriamente scissi mediante apposizione in calce alla sentenza stessa di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione proposta nel termine “lungo”, il giudice deve accertare il momento in cui la sentenza è divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria e l’inserimento di essa nell’elenco cronologico delle sentenze con attribuzione del relativo numero identificativo (Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 18569 del 22 settembre 2016, Presidente R. Rordorf, Estensore C. Di Iasi).

Sul tema, come è noto, era già intervenuta Corte Costituzionale, 22/01/2015, n. 3, reputando non fondata, nei termini indicati in motivazione, la q.l.c. degli art. 133, commi 1 e 2, e 327, comma 1, c.p.c., nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art. 46, comma 17, l. 18 giugno 2009 n. 69, come interpretati dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 13794 del 1 agosto 2012, censurati nella parte in cui, qualora le attività di deposito della sentenza e di effettiva pubblicazione della stessa abbiano luogo in due momenti diversi, farebbero decorrere tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza dalla data del suo deposito, con conseguente disparità di trattamento (art. 3, comma 2, cost.) e irragionevole lesione della pienezza e della certezza del diritto di difesa delle parti costituite in giudizio (art. 24, commi 1 e 2 cost.). Per la Consulta, nella procedura di pubblicazione disciplinata dall’art. 133 c.p.c., che si articola nel deposito della sentenza da parte del giudice e nella presa d’atto del cancelliere, l’atto fondamentale è il primo, alla stregua, oltre che del dato letterale (“la sentenza è resa pubblica mediante deposito”), di quello sostanziale, essendo tale soluzione interpretativa l’unica coerente con il diverso ruolo del cancelliere e del giudice. La separazione temporale dei due passaggi procedimentali che viene a crearsi con l’apposizione di due date, comporta al contrario il trasferimento dell’effetto “pubblicazione” dal primo al secondo. Si tratta di una patologia procedimentale grave per la sua rilevante incidenza sulle situazioni giuridiche degli interessati, riflesso del tardivo adempimento delle operazioni previste dall’art. 133 c.p.c., e di quelle relative all’inserimento nell'”elenco cronologico delle sentenze” e al “processo telematico”. Pertanto, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, per costituire “dies a quo” del termine per l’impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, situazione che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest’ultima. Il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende di fatto inoperante la dichiarazione dell’intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa, e qualora ciò accada, il ricorso all’istituto della rimessione in termini per causa non imputabile (art. 153 c.p.c.) va inteso come doveroso riconoscimento d’ufficio di uno stato di fatto “contra legem” che, in quanto imputabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all’impugnazione, riducendone, talvolta anche in misura significativa, i relativi termini (sent. n. 223 del 1993, 17 del 2010).

Con la seconda, hanno chiarito che l’attore rimasto soccombente nel merito non è legittimato ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto in quanto non soccombente su tale capo della decisione (Sezioni Unite civili, Sentenza 20 ottobre 2016, n. 21260, Presidente G. Canzio, Relatore A. Giusti).

La Prima Sezione è intervenuta nuovamente su temi sensibili in tema di famiglia, affermando che ilriconoscimento e la trascrizione nel registro dello stato civile in Italia di un atto straniero, validamente formato, nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne a seguito di procedura assimilabile alla fecondazione eterologa  per aver la prima donato l’ovulo e la seconda condotto a termine la gravidanza con utilizzo di un gamete maschile di un terzo ignoto, non contrasta con l’ordine pubblico dovendosi avere riguardo al principio, di rilevanza costituzionale primaria, del superiore interesse del minore, che si sostanzia nel suo diritto alla conservazione del suo status filiationis, validamente acquisito all’estero (Sezione Prima, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599, Pres. S. Di Palma, Rel. A. Lamorgese).

Ha, poi, rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite Civili affinché queste ultime, già investite, a seguito di ordinanza intelocutoria n. 3472 del 2016, della questione connessa relativa all’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione avverso il decreto di inammissibilità del concordato preventivo  non seguito da sentenza dichiarativa di fallimento, chiariscano – per il caso di sopravvenuta dichiarazione di fallimento – quali siano i rapporti tra l’impugnazione già pendente e il giudizio eventualmente proposto per censurare detta dichiarazione (Sezione Prima Civile, Ordinanza Interlocutoria n. 18558 del 22 settembre 2016, Presidente A. Nappi, Relatore R.M. Di Virgilio).

Già in precedenza, infatti, Cassazione civile, sez. I, 23/02/2016, n. 3472, aveva ritenuto necessario rimettere alle Sezioni Unite la risoluzione del seguente quesito: se, in base alla normativa attualmente in vigore a seguito alla riforma operata dal d.lg. n. 169 del 2007, cd. decreto correttivo, il diniego di ammissione al concordato preventivo, senza che sia intervenuta contemporanea o successiva dichiarazione di fallimento, sia ricorribile, o meno, per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost.

Dal canto suo, la Sezione Sesta Seconda ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite affinché esse riesaminino la questione se il ricorso per cassazione immotivatamente contrario alla giurisprudenza di legittimità, a norma dell’art. 360 bis, n. 1, c.p.c., debba essere dichiarato inammissibile anziché rigettato per manifesta infondatezza (Sezione Sesta Seconda, Ordinanza interlocutoria 11 ottobre 2016, n. 20466, Pres. S. Petitti, Est. F. Manna).

La Terza Sezione (Terza Sezione Civile, Sentenza 26 settembre 2016, n. 18773, Presidente M. Chiarini, Estensore E. Vincenti) ha chiarito che, in materia di danni biologici da sinistro stradale, la disciplina introdotta dall’art. 32, commi 3-ter e 3-quaterdel d.l. n. 1 del 2012, convertito in legge n. 27 del 2012, limitativa del risarcimento dei danni di lieve entità (quelli permanenti solo se “suscettibili di accertamento clinico strumentale”; quelli temporanei se dal riscontro medico legale risulti “visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”), si applica anche ai giudizi in corso, relativi a sinistri verificati in data anteriore all’entrata in vigore della legge (Corte cost. n. 235 del 2014).

Sempre la Seconda Sezione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 312 a 320, della l. n. 311 del 2004, per contrasto con gli artt. 3, 41 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale della CEDU, nella parte in cui riconosce ai custodi giudiziari dei veicoli sottoposti a sequestro, con effetto retroattivo, compensi inferiori a quelli previgenti (Seconda Sezione civile, Ordinanza interlocutoria 21 settembre 2016, n. 18520, Pres. L. Matera, Rel. E. Picaroni).

Da ultimo, in tema di sanzioni amministrative tributarie, la Sezione Tributaria ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della questione interpretativa dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, chiedendo di precisare se tale disposizione, alla luce dell’art. 4 del protocollo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto (nella specie, condotta illecita di manipolazione del mercato) per cui il medesimo soggetto abbia già riportato condanna penale irrevocabile (Sezione Tributaria, Ordinanza interlocutoria 13 ottobre 2016, n. 20675,Pres. ed est. D. Chindemi).

La questione si inserisce nel solco della famosa pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 4 marzo 2014 (Grande Stevens e altri contro Italia, Ric. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10), in tema di ne bis in idem e diritto ad un equo processo.

Ad avviso dei giudici della Corte Europea, dopo che sono state comminate sanzioni dalla Consob, l’avvio di un processo penale sugli stessi fatti violerebbe il principio giuridico del ne bis in idem, secondo cui non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto. I ricorrenti, infatti, dopo essere stati sanzionati nel 2007 dalla Consob, erano stati rinviati a giudizio, per essere poi assolti in primo grado e condannati in appello. Anche se il processo innanzi alla Consob è amministrativo, infatti, le sanzioni inflitte possono essere considerate a tutti gli effetti come penali, anziché amministrative, vista l’eccessiva severità delle stesse – sia per l’importo che per le sanzioni accessorie – oltre che per le loro ripercussioni sugli interessi del condannato (sul fine repressivo delle sanzioni finalizzate alla tutela di interessi tipicamente protetti dal diritto penale cfr. sentenza Menarini c. Italia del 27/9/11). In quanto sanzioni penali, devono dunque osservare le garanzie che l’art. 6 CEDU riserva ai processi penali. La Corte ha così riconosciuto un indennizzo ai ricorrenti per la violazione da parte dell’Italia dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione (diritto a un giusto processo in tempi ragionevoli) nonché dell’articolo 4 del protocollo n. 7 (diritto a non essere giudicati o puniti due volte per i medesimi fatti).

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