Reati culturalmente orientati. La Cassazione stabilisce alcuni parametri per l’individuazione della “norma culturalmente orientata” Brevi note a margine di Cass. Pen., Sez. III, 29 gennaio 2018 (dep. 2 luglio 2018), n. 29613.

di Wilma Pagano

  1. Il caso.

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza in esame è quello di un padre che, unitamente alla madre consapevole, in più occasioni accarezzava, baciava e metteva in bocca l’organo sessuale del figlio di cinque anni.

I giudici di legittimità, dunque, sono stati chiamati a decidere se tale condotta integri gli estremi del reato di cui agli artt. 609 bis e 609 ter c.p. laddove, come in tal caso, i genitori imputati abbiano riferito che in alcune zone rurali dell’Albania, loro Paese d’origine, sia diffusa la pratica tradizionale di accarezzare le parti intime del figlio maschio in quanto espressione di un augurio di prosperità.

  • La decisione.

Il ricorso per Cassazione è occasionato dall’impugnazione presentata dal Procuratore generale avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Bologna, in sostanziale conferma della decisione del Tribunale di Reggio Emilia, aveva assolto entrambi gli imputati perché i fatti loro ascritti non costituivano reato, stante la mancanza dell’elemento psicologico.

Invero, come è evidenziato dal Supremo Collegio, non ricorre in tal caso un’ipotesi di doppia conforme. Il giudice di prime cure, infatti, riconosciuta la natura indubitabilmente sessuale degli atti in contestazione – comprovati dalle testimonianze assunte e soprattutto dalla captazioni audiovisive nella camera da letto dell’imputato – in adesione alla nozione oggettiva da lungo tempo adottata in sede di legittimità, cionondimeno aveva escluso l’integrazione della fattispecie sotto il profilo soggettivo, posto che dalla considerazione della <<valenza culturale del fatto>> doveva concludersi nel senso che nessun dato ulteriore rispetto alla materialità della condotta potesse indurre a ritenere che l’imputato avesse agito con la <<coscienza del carattere oggettivamente sessuale secondo la nostra cultura di riferimento del bacio e tanto più del succhiotto sul pene del bambino anche quando effettuato dal genitore>>.

La Corte d’Appello adita dall’organo di accusa, invece, andando addirittura oltre le argomentazioni del Tribunale, aveva escluso anche che la condotta in imputazione fosse riconducibile alla nozione di atto sessuale indispensabile per la perimetrazione della materialità del reato di violenza sessuale. Tanto, in adesione all’invero abbandonata concezione soggettiva degli atti in questione, in quanto essa non <<ha in sé alcun intrinseco significato sessuale, né alcuna obiettiva attitudine offensiva dell’altrui sfera sessuale>>.

La Sezione III della Corte di Cassazione, annullando con rinvio la decisione impugnata per essere entrambi  i giudici di merito incorsi nei vizi di motivazione denunciati dal P.g., ha chiarito quale percorso il giudice penale debba seguire quando si trovi a giudicare di <<reati culturalmente orientati o culturalmente motivati>> ovverossia di quelle fattispecie criminose riconducibili a differenti sistemi culturali e impostesi all’attenzione degli interpreti in forza dell’imponente fenomeno migratorio che negli ultimi anni sta investendo l’Europa.

Due le principali indicazioni fornite.

In primo luogo nessuna forma di rispetto per le tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino straniero, argomenta la Suprema Corte, potrà mai comportare l’abdicazione del sistema penale alla punizione delle condotte aggressive dei diritti fondamentali, quali i <<diritti inviolabili dell’uomo e i beni ad essi collegati>>.

Essi, pertanto, costituiscono lo sbarramento invalicabile all’attribuzione di una qualunque rilevanza giuridica a qualsiasi prassi o norma di ordinamenti stranieri rispetto ai quali si ponga di fatto la questione del rapporto, di integrazione o di disconoscimento, con quello nazionale.

A supporto di questa impostazione, che richiama espressamente il giudizio di bilanciamento fra il diritto di ciascuno a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose e sociali ed i diritti sacrificati dall’esercizio indiscriminato del primo, vengono citatidiversi precedenti[1].

Ciò posto in premessa, d’altra parte i giudici della Sezione III hannochiarito quando si sia realmente in presenza di un <<reato culturalmente orientato>> e, pertanto, in quali casi il giudice penale debba effettivamente porsi il problema del bilanciamento fra diritti fondamentali in contrasto.

Ebbene, senza adottare una soluzione netta, si è evidenziato come a tal fine assumano rilevanza elementi oggettivi, quali la natura della norma culturale invocata, se di matrice religiosa o giuridica – ed in tal caso addirittura positiva, e il grado di cogenza della stessa; e soggettivi, come il <<grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese di arrivo>> e quello <<di perdurante adesione alla cultura d’origine>>.

Sulla base di questi presupposti i giudici della Sezione III hanno rinvenutoun vizio di motivazione nella decisione impugnata laddove il giudice di merito, nell’escludere la ricorrenza dell’elemento psicologico del reato, aveva del tutto omesso di considerare che la norma culturale invocata era in contrasto con le prescrizioni del codice penale albanese (artt. 100 ss.), era comunque limitata alle sole zone rurali dell’Albania e si riferiva esclusivamente ad accarezzamenti beneaugurali, infine veniva chiamata a scriminare la condotta di imputati sì albanesi ma da lungo tempo residenti in Italia.

  • “Cultura Alfa”.

La decisione della Suprema Corte di Cassazione, che deve ritenersi assolutamente condivisibile nelle conclusioni, nondimeno apre molteplici spazi di riflessione.

Premessa indispensabile di ogni discussione è la definizione, offerta dalla dottrina che negli ultimi anni si è lasciata particolarmente appassionare da questi temi di scottante attualità, di <<reato culturalmente orientato o motivato>>.

Trattasi, si è detto, di <<un comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale dell’agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni>>, con la conseguenza che presupposto indefettibile per la ricorrenza della tipologia di reato in esame è l’esistenza nell’agente di un conflitto <<normativo/culturale>>[2].

Dinanzi a tali “norme culturali”, dalle quali origina il confitto, gli ordinamenti nazionali hanno mostrato di aderire a due opposti modelli:<<assimilazionista>> o <<multiculturalista>>. Dove il primo si traduce in una risposta giuridica indifferente alle diversità culturali dei fruitori del diritto e per ciò solo tendente all’assorbimento delle differenze, nei luoghi di rilevanza pubblica, nello spazio neutrale della legge; il secondo si fonda, al contrario, sul riconoscimento di tali diversità, che si traduce nella predisposizione di un trattamento giuridico differenziato in ragione dell’appartenenza ad un determinato gruppo etnico, talvolta non soltanto da parte delle Corti ma finanche in sede legislativa.[3]

La dottrina ha solitamente posto l’ordinamento giuridico italiano a metà strada fra questi due modelli, evidenziando la presenza sia di norme di carattere multiculturale come l’aggravante della “finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso” di cui all’art. 3 d.l. n. 122/1993, conv. in legge n. 205/1993, sia di fattispecie rispondenti ad un assimilazionismo addirittura discriminatorio come il noto art. 583 bis c.p., introdotto dalla legge n. 7/2006, che punisce qualunque mutilazione genitale femminile in maniera sensibilmente più severa delle lesioni personali dolose gravi e gravissime ex artt. 582 e 583 c.p.[4]

Venendo al caso in esame i giudici di legittimità, che non si sono trovati a decidere di un fatto in cui venisse certamente in discussione l’interferenza di una “norma culturale”, sembrano aver frapposto in premessa il vessillo dell’appartenenza alla cultura dominante.

E tanto non per il contenuto delle argomentazioni svolte ma per la stessa scelta dell’ordine espositivo.

Si esordisce con la delimitazione dei “confini” – e l’immaginazione, particolarmente nei giorni in cui si scrive, corre subito e prima ancora a quelli geografici delle coste del nostro Paese – oltre i quali nessuna diversità culturale può spingersi.

Su di essi si stagliano plastici i diritti fondamentali dell’individuo.

Solo in un secondo momento viene affrontata la questione di quali siano gli elementi che consentano al giudice penale di considerare una condotta criminosa fondata su una norma culturale in conflitto con l’ordinamento interno. Eppure il tema richiamato, che, inoltre, in assenza di parametri di riferimento oggettivi viene solamente abbozzato, costituisce il presupposto logico giuridico del muscoloso giudizio di bilanciamento sfoggiato in apertura.

Quando difetti un’effettiva “norma culturale” a supporto del comportamento criminoso, il giudizio di bilanciamento, in mancanza di un termine della relazione, non ha senso d’essere.

Ciò è evidente nella stessa decisione in esame in quanto, dopo l’esposizione preliminare di cui sopra, la Suprema Corte ha censurato la sentenza del giudice di merito per aver omesso di valutare se ricorresse realmente un “norma culturale” a fondamento della condotta dell’imputato e con questa un conflitto culturale nel suo agire – posto che le doglianze mosse dal P.g. inducevano a nutrire al riguardo un certo scetticismo – e non si è espressa, poiché chiaramente superfluo, sul rapporto fra il diritto adesercitare l’invocata pratica beneaugurale albanese e quello alla libertà sessuale ed all’integrità psico – fisica del minore.

Orbene – e qui forse il punctumdolens – parimenti dovrebbe accadere allorquando l’accertamento dell’esistenza di una “norma culturale” a fondamento del reato conduca ad escludere, tenuto conto della concreta condizione soggettiva dell’imputato, che questi avesse realmente percepito, al momento dell’azione, il disvalore della propria condotta nell’ordinamento giuridico del Paese ospitante.

A sommesso avviso di chi scrivela piena adesione ad una cultura dei valori e dei diritti costituzionali, fra i quali è anche la personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost., impone all’interprete di cercare una risposta alla questione da ultimo esposta, che vada oltre la mera apposizione di un filo spinato lungo la barriera dei diritti fondamentali.

Essa, infatti, appare foriera dell’invero non meno selvaggia responsabilità oggettiva.

  • Inquadramento della cultural defence nel sistema giuridico nazionale.

Giunti a questo punto appare opportuno evidenziare che chi scrive condivide l’opinione maggioritaria che individua nella tutela dei diritti fondamentali lo sbarramento a qualsiasi forma di integrazione che vada nella direzione del reciproco progresso culturale. Cionondimeno fra tali diritti va inserito a pieno titolo anche la personalità della responsabilità penale quale precipitato diretto della libertà individuale.

Che cosa penserebbe, ad esempio, una coppia di turisti italiani che, in transito per l’aeroporto di Dubai, venisse arrestata per essersi lasciata andare ad un bacio in pubblico?

La Sharia, infatti, vieta – in maniera più o meno categorica – questa pratica del tutto naturale in Occidente.

Prima che un contrasto fra diritti fondamentali e culture, viene evidentemente in discussione la consapevolezza che l’agente possa e,per ciò solo, debba avere del disvalore della sua condotta.

Occorre, allora, chiedersi: quando si è in presenza di una “norma culturale”; come essa, interagendo con le condizioni soggettive dell’agente, abbia influito sulla struttura del reato; quali conseguenze giuridiche comporti la perdurante adesione dell’agente ad un sistema culturale altro che generi un conflitto esterno e produca una compressione di diritti fondamentali.

Senza alcuna pretesa di esaustività, tenuto conto anche dell’eterogeneità dei reati riconducibili ad una motivazione culturale[5], con riferimento al primo punto la valutazione della diversa conformazione degli ordinamenti giuridici suggerisce di non fissare i parametri selettivi della “norma culturale” lungo il crinale di una preconcetta gerarchia delle fonti, quanto piuttosto di avere riguardo al grado di cogenza, nell’ordinamento giuridico di provenienza, della norma che ha generato il conflitto e fondato la condotta criminosa.

L’opportunità di una scelta di questo genere è, in via solo esemplificativa, deducibile da quanto accade in alcuni Paesi del Mondo arabo come l’Iran.

Mediante la Sharia, gli Hadite il “Consiglio dei Guardiani”,non soltanto non vi è alcuna demarcazione di confini fra diritto e religione ma è quest’ultima a determinare infine i dettami cui deve conformarsi il comportamento pubblico dei cittadini[6].

Ciò che è soltanto precetto morale nel nostro sistema è altrove diritto pubblico.

Ne discende che, ai fini della valutazione preliminare se realmente esista una “norma culturale” che abbia generato un conflitto, è indispensabile una certa dose di relativismo culturale[7]e, perciò,rapportare la nozione di norma al contesto etno – culturale in cui essa si iscrive e valutare l’intensità del comando che essa veicola. Tanto, v’è da ritenere, attraverso l’analisi del tipo di sanzione che è associato alla sua violazione.

Accertato preliminarmente se esista una norma culturale, venendo al secondo dei punti indicati in premessa, occorre allora che il giudice penale si interroghi sull’inquadramento giuridico di tale norma all’interno del nostro sistema.

Chi scrive concorda con quella dottrina che ritiene non necessaria l’introduzione di una disposizione ad hoc che positivizzi la cd. cultural defence,a motivo del fatto che il codice penale italiano dispone di strumenti sufficienti a tradurre, anche con la necessaria flessibilità, la valenza nell’illecito della motivazione culturale.

Va escluso certamente che si possa parlare di “scriminante culturale” in termini di causa di esclusione dell’antigiuridicità del fatto per l’assorbente ragione che tanto, lungi dal favorire un’integrazione fra sistemi culturali direzionata a garantire, senza pregiudizio per la territorialità della legge penale, il principio di personalità della responsabilità penale, aprirebbe la strada, invece, alla prevaricazione del sistema giuridico del Paese ospitante da parte di ciascuno di quelli dei diversi Paesi di provenienza.

La motivazione culturale, invece, appare attingere all’area della colpevolezza in punto, a seconda del caso concreto, di ricorrenza stessa ovvero di intensità dell’elemento soggettivo della fattispecie.

Ai fini di questo giudizio assumono rilievo quegli aspetti soggettivi richiamati dalla Suprema Corte nella sentenza in esame, come il livello di scolarizzazione dell’imputato e il tempo della sua presenza sul territorio dello Stato al momento della commissione dell’illecito, i qualisi ritiene non attengano, invece, al diverso profilo, analizzato in precedenza, dell’esistenza o meno di una “norma culturale”.

Ciò posto, possono prospettarsi almeno tre casi.

  1. Ignoranza scusabile della legge penale ai seni dell’art. 5 c.p.

Significativo è come tutti i precedenti richiamati dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza in commento assumano come presupposto della decisione la conoscibilità del precetto penale da parte dell’agente.

Gli è, infatti, che per non incorrere in surrettizie forme di reintroduzione di zone buie di responsabilità oggettiva il giudice penale deve interrogarsi sulla conoscibilità della norma interna di conflitto da parte dell’agente al momento della commissione dell’illecito.

Quando, dunque, si tratti di straniero proveniente come nella gran parte dei casi da aree depresse o, peggio ancora, da zone di guerra dove l’accesso ai canali informativi è scarso se non nullo, non sufficientemente scolarizzato, che abbia commesso un reato culturalmente motivato pochi giorni dopo il suo arrivo in Italia, salve tutte le ulteriori specificità del caso concreto, va esclusa la stessa conoscibilità del precetto penale, scusata l’ignoranza e rilevato che il fatto non costituisce reato. Anche quando siano stati sacrificati diritti fondamentali.

Tanto già prevede, in realtà, il codice penale in materia di reati commessi da soggetti giudicati inimputabili ai sensi dell’art. 88 c.p.

Qualunque diversa soluzione significherebbe abdicare in parte qua al principio costituzionale della responsabilità penale e con questo a quello della preminente funzione rieducativa della pena nonché dell’inviolabilità della libertà individuale ex artt. 27 e 13 Cost. in nome di una preconcetta idea di delitti naturali, offensivi di diritti fondamentali, facenti parte del patrimonio culturale innato di ciascun individuo.

  • Circostanze del reato. Attenuazione del trattamento sanzionatorio.

Se non merita condivisione l’atteggiamento difensivo di vestire di diritti fondamentali le istanze di sicurezza sociale da soddisfare a colpi di responsabilità oggettiva, il discorso è opposto- e costituisce un tentativo di fornire una risposta al terzo punto dell’analisi indicata in premessa –  allorquando si discorre del diverso profilo della perdurante adesione dello straniero al sistema di norme del Paese di provenienza.

Il riferimento è alla nota pronuncia con la quale la Sezione I del Supremo Collegio ha escluso che potesse essere scriminata la condotta dell’indiano “sikh” che, in adesione alla propria vincolante tradizione culturale, portasse fuori dalla propria abitazione il suo kirpan in quanto chiunque decida liberamente di stabilire la propria vita nel territorio dello Stato ha il dovere di informarsi sulle leggi ivi vigenti e di rispettarle, pena l’irrogazione delle sanzioni preposte a garantirne l’osservanza.[8]

Non è possibile, cioè, che al di fuori dell’ignoranza scusabile della legge penale si costituiscano, al contrario, zone franche di responsabilità e di ingiustificabile compressione della tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.

In tali casi, dunque, nei quali pare iscriversi quellodei genitori albanesi da lungo tempo presenti in Italia e pienamente integrati nel contesto sociale ove conducevano la propria vita, non è in alcun modo ipotizzabile il ricorso ad una scusante mentre, a seconda delle specificità del caso di volta in volta sottoposto all’attenzione del giudicante – con riferimento ad esempio alla stessa natura del bene giuridico attinto dalla condotta criminosa – potrà valutarsidi ricorrere alle circostanze attenuanti generiche o, quanto meno, di escludere ove sia in contestazione l’aggravante dei motivi abbietti o futili ex art. 61 n. 1) c.p.[9]

  •  Circostanze del reato. Aggravamento del trattamento sanzionatorio.

Non può aprioristicamente escludersi, infine, che in alcune occasioni la cultural defencesia invocata in maniera strumentale da stranieri perfettamente integrati nel Paese ospitante al fine di vedere attenuata la severità della sanzione se non esclusa la punibilità.

In tali casi la condotta criminosa deve ritenersi addirittura aggravata dalla intensità del dolo dell’agente, con la conseguenza che sarà prima compito della pubblica accusa valutare se le motivazioni che lo abbiano spinto a delinquere siano abiette o futili e, se così non fosse, poi del giudice tenerne conto in punto di commisurazione del trattamento sanzionatorio ex art. 133 c.p.p.

È appena il caso di accennaresolamente in questa sede, da ultimo, alla rilevanza che può assumere l’uso strumentale di una “norma culturale” da parte dell’agente per rendersi più agevole la perpetrazione del reato e rilevare come la motivazione culturale meriti di essere analizzata anche dalla parte della vittima del reato che, sempre nel prisma della cultura dominante, difficilmente assume le vesti dello straniero.

  • Brevi osservazioni conclusive.

A margine di queste brevi note nello spazio sconfinato del contatto fra differenti universi culturali, due temi di riflessione almeno sembra si impongano in maniera consequenziale all’attenzione dell’interprete.

Il primo è certamente quello della formazione della prova in giudizio dell’esistenza di una “norma culturale” a fondamento della condotta criminosa in imputazione.

Al riguardo merita condivisione la soluzione proposta da una parte della dottrina che, riconoscendo carattere tecnico – scientifico all’indagine sulle norme culturali da attribuirsi ad esperti sociologi o etno – atropologi, ipotizza il ricorso ad una perizia culturale[10].

Il secondo attiene, invece, alla possibilità di immaginare una risposta -che sia compatibile con l’art. 27 Cost. – alle istanze di sicurezza sociale lasciate insoddisfatte nei casi in cui trovi applicazione dell’art. 5 c.p.

Ebbene pare si possano aprire spazi di riflessione sulla possibilità diricorrere ad una misura di sicurezza.

Una volta che sia stata accertata la pericolosità sociale del soggetto non punibile,resosi responsabile dell’aggressione ad un bene giuridico presidiato da tutela penale e, ancor più, di un diritto fondamentale della persona, non appare peregrinoimmaginare l’imposizione della libertà vigilata con prescrizioni che, ad esempio, obblighino lo straniero ad avere contatti con i servizi sociali, a non frequentare luoghi che siano riferibili alle peculiarità delle fattispecie criminose di volta in volta implicate, ad adoperarsi concretamente per iscriversi nel solco di un’integrazione culturale – certamente non del tutto assimilazionista – ed eventualmente per cercare spazi di conciliazione, ove ci sia, con la vittima del reato.

Nelle ipotesi più allarmanti, poi, potrebbe prevedersi un collocamento temporaneo in R.e.m.s. con la predisposizione di programmi dedicati di integrazione culturale.

Giunti davvero al termine di queste brevi riflessioni, se esse non avranno avuto alcun pregio,si auspica che abbiano almeno riportato la mente del lettore come quella di chi scrive ad un motivo, immaginato da un famoso produttore ed artista geniale, che mi era caro in un tempo non troppo lontano. Introdotto dall’incontro fra un uomo bianco e una donna indigenache, completando le parole del primo diceva <<selvaggio vuol dire…Non come te>>, parafrasando recitava: <<Se mi definisci una selvaggia, allora puoi spiegarti che sono tante cose che non sai?>>.


[1] Fra questi, in modo particolare, la decisione della Sezione III che, in un caso di violenza sessuale intraconiugale fra soggetti entrambi di nazionalità marocchina, aveva escluso che le tradizioni culturali personali potessero influire sull’integrazione del reato, in virtù del principio di territorialità della legge penale e dell’onere di chiunque agisca sul territorio dello Stato di informarsi sulle sue leggi e di osservale (Cass. Pen., Sez. III, 26 giugno 2007, n. 34909); la successiva della Sezione VI che, dinanzi ad soggetto marocchino, imputato di maltrattamenti, violazione degli obblighi di assistenza familiare, sequestro di persona e violenza sessuale ai danni della moglie, il quale invocava in punto di elemento soggettivo le differenti potestà riconosciute al capo famiglia nell’ordinamento di provenienza, ha evidenziato l’assoluta irrilevanza della mera diversità fra legge italiana e qualunque fonte normativa del proprio paese di origine ai fini dell’ignoranza scusabile della legge penale (Cass. Pen., Sez. VI, 26 novembre 2008 – dep. 16 dicembre 2008, n. 46300); infine la decisione con cui la stessa Sezione VI ha delineato i parametri oggettivi, come la differenza culturale e il grado di integrazione, e soggettivi, come ad esempio il livello di alfabetizzazione dell’imputato, che devono orientare il giudizio imposto dall’art 5 c.p. come modificato dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 364/1988 (Cass. Pen., Sez. VI, 22 giugno 2011, dep. 24 novembre 2011, n. 43646).

[2] La definizione appare in Basile F., Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.4, 2007, pag. 1296 ,che richiama le parole di . van Broeck, Cultural Defense and CulturallyMotivatedCrimes (Cultural Offences), in European Journal of Crime, Criminal Law and CriminalJustice, 2001, n. 1, p. 1 ss.Centrali in materia di  “reati culturalmente orientati sono gli scritti di F. Basile,  Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, 2010; A. Bernardi, Il “fattore culturale‛ nel sistema penale, Torino, 2010; C. De Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010. Giova precisare che i termini “cultura” e “società multiculturale” sono adoperati nel testo nell’accezione fornita da F. Basile, indicando rispettivamente: un <<sinonimo di “nazione” o “popolo”, che designa una comunità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte>>; una società multiculturale di tipo polietnico, in cui <<il pluralismo culturale trae origine dall’immigrazione di individui e famiglie>> e non invece come accade nelle società di tipo multinazionale <<dall’assorbimento (a seguito di processi di colonizzazione, conquista o confederazione) in uno Stato più grande di culture territorialmente concentrate che in precedenza si governavano da sole>>.

[3] Cfr. Basile F., Società multiculturali, immigrazione e reati culturalmente motivati (comprese le mutilazioni genitali femminili), cit., ove si evidenzia come tradizionalmente, e pur non mancando aree promiscue, la Francia abbia adottato il modello assimilazionista e l’Inghilterra quello multiculturalista.

[4] Sul tema delle mutilazioni genitali femminili va segnalata l’ampia disamina di L. Bellucci, Consuetudine, diritti e immigrazione. La pratica tradizionale dell’escissione nell’esperienza francese, Milano, 2012, spec. Pag. 55 ss.

[5] Cfr. sul punto Grandi C.,A proposito di reati culturalmente motivati,  ove l’Autore evidenzia come tali reati, pur essendo numerosi, siano riconducibili ad un numero chiuso di tipologie offensive; quindi ne fornisce un’ampia elencazione, ricordando: le mutilazioni genitali femminili; le condotte violente in ambiente domestico, come i maltrattamenti nei confronti dei minori e delle donne in attuazione di un’ancestrale concezione dello ius corrigendi; l’uso della violenza in funzione vendicativa di un torto subito, come nei casi delle “vendette di sangue” motivate da una visione arcaica dell’onore; i comportamenti illeciti attinenti la sfera sessuale, come i rapporti con le minorenni, usuali nei contesti ove la maturazione psico-fisica delle fanciulle si considera raggiunta in verde età, o le violenze sessuali intraconiugali, ovvero ancora le ipotesi di ‘ratto a fine dimatrimonio; le molteplici violazioni dei diritti dell’infanzia, come nel caso dell’avviamento precoce dei minori al lavoro, all’accattonaggio o, peggio, alla commissione di reati contro il patrimonio, magari in dispregio dell’obbligo scolare; le condotte di importazione, commercio e cessione di stupefacenti attuate da parte di membri di gruppi minoritari presso i quali l’impiego di certe sostanze (le foglie di coca, il khat, la cannabis) assume valore liturgico o curativo; l’utilizzo di taluni accessori nell’abbigliamento rituale di certe confessioni religiose, che talvolta potrebbe comportare la violazione di norme penali, come nei casi di porto in luogo pubblico del coltello tradizionale (il kirpan) dei sikh; l’uso da parte di questi ultimi del turbante in luogo del casco protettivo obbligatorio all’interno dei cantieri o alla guida dei motoveicoli; quello di veli femminili in grado di nascondere i tratti del viso (il burqa) anche nel corso di pubbliche manifestazioni.

[6]Un’approfondita disamina del tema può trovarsi in Acconcia G., Il Grande Iran, Roma, 2016, pag. 60 ss.

[7] Alla necessità di tale moderato “relativismo culturale” ha fatto espressamente riferimento Cass. Pen., Sez. VI, 22 giugno 2011, dep. 24 novembre 2011, n. 43646.

[8] Cfr. Cass. Pen., Sez. I, 31 marzo 2017, n. 24084. Sul tema cfr. Bernardi A., Populismo giudiziario? l’evoluzione della giurisprudenza penale sul kirpan, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.2, 1° giugno 2017, pag. 671; Mazzanti E., Osservazioni a Cass. Pen., Sez. Sez. I, data udienza ud. 31 marzo 2017, data deposito (dep. 15 maggio 2017), n. 24084, inCassazione Penale, fasc.12, 2017, pag. 4476.

[9]Cfr. sul punto Cass. Pen., Sez. I, 18 dicembre 2013, n. 51039, ove la Suprema Corte ha escluso l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1) c.p. nel caso di un imputato che aveva tentato di uccidere la figlia colpevole di aver avuto rapporti sessuali prematrimoniali con un ragazzo di una diversa religione, così violando i dettami dell’Islam. Pur non essendo condivisibili le motivazioni che avevano spinto l’imputato a delinquere, esse non potevano, comunque, considerarsi né lievi né banali.

Sull’opposto versante dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1) c.p., poi, la giurisprudenza di legittimità è omogenea nel ritenere che, ai fini dell’integrazione dell’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, <<non è sufficiente l’intima convinzione dell’agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l’obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici e sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività>>.

[10] Così De Maglie C., I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, cit., p. 157, ove l’Autrice fuga le perplessità di altra dottrina, fra cui Basile F., sull’inammissibilità della perizia culturale per violazione dell’art. 220 c.p.p. Sul tema cfr. anche Bigiarini A.,La prova culturale nel processo penale the cultural evidence in criminalproceedings, in Cassazione Penale, fasc.1, 1° gennaio 2018, pag. 0411B.