Relazione del Massimario su Legge n. 68 del 22 maggio 2015, recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente” a cura di Pietro Molino

C O R T E   D I   C A S S A Z I O N E

UFFICIO DEL MASSIMARIO

Settore penale

Rel. n. III/04/2015                                                       Roma, 29 maggio 2015

Novità legislative: Legge n. 68 del 22 maggio 2015, recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”.

Rif. Norm.:

Artt. 434, 449 cod. pen.

D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152

Legge 7 agosto 1982, n. 704

Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231

Legge 7 febbraio 1992, n. 150

Sommario: Premessa. -1. Il delitto di inquinamento ambientale-1.1. segue: la compromissione o il deterioramento “significativi e misurabili” – 1.2. segue: l’oggetto della compromissione o del deterioramento – 1.3 segue: il rapporto di causalità – 1.4. segue: l’abusività della condotta – 1.5.: segue: ancora sulla nozione di “abusivamente” – 2. Il delitto di morte o lesioni come conseguenza non voluta del delitto di inquinamento ambientale – 3. Il delitto di disastro ambientale – 3.1. segue: la condotta – 3.2. segue: la clausola di riserva – 4. L’elemento soggettivo. L’inquinamento e il disastro ambientali colposi – 5. Il delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività – 6. L’impedimento del controllo – 7. Le aggravanti – 8. Il “ravvedimento operoso” – 9. Le disposizioni sulla confisca – 10. Il ripristino dello stato dei luoghi e il reato di omessa bonifica – 11. La responsabilità degli enti da delitto ambientale – 12. L’intervento sulla prescrizione – 13. L’estinzione delle contravvenzioni ambientali – 14. Le disposizioni residue.

 PremessaCon la legge 22 maggio 2015, n. 68, vengono introdotte nell’ordinamento fattispecie di aggressione all’ambiente costituite sotto forma di delitto. Una innovazione attesa da lungo tempo[1], nel corso del quale la risposta sanzionatoria a fenomeni criminali di massiccio, quando non irreparabile, inquinamento dell’ecosistema è stata affidata all’utilizzo – sovente discusso e comunque non privo di criticità sia sul piano sostanziale che sotto l’aspetto processuale/probatorio – del cd. disastro “innominato” previsto dall’art. 434 del codice penale.
 Proprio in funzione della necessità di uscire dalle difficoltà interpretative ed applicative di una norma indiscutibilmente legata ad altri contesti di “disastro”, più immediatamente percepibili sul piano fenomenico, e allo stesso tempo volendo chiudere il cerchio del catalogo sanzionatorio presidiando penalmente ogni livello di alterazione peggiorativa delle matrici ambientali, il legislatore ha dunque introdotto nel codice penale due nuove figure delittuose (inquinamento ambientale e disastro ambientale), accompagnandole con altre previsioni incriminatrici giudicate necessarie per la tenuta complessiva del sistema e con ulteriori interventi di raccordo con il Codice dell’Ambiente e con la disciplina della responsabilità degli enti. 
 Nonostante nell’articolato non vi siano espliciti richiami alle fonti eurounitarie, la novella si collega a quanto richiesto dalla Direttiva dell’Unione Europea 2008/99/CE del 19 novembre 2008 sulla protezione dell’ambiente mediante il diritto penale, il cui Preambolo (art. 5) precisa che “attività che danneggiano l’ambiente, le quali generalmente provocano o possono provocare un deterioramento significativo della qualità dell’aria, compresa la stratosfera, del suolo, dell’acqua, della fauna e della flora, compresa la conservazione delle specie” esigono sanzioni penali dotate di maggiore dissuasività. 
 La Direttiva indica dunque gli elementi di offensività dei reati di cui chiede l’introduzione nei sistemi nazionali, al fine di garantire uno standard minimo comunitario di tutela penale dell’ambiente. 
 Si tratta però di una indicazione generale che necessita, in sede di traduzione normativa interna, di un livello di specificazione idoneo a soddisfare i principi costituzionali di precisione, tassatività e offensività che presidiano la materia penale.
 Sotto questa angolazione, la lettura della novella legislativa palesa la difficoltà del legislatore nel raggiungere un punto di equilibrio fra istanze apparentemente antagoniste: da una parte, l’esigenza di una definizione quanto più puntuale delle fattispecie, operazione che non pare sempre centrare pienamente l’obiettivo, soprattutto quando vengono introdotti concetti a contenuto “aperto” o connotazioni modali delle condotte la cui portata potrà essere misurata solo nella pratica; dall’altra, la necessità di non imbrigliare l’assetto normativo in una casistica che non può a priori esaurire tutta la possibile gamma delle manifestazioni criminose e che rischierebbe, oltretutto, di vanificare la stessa praticabilità processuale della risposta legislativa. 

In concreto, la legge 68/2015 è composta da tre articoli.

Il nucleo fondamentale del provvedimento è costituito dall’art. 1, contenente un complesso di disposizioni che, in particolare, inseriscono nel codice penale un inedito titolo VI-bis (Dei delitti contro l’ambiente), composto da 12 articoli (dal 452-bis al 452-terdecies); all’interno di tale nuovo titolo sono previsti cinque nuovi delitti, inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento del controllo, omessa bonifica.        

L’articolato contempla altresì una forma di ravvedimento operoso per coloro che collaborano con le autorità prima della definizione del giudizio, ai quali è garantita una attenuazione delle sanzioni previste. Tra le altre previsioni, si segnalano:
 – l’obbligo per il condannato al recupero e – ove possibile – al ripristino dello stato dei luoghi, il raddoppio dei termini di prescrizione del reato per i nuovi delitti, nonché apposite misure per confisca e pene accessorie;
 – la revisione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in caso di reati ambientali;
 – l’introduzione nel Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (cd. Codice dell’Ambiente) di un procedimento per l’estinzione delle contravvenzioni ivi previste, collegato all’adempimento da parte del responsabile della violazione di una serie di prescrizioni nonché al pagamento di una somma di denaro;
 – la modifica della disciplina sanzionatoria delle violazioni della legge 150/1992 relativa alla Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione (art. 2 della legge).
 Con la inevitabile sommarietà di una primissima lettura, nella presente relazione si cercherà di analizzare gli aspetti più importanti della normativa, dedicando maggiore attenzione alle nuove fattispecie penali e alle criticità segnalate durante il lungo iter di gestazione della riforma.    

1. Il delitto di inquinamento ambientale.

Il comma primo del nuovo art. 452-bis cod. pen. punisce con la reclusione (da due a sei anni) e con la multa (da euro 10.000 a euro 100.000) chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili:

1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sotto-suolo;

2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.

Distaccandosi dal modello di illecito costruito sull’esercizio di attività inquinante in difetto di autorizzazione ovvero in superamento dei valori soglia, la previsione risulta costruita come delitto di evento e di danno, dove l’evento di danno è costituito dalla compromissione o dal deterioramento, significativi e misurabili, dei beni ambientali specificamente indicati.

In quanto concepito come reato a forma libera (“chiunque…cagiona…”), l’inquinamento nella sua materialità può consistere non solo in condotte che attengono al nucleo duro – acque, aria e rifiuti – della materia, ma anche mediante altre forme di inquinamento o di immissione di elementi come ad esempio sostanze chimiche, OGM, materiali radioattivi e, più in generale, in qualsiasi comportamento che provochi una immutazione in senso peggiorativo dell’equilibrio ambientale. Inoltre, l’inquinamento potrà essere cagionato sia attraverso una condotta attiva, ossia con la realizzazione di un fatto considerevolmente dannoso o pericoloso, ma anche mediante un comportamento omissivo improprio, cioè con il mancato impedimento dell’evento da parte di chi, secondo la normativa ambientale, è tenuto al rispetto di specifici obblighi di prevenzione rispetto a quel determinato fatto inquinante dannoso o pericoloso.

Una prima osservazione attiene evidentemente al rapporto e coordinamento fra la definizione di inquinamento data dalla norma e quella, già conosciuta dall’ordinamento, di cui all’articolo 5 del Codice dell’Ambiente (D. Lgs. 152/2006), che definisce l’inquinamento ambientale come “l’introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell’aria, nell’acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente o ad altri suoi legittimi usi“; nozione che sembra conservare la funzione di canone ermeneutico utile per qualificare, nelle sue concrete estrinsecazioni, ogni forma di alterazione peggiorativa dell’ambiente, laddove alla novella è assegnato il compito di definire il momento in cui una condotta di alterazione assume le connotazioni quali/quantitative del delitto di inquinamento vero e proprio.

1.1. segue: la compromissione o il deterioramento “significativi e misurabili”.

Il risultato della condotta materiale si sostanzia in una “compromissione” o un “deterioramento”.

Il discrimine fra le due situazioni non è agevole.

Dal punto di vista strettamente lessicale, la prima espressione si distingue dalla seconda per una proiezione dinamica degli effetti, nel senso appunto di una situazione tendenzialmente irrimediabile (“compromessa”) che può perciò teoricamente ricomprendere condotte causali al tempo stesso minori o maggiori di un’azione di danneggiamento, ma che rispetto a questo abbiano un maggior contenuto di pregiudizio futuro.

In ambito normativo, i due termini si rinvengono insieme, ma in una diversa relazione tra loro (il “deterioramento” inteso come forma di “compromissione”), nella definizione di danno ambientale data dall’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente), individuato in “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”; una formula che corrisponde alla progressione misurabile (secondo parametri scientifici) del danno ambientale, al cui interno il deterioramento coincide in una perdita del grado di usabilità e/o di funzionalità ecologica.

Nel D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, invece, il termine “compromissione” non è quasi mai utilizzato e, laddove lo è, non è impiegato per indicare una situazione di danno attuale, per la quale si utilizza invece il termine “deterioramento” (art. 300).

Nell’assenza di inequivoci riscontri testuali, non può anche escludersi un significato dei due lemmi se non identico (interpretando l’espressione come un endiadi, nonostante la presenza della disgiuntiva “o”) quanto meno largamente sovrapponibile, il cui nucleo comune è rintracciabile in quella situazione fattuale risultante da una condotta che ha determinato un danno all’ambiente.

Con riferimento al requisito della “significatività” e “misurabilità”, va ricordato che nella lettura definitiva è stata abbandonata una prima formulazione che, nel pretendere un inquinamento “rilevante”, lasciava aperte tutte le perplessità sul rispetto del principio di determinatezza di cui al secondo comma dell’articolo 25 della Costituzione.

Peraltro, anche in rapporto alla previsione finale, sicuramente più puntuale, non pare inutile richiamare l’insegnamento della Corte Costituzionale (Sentenza n. 247 del 15 maggio 1989) che, relativamente a tutt’altra fattispecie, ritenne non fondata la questione di legittimità costituzionale prospettata con riferimento all’impiego della nozione “misura rilevante”, sulla base del rilievo che (in quella fattispecie) la misura rilevante non integrava uno degli elementi costitutivi del reato ma soltanto un “filtro selettivo, che non incide sulla dimensione intrinsecamente offensiva del fatto, ma ne connota solo la gravità, contrassegnando il limite a partire dal quale l’intervento punitivo è ritenuto opportuno“, dovendosi pertanto la predetta misura rilevante piuttosto assimilare alla figura della condizione obiettiva di punibilità; ed osservando ancora che nella fattispecie in esame “la ‘misura rilevante’ non può ragionevolmente far parte dell’oggetto del dolo“.

Venendo allora alla formulazione prescelta, se la “significatività” indica una situazione di chiara evidenza dell’evento di inquinamento in virtù della sua dimensione, la richiesta compresenza di un coefficiente di “misurabilità” rimanda alla necessità – ridondante ovviamente sul piano probatorio – di una oggettiva possibilità di quantificazione, tanto con riferimento alle matrici aggredite che ai parametri scientifici (biologici, chimici, organici, naturalistici, etc.) dell’alterazione; finendo così inevitabilmente per richiamare quella quantificazione e gradazione del danno ambientale, di cui al già citato art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349.   

Il concetto di compromissione o deterioramento “significativi e misurabili” riprende peraltro la definizione di danno ambientale di cui all’art. 300 del Codice dell’Ambiente (“qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”) e la stessa nozione comunitaria di “danno ambientale” posta dalla direttiva 2004/35/CE, che usa l’espressione “mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”.

In concreto, il confine sul lato inferiore della condotta dovrebbe essere rappresentato dal mero superamento delle concentrazioni soglie di rischio (CSR) – punito dalla diversa fattispecie di pericolo prevista dall’art. 257 del D. Lgs. 152 del 2006, ove non seguito dalla bonifica del sito – che non abbia arrecato un evento di notevole inquinamento; mentre sul versante opposto la fattispecie confina, nella progressione immaginata dal legislatore, con il più grave reato di disastro, che pretende (come di dirà oltre) una alterazione “irreversibile o particolarmente onerosa” dell’ecosistema: di modo che l’inquinamento è ravvisabile in tutte le condotte di danneggiamento delle matrici che, all’esito della stima fattane, producono una alterazione significativa del sistema, senza assumere le connotazioni dell’evento tendenzialmente irrimediabile.

1.2. segue: l’oggetto della compromissione o del deterioramento.

Quanto al bersaglio della compromissione, identiche considerazioni in punto di tipicità valgono per l’inciso “porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo“: è indubbio che categorie così (in)definite possano provocare incertezze in sede processuale e, soprattutto, dilatare eccessivamente lo spazio di discrezionalità del giudicante; tuttavia è possibile immaginare che, come avvenuto in altre occasioni (si guardi agli approdi di legittimità in tema di “ingente quantitativo di rifiuti” ex art. 260 D. Lgs. 152/2006o, in tutt’altro ambito, in tema di “ingente” quantità di stupefacente), il percorso giurisprudenziale possa enucleare – con sufficienti margini di conoscibilità del precetto e conseguente prevedibilità della sanzione – le caratteristiche della “estensione” (da valutare, salvo errori, con esclusivo riferimento al dato spaziale quantitativo) e della “significatività” (indicativa invece di una rilevanza non strettamente ancorata al parametro dimensionale ma, appunto, alla significatività dell’area all’interno del territorio circostante).

Nonostante l’inserimento nella carta costituzionale, non si rinviene una vera e propria definizione normativa di “ecosistema”, per cui deve farsi riferimento alla comune accezione che definisce per tale l’insieme degli organismi viventi (comunità), dell’ambiente fisico circostante (habitat) e delle relazioni biotiche e chimico-fisiche all’interno di uno spazio definito della biosfera.

Opportunamente, la stesura definitiva della norma, mutando una precedente versione che operava un riferimento all’ecosistema in generale, parla diunecosistema, eliminando ogni incertezza sulla integrazione del reato anche in presenza di aggressione al singolo ecosistema (si pensi a particolari micro-contesti ambientali, come ad esempio aree ben delimitate e caratterizzate da specifiche biodiversità).

La struttura elencativa della previsione e l’utilizzo delle disgiuntive lascia infine intendere che l’inquinamento ambientale risulta integrato, ricorrendone tutti gli ulteriori presupposti, in presenza delle compromissione o del deterioramento di uno soltanto (acqua, aria, suolo, e così via) dei beni ambientali aggrediti. 

 1.3 segue: il rapporto di causalità.

 Rispetto alla versione approvata in un primo passaggio alla Camera dei Deputati, dal testo dell’articolo è stato eliminato l’inciso “o contribuisce a cagionare” che era presente dopo la parola “cagiona“: non pare peraltro che tale dinamica parlamentare possa diversamente indirizzare gli esiti interpretativi derivanti dall’applicazione della regola ordinaria di cui all’art. 41 cod. pen., nel senso di consentire di escludere la rilevanza delle concause (preesistenti, concomitanti o sopravvenute) dell’evento di inquinamento.

Ciò nondimeno, la problematica assume una evidente importanza a seguito della declinazione del reato in termini di delitto di evento, sembrando evidente la necessità – d’ora in avanti – della prova di un diretto ed indiscusso rapporto eziologico, sia pure in termini di concausa, fra la condotta e l’evento di inquinamento, sicché non potranno non essere prese in considerazione ed attentamente valutate le situazioni molto frequenti di preesistente compromissione delle matrici ambientali.

 Sotto questo aspetto, è chiaro che la costruzione normativa della fattispecie di inquinamento (e di disastro) in forma di reato di evento passa, sul piano processuale e probatorio, attraverso sentieri meno agevoli rispetto a quelli praticabili nei casi in cui il reato si perfeziona a seguito del mero superamento formale di valori-soglia predeterminati: situazioni – le ultime – che anch’esse non prescindono certamente dalla verifica dello status quo ante (anche ai fini della misurazione del superamento del valore soglia), ma che non necessitano dei faticosi accertamenti ricostruttivi della “causa” dell’inquinamento o del disastro, allorquando detta causa non sia identificabile in una condotta contenuta in un determinato segmento spazio/temporale ma risulti essere invece la sommatoria di comportamenti distruttivi ripetuti e consolidati negli anni.

1.4. segue: l’abusività della condotta.

Abbandonando anche in questo caso una versione approvata in prima lettura dalla Camera dei Deputati, il testo definitivo della disposizione adopera il termine “abusivamente” per definire il carattere illecito della condotta di inquinamento (come di quella di disastro, di cui si dirà più oltre); la formulazione precedente puniva invece la condotta in quanto effettuata “in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale”.

L’eliminazione del riferimento alle sole violazioni poste a tutela dell’ambiente è stata giustificata con lo scopo di eliminare ogni incertezza sulla configurabilità del reato anche per effetto di condotte di inquinamento (e di disastro) consumate mediante infrazione di regole volte a tutelare in via immediata interessi diversi[8] ma collegati alla tutela ambientale.       

Stando alle dichiarazioni programmatiche, mediante tale sostituzione il legislatore ha inteso poi superare le questioni che il richiamo alle disposizioni comportava, rispettivamente, sul piano del concorso di reati ovvero del concorso apparente di norme penali o, nel caso di illecito amministrativo, sul piano dell’applicabilità del principio di specialità di cui all’articolo 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Nella formulazione precedente, infatti, l’evento di compromissione o deterioramento rilevante dell’ambiente era esplicita conseguenza di una condotta costituente di per sé illecito amministrativo o penale: il tenore letterale della disposizione suggeriva apertamente l’idea di un reato complesso, comprendente in sé altro illecito penale (o amministrativo) con in più l’evento tipizzato, ovvero la compromissione o il rilevante deterioramento ambientale.

La questione peraltro non pare priva di rilievo anche con la stesura definitiva, poiché rimane comunque presente l’interrogativo sul se e quando è possibile ipotizzare il concorso fra i nuovi delitti di danno e le violazioni delle disposizioni penali o amministrative ambientali di carattere formale.

Prudentemente, si può ipotizzare che – a differenza di altre situazioni: si pensi per esempio all’ambito della prevenzione e protezione dagli infortuni sul lavoro, dove la violazione formale concorre senza dubbio con altri reati, a cominciare proprio dal disastro ex art. 434 comma 2 cod. pen., in ragione della diversità dei beni lesi o messi in pericolo mediante un’unica condotta attiva o più spesso omissiva – sia qui proprio la progressione quantitativa nella messa in pericolo o lesione dell’unico bene “ambiente” a condurre verso un assorbimento delle violazioni formali (in particolare, della contravvenzione di cui all’art. ex art. 257 D. Lgs. 152/2006) allorquando si registri una sovrapposizione delle fattispecie, potendosi ipotizzare invece il concorso di reati ogni qual volta attraverso la commissione di un illecito penale di natura diversa da quella ambientale si cagioni anche un evento di inquinamento (o di disastro); salvo che non si imponga una diversa lettura plurioffensiva degli illeciti ambientali sottostanti – specialmente di quelli che si concretizzano non in un azione materiale di inquinamento o immissione ma in una condotta meramente formale (tipico il caso di mancanza di autorizzazione) – che privilegi la compresenza di un interesse protetto ulteriore, identificabile nella potestà di tutela e di controllo preventivo facente capo alla pubblica amministrazione.       

La scelta dell’avverbio “abusivamente” ha comunque suscitato plurimi interrogativi:

– sia sul versante delle preoccupazioni circa la tipicità della fattispecie, postulandosi che la precedente stesura fosse più idonea ad espungere dall’ambito di applicazione della disposizione la violazione di principi (ad es. di precauzione, di prevenzione etc., di cui all’art. 3-ter D. Lgs. n. 152/2006) non tradottisi in specifici precetti muniti di autonome sanzioni amministrative o penali, così come di prescrizioni contenute in autorizzazioni amministrative non strettamente funzionali alla tutela dell’ambiente (ma per esempio a difesa del territorio, del paesaggio, della salute o del decoro urbano);

– tanto sul lato opposto dei timori di una scarsa efficacia delle nuove fattispecie per effetto di un loro confinamento alle sole ipotesi di condotte abusive in quanto sine titulo, con esclusione dunque di tutte le situazioni nelle quali sia possibile rinvenire un provvedimento formale di autorizzazione alla condotta materiale dalla quale sia poi derivato il fenomeno di grave alterazione ambientale.

Con riguardo al primo aspetto, sarà interessante verificare se la formulazione della disposizione rispetti gli insegnamenti dalla Corte Costituzionale (Sentenza n. 5 del 13 gennaio 2004) in tema di “determinatezza” della incriminazione penale.

Senza alcuna pretesa di esaustività, in questa sede pare sufficiente ricordare quanto ivi affermato dal giudice delle leggi circa la legittimità del ricorso, da parte del legislatore penale, a cd. formule elastiche («senza giustificato motivo», «senza giusta causa», «arbitrariamente», etc.) adoperate per descrivere reati di natura non soltanto commissiva, ma anche omissiva, e destinate a fungere da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché – anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione – l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori.

Il carattere elastico della clausola si connette, nella valutazione legislativa, alla impossibilità pratica di compiere una elencazione analitica di tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” la condotta, elencazione inevitabilmente a rischio di lacune in ragione della varietà delle contingenze e della complessità delle interferenze dei sistemi normativi.

Secondo l’insegnamento costituzionale, occorre allora accertare, in relazione al singolo contesto, che l’utilizzo della formula elastica – in quanto incidente, sia pure in negativo, sulla delimitazione dell’area dell’illiceità penale – non ponga la norma incriminatrice in contrasto con il fondamentale principio di determinatezza, rimettendo di fatto all’arbitrio giudiziale la fissazione dei confini d’intervento della sanzione criminale.

Soccorre, a tal fine, il criterio per il quale la verifica del rispetto del principio di determinatezza deve essere condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce: “…L’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito penale di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero…di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento, mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo…“..

1.5.: segue: ancora sulla nozione di “abusivamente”.

Ferme tali premesse, è lecito comunque dubitare della concreta necessità, in tale prospettiva, dell’inserimento della clausola.

Invero, l’esigenza di agganciare la punibilità del soggetto oggettivamente “inquinatore” all’assenza di motivi di giustificazione della sua condotta avrebbe comunque trovato sicuro ed adeguato soddisfacimento attraverso l’applicazione delle consuete coordinate che presidiano la responsabilità penale per fatto doloso o quanto meno colposo: la natura di delitto delle nuove incriminazioni richiama infatti l’interprete (e in primo luogo il giudice) ad una più stringente ed impegnativa verifica dell’elemento soggettivo e, di conseguenza, della possibile presenza di ragioni che escludano profili di colpevolezza nella condotta oggettivamente inquinante.

Ed in tale prospettiva di stretta legalità – venendo al secondo profilo – devono per converso essere esaminate le preoccupazioni di una responsabilità ancorata alla sola ipotesi di condotte non sostenute da un titolo autorizzatorio preventivamente rilasciato.

Ai fini della valutazione relativa ai modi nei quali può verificarsi una condotta abusiva atta a perfezionare la nuova fattispecie di reato, un ausilio può trarsi certamente dall’esplorazione dei casi di utilizzo della locuzione in ambito penale e dall’interpretazione fornita dalla giurisprudenza proprio con riguardo alle disposizioni vigenti che sanzionano le condotte abusive.

Il termine “abusivamente” ricorre frequentemente nel codice penale: in alcuni casi (art. 348, che punisce a titolo di delitto «chiunque abusivamente esercita una professione»; art. 445, relativo all’esercizio, anche abusivo, del commercio di sostanze medicinali; art. 615-ter, che punisce «chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico»; art. 621, che punisce «chiunque, essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto, che debba rimanere segreto, di altrui atti o documenti … lo rivela, senza giusta causa»), il lemma sembra senz’altro rimandare ad una condotta clandestina, non autorizzata o giustificata; in altre situazioni topografiche (ad es. artt. 323, 571, 643, 661, nonché nei casi in cui l’abuso di una qualità o di una posizione costituisce connotazione modale o circostanza aggravante di una determinata fattispecie), l’espressione rimanda alla presenza originaria di un titolo, una facoltà, un potere, il cui utilizzo però trasmoda, eccede o viene piegato a fini diversi da quelli per i quali è pensato (“abuso” nel senso più letterale della parola).

In materia ambientale, l’avverbio è poi già presente nell’articolo 260 del D. Lgs. 152/2006, che sanziona le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

In base al comma primo della disposizione, infatti, chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni.

Ebbene, proprio con riferimento al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti la Cassazione – ha affermato che “il requisito dell’abusività della gestione deve essere interpretato in stretta connessione con gli altri elementi tipici della fattispecie, quali la reiterazione della condotta illecita e il dolo specifico d’ingiusto profitto. Ne consegue che la mancanza delle autorizzazioni non costituisce requisito determinante per la configurazione del delitto che, da un lato, può sussistere anche quando la concreta gestione dei rifiuti risulti totalmente difforme dall’attività autorizzata; dall’altro, può risultare insussistente, quando la carenza dell’autorizzazione assuma rilievo puramente formale e non sia causalmente collegata agli altri elementi costitutivi del traffico”; in altra occasione, la Corte dichiara che “è destituita di ogni fondamento giuridico la tesi secondo cui nella fattispecie criminosa di cui al D. Lgs. n. 152 del 2006, art. 260 il carattere abusivo della gestione illecita dei rifiuti ricorre solo quando la gestione è clandestina; è abusiva ogni gestione dei rifiuti che avvenga senza i titoli abilitativi prescritti, ovvero in violazione delle regole vigenti nella soggetta materia“.

Una sommaria ricognizione degli orientamenti della Cassazione in materia ambientale suggerisce una lettura della situazione abusiva non confinata all’assenza delle necessarie autorizzazioni, ma estesa anche ai casi in cui esse siano scadute o (quanto meno manifestamente) illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ovvero ancora siano violati le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse, così che l’attività non sia più giuridicamente riconducibile al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità amministrativa; la giurisprudenza di legittimità sembra dunque attestarsi su una posizione che interpreta l’avverbio abusivamente come riferito “a tutte le attività non conformi ai precisi dettati normativi svolte nel settore della raccolta e smaltimento di rifiuti”.

Più in generale, il fatto che un titolo autorizzatorio – e la norma da cui esso discende – riconosca un diritto o una facoltà giuridica, di cui segni i limiti formali, non sembrerebbe essere di ostacolo al riconoscimento dell’illecito penale, ricorrendone le condizioni, quando il suo esercizio si ponga, in concreto, in contrasto con i fini sostanziali che il titolo (e la norma) si prefigge ovvero con una norma diversa o con gli stessi principi generali dell’ordinamento: nel concetto di “abusivamente” dovrebbero dunque potersi ricomprendere anche le situazioni nelle quale l’attività, pur apparentemente ed esteriormente corrispondente al contenuto formale del titolo, presenti una sostanziale incongruità con il titolo medesimo, il che può avvenire non solo quando si rinvenga uno sviamento dalla funzione tipica del diritto/facoltà conferiti dal titolo autorizzatorio, ma anche quando l’attività costituisca una non corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti all’autorizzazione in questione, in tal caso superandosi i confini dell’esercizio lecito.

Non sembra ultroneo in proposito ricordare come in un ambito come quello urbanistico/paesaggistico collegato alla materia ambientale per lo strettissimo intreccio degli interessi e beni tutelati, pur con le imprescindibili distinzioni derivanti dal differente contesto (per lo più) contravvenzionale e dalle caratteristiche della attività edificatoria come facoltà “concessa” della pubblica amministrazione, l’orientamento della Corte è incline a ritenere che i relativi reati possano consumarsi anche in presenza di un permesso a costruire formalmente valido, se questo violi, nella sostanza, le norme che regolano la materia sotto i vari profili (l’ordinato sviluppo urbanistico del territorio; la tutela del paesaggio ambientale e culturale), con conseguente rilevante ruolo degli strumenti normativi urbanistici e piani paesaggistici ai fini dell’accertamento della legittimità dell’atto autorizzatorio o concessorio e, per l’effetto, della sussistenza oggettiva della fattispecie; fatta salva, tuttavia, la doverosa e rigorosa valutazione dell’elemento psicologico del soggetto privato, della sua eventuale buona fede, della possibile inevitabilità dell’errore cagionato da un provvedimento della pubblica amministrazione e di quanto altro entra in considerazione in tutte le situazioni di presenza di un titolo formalmente abilitativo ad una attività poi risultata essere illecita sul piano oggettivo. 

Per ultimo, ad una interpretazione che confini la previsione ai soli casi di inquinamento clandestino potrebbe ostare anche un argomento di ordine sistematico, considerato che laddove il legislatore ambientale ha inteso punire un’attività sine titulo ha adoperato espressamente una formula che indicasse solo e soltanto l’assenza della prescritta autorizzazione – si pensi all’art. 256 del Codice dell’Ambiente, “attività di gestione di rifiuti non autorizzata” –  evitando vocaboli polisenso suscettibili di interpretazione non confinata al mero dato formale.

Una rapidissima annotazione merita infine l’aggravante di cui al comma secondo – concepita per l’ipotesi di inquinamento di aree tutelate o in danno di specie animali e vegetali protette –  che opera secondo il meccanismo previsto dall’art. 64 cod. pen., ossia con aumento della pena sino ad un terzo. Il generico riferimento alle specie “protette” incontra, anche qui, qualche rischio di conflitto con i criteri di certezza e predeterminazione della norma penale; salvo – come probabile – che non si ricorra alla individuazione fornita dall’allegato IV della direttiva 92/43/CE (relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche) e nell’allegato 1 della direttiva 2009/147/CE (concernente la conservazione degli uccelli selvatici), atti però in questa sede legislativa non espressamente richiamati, a differenza di quanto avvenuto con l’introduzione dell’art. 727-bis cod. pen. in tema di uccisione, distruzione, cattura, prelievo, detenzione di esemplari di specie animali e vegetali selvatiche protette.
 

2. Il delitto di morte o lesioni come conseguenzanon voluta del delitto di inquinamento ambientale.

Il nuovo articolo 452-ter cod. pen. – che nel primo testo della Camera disciplinava il delitto di disastro ambientale – riguarda ora, nella formulazione introdotta in un primo passaggio al Senato e poi approvata definitivamente, l’ipotesi di morte o lesioni (non lievissime) di una o più persone, derivate come conseguenza non voluta del delitto di inquinamento ambientale.

La disposizione crea dunque una fattispecie di reato, l’inquinamento ambientale, aggravato dall’evento di morte o lesioni, costruita sulla falsariga dell’art. 586 cod. pen.,  contemplando un articolato catalogo di pene graduato in ragione della gravità delle conseguenze del delitto e mirando, nella sostanza, ad inasprire il trattamento sanzionatorio di fatti che sarebbero comunque punibili a titolo di lesioni od omicidio colposi.

La norma suscita qualche interrogativo, nella misura in cui non si rinviene una analoga previsione anche con riferimento al reato di disastro che, per definizione, rappresenta un fatto di inquinamento ambientale dagli effetti appunto “disastrosi” e come tale con maggiori potenzialità aggressive nei confronti della incolumità fisica delle persone.

Appare in altri termini poco giustificabile che il legislatore non abbia inteso punire specificamente le più probabili conseguenze mortali o lesive che possono derivare da una “alterazione irreversibile” dell’ambiente, preoccupandosi di sanzionare solo quelle frutto di una mera “compromissione o deterioramento”, sia pure significativi e misurabili.

Tra l’altro (come si dirà oltre), il disastro ambientale è integrato comunque quando la compromissione o il deterioramento abbiano raggiunto un tale livello da costituire una “offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo“: il che sta a significare che la fattispecie di cui all’art. 452-ter si dovrebbe applicare, se mal non se ne interpreta il significato, solo nella ipotesi – difficile da immaginare nella pratica – di un condotta di inquinamento che abbia cagionato, come effetto non voluto, morti o feriti, senza però che al suo manifestarsi costituisse quanto meno un’esposizione a pericolo della pubblica incolumità.

Un’ulteriore osservazione investe l’elemento psicologico.

Un fatto doloso di inquinamento ambientale – ossia non un mero superamento delle concentrazione soglie di rischio, bensì una deliberata compromissione significativa e misurabile delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sotto-suolo – potrebbe significare, proprio per i suoi effetti ad ampio raggio, non soltanto la “prevedibilità in concreto”[18] delle conseguenze lesive sulle persone, ma che tali conseguenze, ove ricorrano gli specifici indicatori passati in rassegna dalle recenti Sezioni Unite[19], sono state concretamente “previste ed accettate” dall’agente, finendo così per caratterizzarne la condotta in termini di dolo eventuale (rispetto all’evento lesivo o mortale): con la conseguenza, in questi casi, della impossibilità di configurare la nuova previsione, alla luce della consolidata giurisprudenza[20] secondo cui affinché possa ravvisarsi il reato di cui all’art. 586 cod. pen. è necessario che l’evento lesivo costituito dalla morte e dalle lesioni, non sia voluto neppure in via indiretta o con dolo eventuale dall’agente, poiché questi, se pone in essere la propria condotta pur rappresentandosi la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze di essa e ciononostante accettandone il rischio, risponde, in concorso di reati, del delitto inizialmente preso di mira e del delitto realizzato come conseguenza voluta del primo.
 

3. Il delitto di disastro ambientale.

Come già osservato in premessa, eventi di disastro ambientale sono stati sin qui ricondotti allo schema normativo di “altro disastro” (cd. disastro “innominato”) di cui all’art. 434 del codice penale.

Si tratta di ipotesi spesso scrutinate dalla giurisprudenza della Corte, che ha ritenuto legittimo l’inquadramento, affermando che il delitto di disastro colposo innominato (artt. 434 e 449 cod.pen.) è integrato da un “macroevento”, che comprende non soltanto gli accadimenti disastrosi di grande immediata evidenza (crollo, naufragio, deragliamento ecc.) che si verificano in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità; in altra occasione, la Corte ha stabilito che ai fini della configurabilità del delitto di disastro ambientale colposo è necessario che l’evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità sia straordinariamente grave e complesso ma non nel senso di eccezionalmente immane, essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone e che la grande dimensione dell’evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull’uomo.

Con specifico riferimento proprio ad ipotesi di disastro derivante da condotte stratificate nel tempo, per effetto di una imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi, la Corte ha osservato che requisito del reato di disastro di cui all’art. 434 cod. pen. è la potenza espansiva del nocumento unitamente all’attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane.

La Cassazione ha altresì affermato che per la particolare struttura dell’art. 434 cod. pen. il disastro ambientale innominato è delitto a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato mentre il verificarsi dell’evento (di cui al comma secondo) funge da circostanza aggravante; il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità; mentre per la configurabilità dell’ipotesi colposa (artt. 434 e 449 cod. pen.) è necessario che l’evento si verifichi, diversamente dall’ipotesi dolosa nella quale la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità e, qualora il disastro si verifichi, risulterà appunto integrata la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dello stesso art. 434 del codice penale.

Nell’assetto previgente, dunque, il delitto di disastro ambientale “innominato” di cui all’art. 434 c.p., comma 1, è (era) dunque reato di pericolo a consumazione anticipata, perfezionato con la condotta di “immutatio loci”, purché idonea in concreto a minacciare l’ambiente di un danno di eccezionale gravità, seppure con effetti non necessariamente irreversibili per essere per esempio pur sempre riparabile con opere di bonifica.

3.1. segue: la condotta.

Con l’introduzione dell’art. 452-quater cod. pen., il legislatore intende superare le difficoltà di configurazione intrinsecamente connesse, da una parte, alla stessa struttura della fattispecie contemplata dall’art. 434 cod. pen. e, per altro verso, alla comunque non pacifica enucleazione del concetto stesso di disastro ambientale, laddove sganciato da eventi – come il crollo – naturalisticamente confinabili in sicure coordinate spazio/temporali, che paiono costituire l’elemento accomunante delle situazioni previste dalla norma codicistica.

La disposizione prevede che “costituiscono disastro ambientale alternativamente: 1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; 2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; 3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo“.

Nella formulazione della fattispecie un ruolo importante hanno assunto – come dichiarato in via programmatica in sede di lavori parlamentari – i rilievi contenuti nella sentenza della Corte costituzionale n. 327 del 30 luglio 2008.

Come noto, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con il principio di determinatezza della formulazione dell’articolo 434 del codice penale nella parte in cui punisce il cosiddetto disastro innominato, la Consulta, nel ritenere infondata la prospettata questione di legittimità, osservò che “l’art. 434 cod. pen … mira …a colmare ogni eventuale lacuna, che di fronte alla multiforme varietà dei fatti possa presentarsi nelle norme …concernenti la tutela della pubblica incolumità… D’altra parte…, allorché il legislatore – nel descrivere una certa fattispecie criminosa – fa seguire alla elencazione di una serie di casi specifici una formula di chiusura, recante un concetto di genere qualificato dall’aggettivo “altro” (nella specie: “altro disastro”), deve presumersi che il senso di detto concetto – spesso in sé alquanto indeterminato – sia destinato a ricevere luce dalle species preliminarmente enumerate, le cui connotazioni di fondo debbono potersi rinvenire anche come tratti distintivi del genus…, dunque…l'”altro disastro”, cui fa riferimento l’art. 434 cod. pen., è un accadimento sì diverso, ma comunque omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai ‘disastri’ contemplati negli altri articoli compresi nel capo relativo ai ‘delitti di comune pericolo mediante violenza’… La conclusione ora prospettata (necessaria omogeneità tra disastro innominato e disastri tipici) non basterebbe peraltro ancora a consentire il superamento del dubbio di costituzionalità. Rimane infatti da acclarare se, dal complesso delle norme che incriminano i ‘disastri’ tipici, sia concretamente possibile ricavare dei tratti distintivi comuni che illuminino e circoscrivano la valenza del concetto di genere “disastro” … Al riguardo, si è evidenziato in dottrina come – al di là delle caratteristiche particolari delle singole figure (inondazione, frana, valanga, disastro aviatorio, disastro ferroviario, ecc.) – l’analisi d’insieme dei delitti compresi nel capo I del titolo VI consenta, in effetti, di delineare una nozione unitaria di “disastro”, i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare – in accordo con l’oggettività giuridica delle fattispecie criminose in questione (la “pubblica incolumità”) – un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti. Tale nozione…corrisponde sostanzialmente alla nozione di disastro accolta dalla giurisprudenza di legittimità… che fa perno, per l’appunto, sui due tratti distintivi (dimensionale e offensivo) in precedenza indicati…“.

Dalle considerazioni sopra riportate emerge che, seppure ai diversi fini di ritenere sussistente la compatibilità con il principio di determinatezza del disposto del vigente articolo 434 del codice penale, la Corte Costituzionale ha ritenuto necessaria la compresenza di due elementi distinti, il primo dei quali attinente alla natura straordinaria dell’evento disastro e, il secondo, al pericolo per la pubblica incolumità che da esso deve derivare.

Si può notare allora come, invece, nella formulazione del nuovo articolo 452-quater del codice penale l’elemento “dimensionale” e quello “offensivo” dell’evento siano richiesti non congiuntamente ma disgiuntamente (come emerge dall’uso, al comma primo, della parola “alternativamente”), soluzione che può essere forse coerente con la diversa offensività dell’ipotesi delittuosa qui considerata e cioè per l’appunto la lesione del bene protetto dell’ambiente piuttosto che l’attentato alla pubblica incolumità: si tratterà dunque di verificare se la formulazione, “recuperando” sul piano della tipicità attraverso una descrizione della condotta evidentemente più puntuale rispetto all’assenza di indicazioni (“fatti diretti a…“) nell’art. 434 cod. pen., risulti compatibile con il principio di determinatezza di cui all’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, alla luce di una adottata impostazione normativa differente rispetto a quella su cui si è già pronunciato il giudice delle leggi.

In ogni caso, la descrizione dell’evento di disastro pare riprodurre abbastanza fedelmente quei connotati di “nocumento avente un carattere di prorompente diffusione ed espansività e che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone”, già individuati dalla Cassazione negli indirizzi di cui si è fatto cenno in precedenza.

Una annotazione riguarda il carattere “irreversibile” dell’alterazione.

La prova della irreversibilità non desta particolari preoccupazioni ove si concordi che un disastro è irrimediabile anche qualora occorra, per una sua eventuale reversibilità, il decorso di un ciclo temporale talmente ampio, in natura, da non poter essere rapportabile alle categorie dell’agire umano; non sembra cioè poter aver credito un’opinione per la quale un ecosistema non può considerarsi irreversibilmente distrutto finché ne è teoricamente possibile, ipotizzando la compresenza di tutti gli ulteriori presupposti favorevoli, un ipotetico ripristino in un periodo però sensibilmente lungo o addirittura lunghissimo di tempo.

D’altra parte, è sufficiente – vista la struttura alternativa della fattispecie – che il disastro sia di ardua reversibilità, condizione che si verifica quando l’eliminazione dell’alterazione dell’ecosistema risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, con una duplice condizione (resa evidente dalla congiunzione “e”) che peraltro potrebbe far ricondurre alla minore fattispecie di inquinamento situazioni di gravissima compromissione ambientale, bonificabile solo con ingentissimi impegni economici ma che però non richiedano l’emanazione di provvedimenti amministrativi deroganti alla disciplina ambientale ordinaria. 

3.2. segue: la clausola di riserva.

L’inserimento della clausola “fuori dai casi previsti dall’articolo 434” presta il fianco a  qualche difficoltà interpretativa.

L’asserzione contenuta nella citata sentenza 327/2008 della Corte Costituzionale – secondo cui l’art. 434 cod. pen., nella parte in cui punisce il disastro innominato, assolve pacificamente ad una funzione di “chiusura” del sistema – non sembra possa essere invocata, come invece è stato fatto in sede di dichiarazioni programmatiche, per giustificare la  clausola di riserva: mentre infatti quella affermazione trovava evidente collocazione in un sistema di protezione penale dell’ambiente strutturato sulle violazioni formali e sul delitto ex art. 434 cod. pen., a seguito della introduzione di un delitto di disastro ambientale concepito come reato di evento (di danno) sembra più difficile immaginare un’ipotesi nella quale una fattispecie di aggressione dell’ambiente, irreversibile o di costosissima reversibilità, possa ricadere nel fuoco dell’art. 434 cod. pen., anziché del nuovo art. 452 quater.

Non è perfettamente chiaro in altri termini il senso stesso della clausola, in quanto: 

–  o si è in presenza di un crollo o altro fatto traumatico che non abbia cagionato uno degli eventi del nuovo art. 452 quater, ossia una alterazione irreversibile o quasi dell’equilibrio di un ecosistema ovvero un’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo: ed allora non sembrerebbe porsi alcun problema di rapporto fra le fattispecie, donde la sostanziale inoperatività della riserva;

– ovvero il crollo (o altro fatto) ha cagionato un disastro, qualificabile come ambientale alla luce delle suddette connotazioni dell’evento: ed allora, mentre è ipotizzabile un eventuale concorso di reati (ma potrebbero valere le considerazioni sopra espresse in favore del possibile assorbimento nella nuova fattispecie), si dubita invece che possa prevalere, in forza della clausola di salvaguardia, la “vecchia” disposizione codicistica, avendo voluto il legislatore perseguire proprio il fine di evitare il ricorso all’art. 434 cod. pen., prevedendo una disciplina sanzionatoria ben più rigida.

Si è anche avanzata l’ipotesi residuale che l’inciso derivi semplicemente dalla volontà legislativa di ribadire l’intangibilità dei processi di disastro ambientale già rubricati sotto l’art. 434 cod. pen, sottolineandone in qualche modo l’impermeabilità alla nuova disciplina: una preoccupazione che, al di là della fondatezza (è difficile escludere in prima battuta scenari di possibile interferenza, ma il dato certo – ai fini della valutazione ed applicazione delle regole ex art. 2 cod. pen. – è che le nuove norme introducono inediti spazi di incriminazione o ampliano quelli già esistenti ed implicano un trattamento sanzionatorio sensibilmente più grave), sarebbe fronteggiata mediante il ricorso ad una “anomala” clausola di riserva, che per definizione non può certo limitare alle sole condotte già perfezionate la sua funzione di stabilire la priorità dell’applicazione di una norma rispetto ad un’altra. 

Similmente a quanto previsto per l’inquinamento ambientale, anche per il disastro ambientale è stato soppresso il riferimento alla violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative ed è stato mantenuto il solo carattere abusivo della condotta: si rimanda dunque alle considerazioni già espresse in precedenza in ordine alla lettura del termine “abusivamente”.

Medesime conclusioni per la riproduzione, anche per il reato di disastro (al comma secondo della norma introduttiva della nuova fattispecie), dell’aggravante per l’ipotesi di inquinamento di aree tutelate o in danno di specie animali e vegetali protette –  che opera come già detto secondo il meccanismo previsto dall’art. 64 cod. pen., ossia con aumento della pena sino ad un terzo.

4. L’elemento soggettivo.L’inquinamento e il disastro ambientali colposi.

Come già osservato in precedenza, la Corte di Cassazione ha spesso affermato che nel disastro innominato di cui all’art. 434 cod. pen. il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità, inquadramento che non subisce variazioni con riferimento alla ipotesi presa in considerazione dal comma secondo, qualificata dalla Corte come circostanza (di evento) aggravante e non invece come autonoma ipotesi di reato.

L’introduzione dei due nuovi delitti di evento riapre evidentemente il tema della natura del dolo.

Nella misura in cui non si punisce più un’ipotesi di disastro innominato, quale quella dell’art. 434 cod. pen., sostanzialmente assimilabile ad una fattispecie di attentato al bene ambiente, bensì una sua volontaria grave e concreta lesione, non pare allora escludibile, quanto meno su una piano teorico, la configurabilità e la sufficienza anche del dolo eventuale; per altro verso, la non sempre facile riconoscibilità, allorquando non si versi in re illicita, degli indici distintivi per come enucleati nel recente insegnamento delle Sezioni Unite (in sintesi: la lontananza dalla condotta standard negli ambiti governati da discipline cautelari; la personalità, la storia e le precedenti esperienze; la durata e ripetizione della condotta; la condotta successiva al fatto; il fine della condotta e la sua motivazione di fondo; la probabilità di verificazione dell’evento; le conseguenze negative anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento; i tratti di scelta razionale; la verifica controfattuale) risulta qui particolarmente  amplificata: e ciò sia per le caratteristiche fenomeniche della condotta di inquinamento o disastro ambientale (frutto di comportamenti quasi sempre stratificati, da valutare in rapporto a corpi normativi di difficile decifrazione tecnica), quanto per la presenza, nella novella, di corrispondenti e “confinanti” figure colpose di inquinamento e di disastro ambientale, che potrebbero fungere da catalizzatore, ricorrendone ovviamente gli estremi, nell’inquadramento (in particolare, sub specie di colpa con previsione) della maggior parte dei casi pratici.

Il nuovo art. 452-quinquies cod. pen. immette infatti nel sistema le ipotesi in cui l’inquinamento e/o il disastro siano commessi per colpa, prevedendo una riduzione di pena sino ad un massimo di due terzi.

Al riguardo, la probabile importanza statistica delle manifestazioni colpose dei nuovi delitti potrebbe indurre a letture che accentuino il carattere direttamente precettivo del principio di precauzione – divenuto, con l’introduzione (nel 2008) dell’art. 3-ter del D. Lgs. 152/2006, un principio di sistema del diritto ambientale cui devono attenersi le persone fisiche e giuridiche, pubbliche e private – e la sua conseguente rilevanza nella conformazione della colpa.

Tuttavia, è bene precisare che ad una siffatta interpretazione – in uno con le perplessità espresse dalla dottrina che ritiene il principio di precauzione inidoneo a produrre autonomamente nuove regole cautelari – pare opporsi con fermezza la stessa giurisprudenza di legittimità, che sottolinea da sempre la necessità di una stringente verifica, in concreto, della prevedibilità (oltre che della evitabilità) dell’evento dannoso.

La Corte di Cassazione ha affermato infatti che anche nell’ipotesi della violazione di quelle norme cautelari cd. elastiche, perché indicanti un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, è comunque necessario che l’imputazione soggettiva dell’evento avvenga attraverso un apprezzamento della concreta prevedibilità ed evitabilità dell’esito antigiuridico da parte dall’agente modello: a maggior ragione, allora, poco spazio sembra residuare per una possibile rilevanza, ai fini dell’integrazione della colpa (generica), della inosservanza di comportamenti precauzionali non previamente tipizzati che, di volta in volta, pur nel rispetto delle regole cautelari invece tipizzate e dato per adempiuto l’unico obbligo positivo di informazione nei confronti della pubblica amministrazione, appaiano necessari – in base ad una valutazione ex ante – a sventare un rischio di evento inquinante o disastroso, individuato a seguito anche di una singola preliminare valutazione scientifica obbiettiva.

Non di agevole lettura si presenta il secondo comma dell’art. 452-quinquies, aggiunto dal Senato nella penultima lettura e contemplante una ulteriore diminuzione di un terzo della pena per il delitto colposo di pericolo ovvero quando dai comportamenti di cui agli artt. 452-bis e 452-quater derivi il pericolo di inquinamento ambientale e disastro ambientale.

Se la struttura delle nuove fattispecie è quella di reati di evento, rispettivamente di inquinamento e di disastro, la previsione rischia di sovrapporsi – con quanto ne consegue in termini di difficile coordinamento – con le “antecedenti” condotte di pericolo già contemplate nell’ordinamento come contravvenzioni (basti pensare all’art. 257 D. Lgs. 152/2006), a meno di non ipotizzare che la disposizione abbia una funzione di chiusura del sistema ed intenda coprire solo quei fatti colposi, oggettivamente idonei a cagionare un inquinamento o un disastro ambientale, che non integrino, già di per se stessi, una contravvenzione.

In definitiva, la norma sembra dettata dalla preoccupazione di coprire analiticamente ogni condotta potenzialmente inquinante o disastrosa, forse nel desiderio di dare una risposta “ineccepibile” alla già citata Direttiva europea sulla protezione penale dell’ambiente (Direttiva 2008/99/CE del 19 novembre 2008) nella misura in cui essa richiede l’incriminazione di condotte anche pericolose: un timore che però non sembra aver tenuto nella dovuta considerazione che tale ambito dovrebbe – salvo errori – risultare già interamente presidiato, sul versante doloso in conseguenza della possibilità di configurare la fattispecie tentata dei nuovi delitti, su quello involontario per la ricordata presenza di plurimi illeciti contravvenzionali strutturati come reati di pericolo.

5. Il delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività.

Il nuovo art. 452-sexies cod. pen. incrimina la condotta di chi abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività, prevedendo un aumento di pena se dal fatto deriva il pericolo di compromissione o deterioramento delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo ovvero  di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna, ed un ulteriore aggravamento sanzionatorio se dal fatto deriva pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone, la pena è aumentata fino alla metà.

Non pare superfluo preliminarmente ricordare che, in virtù della presenza di tale delitto nella legge in esame, una analoga previsione incriminatrice (sia pure con denominazione appena differente: traffico ed abbandono di materie nucleari) è stata espunta da altra iniziativa di legge in corso di avviata discussione parlamentare.

Rispetto ad una prima lettura, dal testo definitivo dell’art. 452-sexies è scomparso, anche in questo caso, l’inciso relativo alla violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, sostituito dal riferimento all’abusività della condotta, per il quale valgono le considerazioni espresse in precedenza.

Inoltre, la norma incrimina oggi anche chi abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività: l’aggiunta dell’avverbio “illegittimamente” alla sola condotta di chi “si disfa” del materiale non sembra trovare particolari motivazioni (tanto da potersi anche ipotizzare un mero lapsus legislativo), proprio per effetto della presenza del carattere abusivo già normativamente richiesto per tutte le possibili articolazioni del traffico di materiale radioattivo.  

La formulazione del secondo comma della disposizione, concernente le aggravanti, è stata resa simile a quella dell’art. 452-bis sull’inquinamento ambientale: il rilievo penale riguarda il pericolo di compromissione o deterioramento delle acque o dell’aria ovvero di porzioni “estese o significative” del suolo o del sottosuolo, ovvero ancora di “un” ecosistema, con l’aggiunta del richiamo alla biodiversità “anche agraria”.

Le aggravanti contenute nel secondo e nel terzo comma appaiono tuttavia di difficile decifrazione: la condotta prevista al primo comma – l’abusivo traffico di materiale radioattivo – è razionalmente punita perché pericolosa in sé, presumendosi che ogni violazione delle strettissime regole finalizzate ad evitare che possano anche accidentalmente sprigionarsi radiazioni o contaminazioni di sorta pregiudizievoli per l’ambiente e l’incolumità pubblica sia, come tale, pericolosissima; di modo che l’aggiunta di un aggravante “di pericolo” ad una fattispecie che è già, inevitabilmente, punita in quanto pericolosa genera qualche problema interpretativo di non facile soluzione, nella sforzo di individuare, anche su un piano empirico, un possibile punto di confine fra il pericolo generico di cui al primo comma e quello di pericolo di compromissione o deterioramento dell’ambiente e/o per la vita o per l’incolumità delle persone.  

Peraltro, occorre ricordare che nell’ordinamento esiste già una disposizione – l’art. 3 della legge 7 agosto 1982, n. 704 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione fisica dei materiali nucleari, con allegati, aperta alla firma a Vienna ed a New York il 3 marzo 1980) – secondo la quale “Chiunque, senza autorizzazione, riceve, possiede, usa, trasferisce, trasforma, aliena o disperde materiale nucleare in modo da cagionare a una o più persone la morte o lesioni personali gravi o gravissime ovvero da determinare il pericolo dei detti eventi, ferme restando le disposizioni degli articoli 589 e 590 del codice penale, è punito con la reclusione fino a due anni. Quando è cagionato solo un danno alle cose di particolare gravità o si determina il pericolo di detto evento, si applica la pena della reclusione fino ad un anno“.

Sembra porsi dunque un problema di coordinamento fra le disposizioni, laddove il nuovo art. 452-sexies pare coincidere con l’art. 3 legge n. 704/1982 almeno nel caso in cui una delle condotte materiali vietate determini il pericolo di morte o lesioni; fermo restando che occorrerà verificare la piena coincidenza normativa fra la nozione di “materiale nucleare” e quella di “materiale ad alta radioattività”.

Un ulteriore problema di composizione si presenta in rapporto al secondo periodo del comma primo dell’art. 260 D. Lgs. 152/2006 (disposizione in parte qua non toccata dalla novella), che prevede un’ipotesi aggravata di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti quando si tratti di rifiuti ad alta radioattività: la clausola di specialità apposta al nuovo art. 452-sexies fa ipotizzare che, ricorrendone gli elementi costitutivi (carattere di rifiuto, organizzazione, fine di ingiusto profitto; ingente quantità), la norma del codice ambientale possa assorbire la nuova fattispecie, contemplando peraltro la prima pene superiori  – da tre ad otto anni di reclusione – rispetto a quelle previste nella ipotesi base di cui al primo comma della nuova fattispecie.

Un’ultima annotazione riguarda la natura giuridica del nuovo art. 452-sexies cod. pen. come norma a più fattispecie, da cui deriva – analogamente a quanto avviene in altri ambiti –  che, da un lato, il reato è configurabile allorché il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste, e che, dall’altro, deve escludersi il concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative previste dalla norma, poste in essere senza apprezzabile soluzione di continuità dallo stesso soggetto.

6. L’impedimento del controllo.

Secondo il nuovo art. 452-septies cod. pen., “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, negando l’accesso,  predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del lavoro, ovvero ne compromette gli esiti, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni“. 

La previsione introduce una fattispecie di reato a forma vincolata – poiché l’impedimento deve realizzarsi negando o ostacolando l’accesso ai luoghi, ovvero mutando artificiosamente lo stato dei luoghi – che peraltro non costituisce un semplice corollario di quanto disposto dagli articoli precedenti, in quanto la norma è destinata a trovare applicazione tutte le volte che sia ostacolato un campionamento o una verifica ambientale.

La clausola di riserva potrebbe operare ove il fatto integri – ad esempio – le più gravi ipotesi di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen..

7. Le aggravanti.

Il nuovo art. 452-octies cod. pen. dispone: che sono aumentate le pene previste dall’art. 416 cod. pen. quando l’associazione è diretta, in via esclusiva o concorrente, allo scopo di commettere taluno dei reati ambientali previsti dalla novella; che sono aumentate le pene previste dall’art. 416 bis cod. pen. quando l’associazione a carattere mafioso è finalizzata a commettere taluno dei delitti previsti dal presente titolo ovvero all’acquisizione della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi pubblici in materia ambientale; che infine entrambe le  dette pene sono ulteriormente aumentate (da un terzo alla metà) se dell’associazione fanno parte pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio che esercitano funzioni o svolgono servizi in materia ambientali.

L’introduzione di circostanze aggravanti “ambientali” applicabili al reato di associazione a delinquere è chiaramente ispirata (in chiave di politica criminale) alla volontà di contrastare il fenomeno delle organizzazioni i cui profitti derivino in tutto o in misura consistente dalla criminalità ambientale.

Tuttavia, la scelta rischia di generare problematicità superiori ai concreti benefici.

Si è sottolineato infatti il possibile dubbio di costituzionalità che potrebbe derivare dal confronto con il minore trattamento sanzionatorio di associazioni finalizzate alla commissione di reati più gravi, nella loro singola cornice edittale, rispetto a quelli di inquinamento e disastro (basti pensare all’omicidio); si tratterà allora di verificare se sia giustificata e razionale una previsione di maggior rigore per il solo fatto associativo in sé, quando diretto alla commissione di reati edittalmente “meno gravi” ancorché a più ampia ed impattante diffusività lesiva.

Sotto altro profilo, l’effetto di rafforzamento sanzionatorio potrebbe rivelarsi in concreto più simbolico che reale, laddove mitigato – nella concreta dosimetria della pena – dall’applicazione del cumulo giuridico nei casi di concorso tra la fattispecie associativa e i singoli delitti-scopo.

Nella stesura definitiva della legge è comparsa una nuova circostanza definita “aggravante ambientale”.

L’art. 452-novies prevede, infatti, un aumento di pena quando un qualsiasi reato venga commesso allo scopo di eseguire uno dei delitti contro l’ambiente previsti dal nuovo titolo VI-bis del libro secondo del codice penale, dal D. Lgs. 152/2006 o da altra disposizione di legge posta a tutela dell’ambiente.

La previsione pare concretizzare una ipotesi speciale rispetto a quanto già previsto dall’art. 61, primo comma, n. 2), c.p., con la differenza che il rapporto finalistico è, nella nuova fattispecie, limitato al solo caso di reato commesso per eseguirne un altro (quello contro l’ambiente) e non, come prevede l’aggravante comune, anche per occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato: ipotesi nelle quali dovrebbe rientrare in gioco l’aggravante comune, salvo eventuali dubbi di costituzionalità, sotto il profilo della giustificazione del diverso trattamento sanzionatorio fra il caso di reato commesso per eseguirne un altro ambientale (punito con aumento da un terzo alla metà) e quello di reato commesso per occultarne un altro ambientale (punibile con aumento sino al terzo).

L’aumento è invece comunque di un terzo se dalla commissione del fatto derivi la violazione di disposizioni del Codice dell’Ambiente o di altra legge a tutela dell’ambiente: così come formulata testualmente, la disposizione lascia supporre che la seconda violazione possa riguardare anche illeciti amministrativi, purché la legge che li contempla possa senza incertezze qualificarsi come posta “a tutela dell’ambiente” in forza di precisi coefficienti di riconoscibilità esterna, pena un difetto di conoscibilità del precetto penale e prevedibilità della sanzione.

Sarà da verificare, in ogni caso, la risposta della giurisprudenza al quesito sul se tra il primo fatto di reato e l’illecito ambientale che ne deriva (non necessariamente di natura penale) sussista un rapporto di specialità, assorbimento o concorso di fattispecie.

8. Il “ravvedimento operoso”.

Ai sensi dell’art. 452-decies cod. pen.,  “Le pene previste per i delitti di cui al presente titolo, per il delitto di associazione per delinquere di cui all’articolo 416 aggravato ai sensi dell’articolo 452-septies, nonchè per il delitto di cui all’articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni, sono diminuite dalla metà a due terzi nei confronti di colui che si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi, e diminuite da un terzo alle metà nei confronti di colui che aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nell’individuazione degli autori o nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti. Ove il giudice, su richiesta dell’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado disponga la sospensione del procedimento per un tempo congruo, comunque non superiore a due anni e prorogabile per un periodo massimo di un ulteriore anno, al fine di consentire di completare le attività di cui al comma precedente in corso di esecuzione, il corso della prescrizione è sospeso“.

Rispetto ad una primo passaggio parlamentare, il testo della norma prevede una differente graduazione della diminuzione di pena in relazione alla natura e alle modalità delle attività svolte, nonché la necessità che le citate attività riparatorie dei luoghi debbano avvenire “concretamente” e, in relazione alla tempistica, “prima che sia dichiarata l’apertura del dibattimento di primo grado”.

La norma merita alcuni approfondimenti.

In prima battuta, sebbene costruita sin dalla dichiarazione programmatica come ipotesi di ravvedimento operoso, la fattispecie sembra distaccarsi dai conosciuti modelli codicistici: pare infatti non completamente assimilabile alla circostanza attenuante prevista dalla seconda parte dell’art. 62 n. 6 cod. pen., che secondo la giurisprudenza di legittimità ha pacificamente natura soggettiva ed è ravvisabile solo se l’azione è determinata da motivi interni[41]; non è altrettanto paragonabile alla attenuante di cui all’ultimo comma dell’art. 56 cod. pen., che opera se l’evento è volontariamente impedito, laddove nella fattispecie in esame si tratta di una condotta ex postfinalizzata a “sanare” il danno prodotto da un evento già verificatosi.

Più in generale, la fattispecie pare mescolare ipotesi avvicinabili al ravvedimento operoso (“…si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori…nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti…“), ad altre più inquadrabili come forme di collaborazione processuale (“…aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nella individuazione degli autori…), ad altre ancora operanti come condotte riparatorie (“…provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi…”), tutte comunque idonee non a provocare l’estinzione del reato ma a determinare un sensibile beneficio sul piano sanzionatorio.

Il dato testuale dell’inciso “provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi“, in quanto richiedente la compresenza delle condizioni, non dovrebbe far residuare incertezze sulla necessità che l’attività operosa dell’imputato debba investire congiuntamente sia la messa in sicurezza che la bonifica: non sarà sufficiente cioè soltanto un’attività di “messa in sicurezza operativa”, secondo la definizione data dall’art. 240, comma primo, lett.n, D. Lgs. 152 del 2006 (“l‘insieme degli interventi eseguiti in un sito con attività in esercizio atti a garantire un adeguato livello di sicurezza per le persone e per l’ambiente, in attesa diulteriori interventi di messa in sicurezza permanente o bonifica da realizzarsi alla cessazione“), dovendo l’imputato attivarsi per la “bonifica”, ossia per quell’insieme di interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (art. 240, co. I, lett.pdel D. Lgs. n. 152/2006).

Il nodo risiede, evidentemente, nel requisito della “concretezza” della messa in sicurezza, della bonifica e, ove possibile, del ripristino dei luoghi, e della interpretazione che ne sarà data: l’accentuazione del carattere di effettività della bonifica sembrerebbe escludere che l’effetto attenuante possa ricollegarsi a condotte che si arrestino sulla soglia degli obblighi preliminari alla bonifica (indagine preliminare, caratterizzazione, analisi sito specifica) o della presentazione del progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, senza cioè che l’imputato proceda alla attività di bonifica vera e propria per come autorizzata dalla Regione attraverso apposita dalla conferenza di servizi  (come previsto dall’art. 242 del D. Lgs. 152/2006).

Le fasi prodromiche dovrebbero rivestire invece un evidente ruolo ai fini della richiesta e relativa concessione della sospensione del procedimento (recte: processo, facendo la norma riferimento all’imputato e al dibattimento).

Trattandosi, salvo equivoci, di una facoltà del giudicante che procede (“oveil giudice…”), legata ovviamente ad una valutazione non meramente discrezionale, la “meritevolezza” della sospensione potrebbe agganciarsi ad una verifica della concreta volontà dell’imputato di procedere alla bonifica: in tal senso, un ausilio potrebbe derivare dall’analisi della giurisprudenza della Cassazione in tema di omessa bonifica prevista dall’art. 257 D. Lgs. 152/2006.

Come noto, infatti, il punto dolente di tale ultima disposizione, sul terreno dell’efficacia della risposta repressiva/ripristinatoria, risiede nel fatto che gli obblighi preliminari al progetto di bonifica – l’obbligo di indagine preliminare, di caratterizzazione e di analisi di rischio sito specifica – pur posti in linea di massima a carico del soggetto inquinatore, non sono più provvisti di autonoma sanzione, né penale, né amministrativa, per il caso di loro inosservanza; sicché in caso di inerzia del soggetto, tale da impedire che si arrivi ad un progetto di bonifica da sottoporre alla approvazione dell’organo competente, il reato non sarebbe concretamente perseguibile.

E’ questo il convincimento raggiunto dalla giurisprudenza della Cassazione, secondo cui “In assenza di un progetto definitivamente approvato, non può configurarsi il reato di cui all’art. 257 TUA. Non sembra possibile, alla luce del principio di legalità, stante il chiaro disposto normativo, estendere l’ambito interpretativo della nuova disposizione ricomprendendo nella fattispecie anche l’elusione di ulteriori adempimenti previsti dall’art. 242 TUA ed estendere quindi il presidio penale alla mancata ottemperanza di obblighi diversi da quelli scaturenti dal progetto di bonifica se non espressamente indicati“. In un altro arresto, tuttavia, la Corte ha ravvisato la condizione a contenuto negativo dell’omessa bonifica anche nella sola omissione, da parte del soggetto tenuto, del piano di caratterizzazione, tale da impedire la stessa formazione del progetto di bonifica e, quindi, la sua realizzazione.

Rovesciando adesso l’angolo prospettico – non più determinato dalla necessità di evitare un vuoto di tutela conseguente ad un’incongruente scelta normativa (che non presidia con sanzione una serie di adempimenti funzionali alla bonifica, pur assegnandoli alla autodeterminazione del soggetto obbligato), ma alla luce di una fattispecie odierna che “premia” il comportamento riparatorio dell’imputato attenuando la sanzione prevista per i nuovi delitti – si tratterà allora di verificare se il livello di collaborazione giustificante un provvedimento non privo di conseguenze, quale la sospensione del dibattimento e la conseguente sospensione della prescrizione, debba individuarsi nell’avvio empiricamente verificabile delle operazioni materiali di bonifica (situazione che sicuramente testimonia di un atteggiamento operoso finalizzato al ripristino ambientale), nella approvazione del progetto operativo ovvero nella sua avvenuta presentazione (momento, quest’ultimo, a partire dal quale l’esito della procedura complessiva esce dal dominio prevalente del soggetto inquinatore) o anche solo nel completamento delle operazioni preliminari alla bonifica (fase forse ancora non sicuramente illuminante di un effettivo “ravvedimento”).

Sul piano strettamente processuale, un ultimo cenno merita infine l’ipotesi in cui, in ragione del ricorso a riti speciali, non sia prevista l’apertura del dibattimento.

L’assenza di lumi normativi e (ovviamente) di conforti giurisprudenziali non consente di formulare conclusioni sicure: con cautela, non pare nemmeno disistimabile una eventuale interpretazione (ratione legis) che escluda, una volta che l’imputato sia stato ammesso al rito abbreviato o abbia formulato istanza di applicazione di pena concordata, la possibilità di richiedere ed ottenere la sospensione del processo per completare la bonifica, in ragione della connaturata funzione acceleratoria e semplificatoria di tali riti alternativi rispetto all’ordinario percorso dibattimentale; una incompatibilità “strutturale” che, anche ove non ritenuta motivo di inammissibilità della richiesta, potrebbe peraltro sorreggere il potere discrezionale del giudice nel rigettare una richiesta formulatagli in sede di abbreviato o di patteggiamento.     

9. Le disposizioni sulla confisca.

Il nuovo art. 452-undecies cod. pen. prevede, in caso di condanna o di patteggiamento per i delitti previsti dagli articoli 452-bis, 452-quater, 452-sexies e 452-septies e 452 octies, la confisca delle cose costituenti il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, ovvero, ove non sia possibile, la confisca per equivalente, di beni di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità.

Alcune osservazioni sulla disposizione.

In primo luogo, dalla confisca sembrerebbe essere esclusi, secondo il dato testuale, l’inquinamento e il disastro ambientali colposi, il che – costituendo tali ipotesi verosimilmente la maggioranza dei casi pratici – attenua fortemente l’efficacia dello strumento. Peraltro, va segnalato che il secondo comma dispone che la confisca per equivalente sia applicabile “quando, a seguito di condanna per uno dei delitti previsti dal presente titolo, sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile“: il riferimento indistinto a (tutti) i “delitti previsti dal presente titolo” è quasi certamente addebitabile a un mero lapsus del legislatore, ma potrebbe anche insinuare l’ipotesi alternativa che, ferma la confisca obbligatoria per i soli delitti dolosi indicati nel comma prima dell’articolo, per quelli colposi residui la praticabilità della confisca facoltativa. 

Con riguardo specifico alla confisca per equivalente, va segnalato uno scostamento rispetto alla formulazione adoperata nell’art. 322-ter cod. pen.: mentre in quest’ultima disposizione si prevede che la confisca di valore sia disposta “…quando essa (ndr. la confisca diretta) non è possibile…“, il comma 2 del nuovo art. 452-undecies stabilisce che “quando … sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile…“, suggerendo l’ipotesi – cui si oppone però con forza una interpretazione sistematica dell’istituto – di un iter procedurale che passi prima per un provvedimento di ablazione diretta e, solo all’esito negativo, per un secondo provvedimento di confisca per equivalente.

Nella formulazione definitiva, la norma contiene una clausola di salvaguardia a tutela dei terzi estranei al reato, con formulazione strutturata sulla falsariga del comma 3 dell’art. 240 cod. pen. (“persona estranea al reato“); sul punto, sarò interessante verificare l’incidenza dell’orientamento della Cassazione che, in una ipotesi analoga per contesto e finalità quale quella del trasporto illecito di rifiuti di cui all’art. 259 del D. Lgs. n. 152 del 2006, pretende non solo l’estraneità al reato ma anche la buona fede del terzo.

La norma vincola la destinazione dei beni confiscati o dei loro proventi all’utilizzo per la bonifica dei luoghi, un dato che sembra spostare l’asse dell’inquadramento giuridico della confisca verso un carattere risarcitorio/ripristinatorio piuttosto che sanzionatorio, con quanto ne consegue anche in termini di possibile applicazione anche in caso di estinzione del reato in assenza di condanna per maturata prescrizione. 

La disposizione aggiunge che i beni siano messi “nella disponibilità” della pubblica amministrazione: manca anche in questo caso una chiara definizione normativa della forma giuridica di tale “disponibilità”; minori incertezze dovrebbero esserci nell’individuare nella Regione, titolare del potere autorizzativo alla bonifica, la “pubblica amministrazione” cui rimettere i beni confiscati nella ordinarietà dei casi.

Quale ulteriore effetto premiante di un positivo comportamento post delictum, è stabilito che l’istituto della confisca non trovi applicazione nell’ipotesi in cui l’imputato abbia efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dei luoghi.

Il comma terzo dell’art. 1 della legge, intervenendo sull’art. 260 D. Lgs. 152/2006, prevede l’obbligatorietà della confisca, anche per equivalente, per le cose servite a commettere il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti o che ne costituiscono il prodotto o il profitto, anche qui salvo che appartengano a persone estranee al reato; il comma quarto del medesimo art. 1 dispone infine che l’art. 12-sexies del d.l. n. 306/1992, conv. in l. n. 256/1992, sia integrato con l’ampliamento ai delitti di cui agli artt. 452-bis, 452-quater, 452-sexies e 452-septies e 452 octies delle ipotesi di confisca speciale dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito.

10. Il ripristino dello stato dei luoghi e il reato di omessa bonifica.

Il nuovo art. 452-duodecies cod. pen. dispone che, in caso di condanna o patteggiamento per uno dei nuovi delitti ambientali, il giudice debba ordinare il recupero e, ove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi, ponendo le spese per tali attività a carico del condannato e delle persone giuridiche obbligate al pagamento delle pene pecuniarie in caso di insolvibilità del primo.

Nella formulazione definitiva è presente un secondo comma, diretto a prevedere una più puntuale disciplina della procedura di ripristino dei luoghi attraverso il rinvio alle disposizioni del Codice dell’Ambiente che già prevedono tale procedura.

Tuttavia, l’utilizzo del termine “recupero”, riferito – come pare – allo stato dei luoghi, rischia di generare qualche equivoco, poiché nel Codice dell’Ambiente, tale espressione è adoperata con diverso e specifico riferimento alle operazioni di riutilizzo dei rifiuti[48]: una lettura coerente con l’intero impianto della normativa dovrebbe condurre ad una interpretazione omnicomprensiva del lemma, che porti ad includervi ogni attività materiale e giuridica necessaria per il “recupero” dell’ambiente inquinato o distrutto, e dunque anche e soprattutto la bonifica del sito da ogni particella inquinata e da ogni agente inquinante; laddove il “ripristino” si colloca evidentemente su un piano ulteriore che contempla, ove possibile, la ricollocazione o riattivazione delle componenti che siano andate distrutte ovvero rimosse in quanto irrimediabilmente compromesse.  

La fattispecie penale di omessa bonifica è stata introdotta nel corso di un primo passaggio al Senato della Repubblica.

Il nuovo art. 452-terdecies del codice penale punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da 1 a 4 anni e con la multa da 20.000 a 80.000 euro chiunque, essendovi obbligato, non provvede alla bonifica, al ripristino e al recupero dello stato dei luoghi. L’obbligo dell’intervento può derivare direttamente dalla legge, da un ordine del giudice o da una pubblica autorità.

La nuova fattispecie non pare correre rischi di sovrapposizione con quella di cui all’art. 257 del D. Lgs. 152/2006, che prevede una contravvenzione (arresto da sei mesi a un anno o ammenda da 2.600 euro a 26.000 euro) per chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, se non provvede alla bonifica: la modifica di tale seconda disposizione, mediante l’introduzione della clausola di riserva “Salvo che il fatto costituisca più grave reato“, fa in modo infatti che essa possa operare solo nelle ipotesi di un superamento delle soglie di rischio che non abbia raggiunto (quanto meno) gli estremi dell’inquinamento, ossia che non abbia cagionato una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili dei beni (acque, aria, etc.) elencati indicati dall’art. 452-bis.

Altrettanto opportunamente, anche il testo del comma 4 dello stesso art. 257 ha subito una necessaria variazione, nel senso che l’avvenuta bonifica costituisce condizione di non punibilità “per le contravvenzioni (non più “per i reati”, come nella previgente formulazione) contemplate da altre leggi per il medesimo evento e per la stessa condotta di inquinamento di cui al comma 1″. Trattasi di modifica quanto mai necessaria, perché diversamente la bonifica si sarebbe potuta interpretare come causa di non punibilità sia del reato di inquinamento che del disastro ambientale con effetti “reversibili”, in chiaro contrasto con la volontà della novella che la configura come forma di ravvedimento operoso con effetto di circostanza attenuante; a seguito dell’intervento emendativo, la bonifica ex art. 257 D. Lgs. agisce dunque come causa estintiva solo con riferimento a quelle violazioni formali (in primis, il superamento delle soglie di rischio) che non abbiano però cagionato gli eventi atti a configurare i reati di cui agli artt. 452 bis e 452 quater, ipotesi nelle quali opera solo in senso attenuativo della pena. 

Nel corso dell’esame in seconda lettura da parte della Camera dei Deputati è stato soppresso un ulteriore articolo – 452-quaterdecies – originariamente previsto all’interno del nuovo Titolo VI-bis del codice penale, volto a punire con la reclusione da 1 a 3 anni l’illecita ispezione di fondali marini. Tale fattispecie sanzionava l’utilizzo della tecnica del cd. “air gun” o di altre tecniche esplosive adoperate per le attività di ricerca e di ispezione dei fondali marini finalizzate alla coltivazione di idrocarburi.

11. La responsabilità degli enti da delitto ambientale.

Il comma ottavo dell’art. 1 della legge 68/2015 interviene sull’art. 25-undecies del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, estendendo il catalogo dei reati che costituiscono presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche dipendente da reato.

 In particolare, per effetto della modifica si prevedono a carico dell’ente specifiche sanzioni pecuniarie per la commissione dei delitti di inquinamento ambientale (da 250 a 600 quote), di disastro ambientale (da 400 a 800 quote), di inquinamento ambientale e disastro ambientale colposi (da 200 a 500 quote); di associazione a delinquere (comune e mafiosa) con l’aggravante ambientale (da 300 a 1.000 quote); di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (da 250 a 600 quote).

 Inoltre, con l’inserimento del comma 1-bis nel menzionato articolo 25-undecies, si specifica, in caso di condanna per il delitto di inquinamento ambientale e di disastro ambientale, l’applicazione delle sanzioni interdittive per l’ente previste dall’art. 9 del D. Lgs. n. 231 del 2001 (interdizione dall’esercizio dell’attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni; divieto di contrattare con la PA; esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi ed eventuale revoca di quelli già concessi; divieto di pubblicizzare beni o servizi). La disposizione impone che per il delitto di inquinamento ambientale, la durata di tali misure non può essere superiore a un anno.

12. L’intervento sulla prescrizione.

Attraverso il comma 6 dell’art. 1, la legge 68/2015 opera un inasprimento della disciplina della prescrizione dei nuovi delitti, i cui termini vengono raddoppiati rispetto a quelli ordinari previsti dall’art. 157, comma 6 cod. pen.: allungamento pensato evidentemente proprio in rapporto alle fattispecie di inquinamento e disastro con condotte progressive e stratificate, in rapporto alle quali si tratterà evidentemente, nella giurisprudenza, di verificare il termine iniziale di decorrenza.

Con riguardo all’art. 434 cod. pen., la Cassazione aveva affermato che la fattispecie di cui al primo comma, reato di pericolo a consumazione anticipata, si perfeziona, nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, con la sola “immutatio loci”, purché questa si riveli idonea a cagionare un danno ambientale di eccezionale gravità.

Recentemente, con riferimento all’ipotesi di cui al comma secondo dell’art. 434 cod. pen., la Corte ha statuito che il momento di consumazione del reato coincide con l’evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rilevano, ai fini dell’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto che la consumazione del disastro doloso, mediante diffusione di emissioni derivanti dal processo di lavorazione dell’amianto, non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione.

Con la nuovo struttura di delitto di evento del disastro ambientale e con l’introduzione del delitto (sempre di evento) di inquinamento ambientale si ripropone evidentemente il tema del tempus commissi delicti: occorrerà infatti verificare quale sia esattamente il momento nel quale possono dirsi integrati gli specifici eventi che qualificano i delitti nel nuovo catalogo, tenuto conto che in queste tipologie di reati il loro perfezionamento potrebbe verificarsi a distanza di tempo rispetto all’ultima condotta di materiale immissione di sostanze o comunque di fisica alterazione o manomissione dell’assetto preesistente.

In ogni caso, è indubbio che l’accertamento e la repressione dei più gravi delitti ambientali godono oggi di un termine oggettivamente macroscopico (nel caso di disastro ambientale doloso, pari a quarant’anni, allungati sino a cinquanta in presenza di atti interruttivi), rispetto al quale stridono i brevissimi termini dei reati contravvenzionali prodromici.

13. L’estinzione delle contravvenzioni ambientali.

Il comma nono dell’art. 1 della legge n. 68 del 2015 introduce nel Codice dell’Ambiente una “Parte sesta-bis” contenente la disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale, costituita da sette nuovi articoli (artt. da 318-bis a 318-octies).

Le disposizioni introdotte, modellate sulle previsioni contenute negli articoli 19 e seguenti del decreto legislativo n. 758 del 1994 (recante modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro), replicano il meccanismo di estinzione degli illeciti mediante adempimento delle prescrizioni impartite e pagamento di somma determinata a titolo di sanzione pecuniaria.   

L’art. 318-bis indica l’ambito applicativo della disciplina, applicabile alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.

Qualche dubbio interpretativo deriva dal fatto che la norma fa menzione solo delle “ipotesi contravvenzionali”, sebbene nella intitolazione della nuova parte sesta-bis si parli anche di illeciti amministrativi; inoltre, si tratterà di verificare la possibile estensione della disciplina estintiva a contravvenzioni non contemplate nel Codice dell’Ambiente, ma ricomprensibili nella “materia ambientale”.

Il concreto atteggiarsi del procedimento è regolato:

–     dall’art. 318-ter, che riguarda le prescrizioni da impartire al contravventore, di competenza dell’organo di vigilanza (o della polizia giudiziaria), il termine per la regolarizzazione, l’obbligo di comunicazione della notizia di reato al pubblico ministero;

–     dall’art. 318-quater, che regola la verifica dell’adempimento e l’irrogazione della sanzione, entro termini determinati, attraverso una serie di fasi procedimentali;

–     dall’art. 318-quinquies, che prevede obblighi di comunicazione da parte del PM, che abbia in qualsiasi modo notizia della contravvenzione, all’organo di vigilanza o alla polizia giudiziaria, per consentire di imporre le prescrizioni;

–     dall’art. 318-sexies, che stabilisce i termini di sospensione del procedimento penale e le attività di indagine e cautelari effettuabili in loro pendenza;

–     dall’art. 318-septies, che prevede l’estinzione della contravvenzione a seguito sia del buon esito della prescrizione che del pagamento della sanzione amministrativa, cui consegue l’archiviazione del procedimento da parte del pubblico ministero; la disposizione configura, infine, l’ipotesi di adempimento tardivo o con modalità diverse della prescrizione, facendone derivare la possibile applicazione di un’oblazione ridotta rispetto alle previsioni di cui all’articolo 162-bis del codice penale;

–     dall’art. 318-octies, norma transitoria per la quale la disciplina per l’estinzione delle contravvenzioni non si applica ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.

14. Le disposizioni residue.

Il comma quinto dell’art. 1 del provvedimento di legge interviene sull’articolo 32-quater del codice penale, relativo ai casi nei quali alla condanna per alcuni delitti consegue l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, aggiornando il catalogo dei delitti ivi previsti attraverso l’inserimento dell’inquinamento ambientale, del disastro ambientale, del traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività, dell’impedimento del controllo e delle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

In tema di coordinamento di indagini in materia ambientale, la novella (art. 1 comma 7) introduce il dovere del pubblico ministero di dare comunicazione al Procuratore nazionale antimafia dell’avvio delle indagini su ipotesi di inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico ed abbandono di materiale di alta radioattività, nonché attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

In una prima formulazione, tale obbligo passava per l’introduzione dell’art. 118-ter (Coordinamento delle indagini in caso di delitti contro l’ambiente) nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura; nel testo definitivo, l’obbligo informativo a carico del PM procedente è ottenuto mediante l’integrazione del vigente articolo 118-bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale in materia di coordinamento delle indagini; il nuovo testo esclude però dal catalogo dei reati contro l’ambiente la fattispecie di cui all’articolo 260 del Codice dell’Ambiente (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) ed aggiunge quella associativa di cui all’art. 452-octies; la disposizione prevede, inoltre, che il Procuratore della Repubblica debba dare notizia dell’avvio delle indagini sui reati ambientali anche all’Agenzia delle entrate ai fini dei necessari accertamenti.

L’articolo 2 della legge – introdotto nel corso dell’esame al Senato – modifica gli articoli 1, 2, 5, 6, 8-bis e 8-ter della legge 7 febbraio 1992, n. 150 – recante la “Disciplina dei reati relativi all’applicazione in Italia della convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973, di cui alla legge 19 dicembre 1975, n. 874, e del regolamento (CEE) n. 3626/82, e successive modificazioni, nonché norme per la commercializzazione e la detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica“: le  nuove disposizioni rendono più severa tale disciplina sanzionatoria, di natura contravvenzionale o amministrativa.

L’art. 3 dispone infine che la legge entri in vigore dal giorno successivo alla pubblicazione, avvenuta sulla Gazzetta Ufficiale n. 122 del 28 maggio 2015.

Redattore: Pietro Molino

                                                                                Il vice direttore

                                                                                 Giorgio Fidelbo
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