Responsabilità aggravata, abuso e ragionevole durata del processo di Fabio di Lorenzo

L’art. 11 lett. A del ddl prevede di rafforzare i doveri di collaborazione delle parti, riconoscendo l’amministrazione della Giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata e, conseguentemente, stabilendo specifiche sanzioni a favore della Cassa delle ammende.

Tale proposta di modifica tuttavia non avrebbe una portata limitata all’art. 96 c.p.c., ma avrebbe una portata espansiva sulla complessiva configurazione del processo civile.

L’attuale formulazione dell’art. 96 c. 3 c.p.c., pur se di non agevole collocazione sistematica, è coerente con l’impianto complessivo del processo civile, il quale è generalmente un processo di parti, a impulso di parte, e posto a tutela degli interessi delle parti, per cui è evidente che gli abusi processuali ledono in primis l’interesse della controparte. In tale assetto, anche la Corte Costituzionale, nella nota pronuncia n. 152 del 2016, ha affermato la non irragionevolezza della scelta del legislatore nel punto in cui è previsto che benefici della condanna ex art. 96 c. 3 c.p.c. la controparte danneggiata dal comportamento abusivo e non già lo Stato; il Giudice delle leggi ha anche puntualizzato che tale scelta del legislatore si giustifica anche con l’obiettivo di assicurare allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna una maggiore effettività ed una più incisiva efficacia deterrente, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un soggetto pubblico. Con la pronuncia n. 152 del 2016, e poi anche nella n. 139 del 2019, la Consulta ha quindi avallato la ricostruzione secondo cui la funzione della norma non è solo sanzionatoria, ma anche indennitaria e riparatoria dei pregiudizi subiti dalla parte a causa dell’abuso processuale della controparte, concludendo quindi per la non irragionevolezza della individuazione del beneficiario della condanna nella parte e non nello Stato.

Alla luce del descritto assetto complessivo del processo civile, con il quale l’art. 96 c. 3 c.p.c. non è incoerente, sono eccezionali le previsioni che stabiliscono una sanzione pecuniaria in favore dello Stato e a carico della parte che abbia commesso un abuso del processo, tra cui le disposizioni funzionali a deflazionare le impugnazioni pretestuose, che intralciano il funzionamento dell’amministrazione della giustizia (artt. 283 c. 2, 408, 431 c. 5 c.p.c.; art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1 c. 17 L. n. 228 del 2012), o la sanzione in caso di ricusazione infondata (art. 54 c.p.c.); per analoghe ragioni il legislatore, anche quando ha voluto stabilire misure di coercizione indiretta a carico dell’esecutato, con l’introduzione dell’art. 614 bis c.p.c. ha previsto quale rimedio generale a favore del creditore (analogamente a quanto previsto per il processo amministrativo dall’art. 114 c. 4 lett. E D.Lgs. 104/2010), e non già dello Stato (come invece previsto nel codice di rito tedesco: cfr. § 888 Z.P.O.), il pagamento di una somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento (mentre sono eccezionali le ipotesi in cui la coercizione indiretta è integrata dal pagamento della somma a favore dello Stato: si tratta di fattispecie che si giustificano per la particolare rilevanza e coloritura dell’interesse tutelato, come per l’ipotesi dell’inosservanza dell’ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente sindacale illegittimamente licenziato, ai sensi dell’art. 18 ultimo comma dello Statuto del Lavoratore).

Quindi la previsione di una condanna al pagamento di una somma per responsabilità aggravata in favore dello Stato e non della controparte mal si concilierebbe con l’esigenza di coerenza interna del sistema del processo civile.

Tale proposta di modifica dell’art. 96 c.p.c. inoltre non rispetterebbe neppure la coerenza esterna con l’impianto del processo di altre giurisdizioni. Con la pronuncia n. 139 del 2019 la Consulta ha infatti richiamato l’attenzione sulla circostanza che, con l’introduzione della translatio iudicii ampia ai sensi dell’art. 59 L. 69/2009, i sistemi processuali sono tra loro comunicanti; la Corte ha quindi evidenziato che le disposizioni che integrano la disciplina delle spese di lite in sistemi processuali distinti (civile, amministrativo, contabile, tributario), seppur declinate con alcune varianti, hanno una matrice comune: il contrasto dell’abuso del processo, sanzionato, in particolare, con la condanna della parte soccombente a favore della parte vittoriosa (e non dello Stato) di una somma equitativamente determinata dal giudice (cfr. art. 26 c. 2 D.Lgs. 104/2010 per il processo amministrativo;  l’art. 31 D.Lgs. 174/2016 per il processo contabile; l’art. 15 c. 2 bis D.Lgs. 546/1992 per il processo tributario).

Piuttosto, sarebbe auspicabile che il legislatore modifichi l’art. 96 c. 3 c.p.c. sotto altri profili, ad esempio indicando un criterio per la quantificazione della somma oggetto della condanna, viste le difformità interpretative sorte in giurisprudenza e dottrina.

L’art. 11 lett. B del DDL prevede di introdurre conseguenze processuali e sanzioni pecuniarie nei casi di rifiuto non giustificato di consentire l’ispezione prevista dall’articolo 118 del codice di procedura civile e nei casi di rifiuto o inadempimento non giustificati dell’ordine di esibizione previsto dall’articolo 210 del medesimo codice.

Va tuttavia evidenziato che l’art. 118 c.p.c. già prevede, per il caso di inosservanza da parte del terzo, una pena pecuniaria non irrisoria, e, per l’ipotesi di inosservanza della parte, la possibilità che il giudice tragga argomenti di prova dal comportamento inadempiente. Secondo un orientamento interpretativo, l’apparato sanzionatorio per l’ipotesi di rifiuto ingiustificato è integrato anche dalla regolazione delle spese di lite, in quanto il rifiuto ingiustificato di consentire l’ispezione integra violazione del dovere di lealtà e probità contemplato nell’art. 88, con conseguente applicabilità dell’art. 92 in ordine al rimborso delle spese, anche non ripetibili.

La dottrina ha evidenziato che il vero punctum dolens dell’art. 118 c.p.c. è costituito dalla controversa coercibilità dell’obbligo: la dottrina è concorde nell’escludere la coercibilità nelle ipotesi di ispezione corporale, mentre si presenta divisa per quanto concerne l’ispezione di cose o luoghi. E’ stata anche sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 118 nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l’esecuzione coattiva dell’ordine in caso di rifiuto del terzo a consentire l’ispezione di cose in suo possesso (Trib. Spoleto 13.10.1999), ma la questione è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale per carenza di motivazione in ordine alla sua rilevanza (C. Cost. 6.11.2000, n. 471). Nella prospettiva di riforma potrebbe quindi introdursi uno strumento di coercizione indiretta sul modello dell’art. 614 bis c.p.c. per l’ipotesi in cui la parte opponga un rifiuto non giustificato di consentire l’ispezione.

Con riferimento invece all’art. 210 c.p.c., la norma attuale non prevede espressamente sanzioni per l’ipotesi di inosservanza dell’ordine. In via interpretativa, è stato tuttavia sostenuto che per l’ipotesi di inosservanza dell’ordine rivolto alla parte il giudice possa trarre argomenti di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c. Per quanto riguarda le conseguenze dell’inottemperanza del terzo, la prevalente opinione esclude la possibilità di estendere al terzo la pena pecuniaria prevista a suo carico dall’art. 118 c.p.c. per il caso di mancata esecuzione dell’ordine di ispezione. Inoltre la dottrina e la giurisprudenza pressoché unanimi ritengono che l’ordine di esibizione, in quanto avente la forma di ordinanza istruttoria, non sia suscettibile di esecuzione forzata nelle forme previste dagli artt. 605 ss. ovvero dagli artt. 612 ss., mancando una norma che gli attribuisca qualità di titolo esecutivo ai sensi del tassativo disposto dell’art. 474 c.p.c.

Fermo che è ormai acquisito il dato interpretativo secondo cui l’inosservanza dell’ordine rivolto alla parte è comportamento suscettibile di essere valutato quale argomento di prova, nella prospettiva di riforma sarebbe quindi opportuno colmare le descritte lacune di tutela, prevedendo che, per l’ipotesi di mancata esecuzione del terzo, a questo possa essere applicata la stessa pena pecuniaria prevista dall’art. 118 c.p.c. Inoltre è opportuno prevedere espressamente che l’ordine di esibizione valga quale titolo esecutivo al fine di azionare l’esecuzione forzata nelle forme previste dagli artt. 605 ss. ovvero dagli artt. 612 ss., o comunque stabilire mezzi coercitivi indiretti sul modello dell’art. 614 bis c.p.c.

L’art. 11 lett. C del DDL prevede di introdurre un termine non superiore a sessanta giorni entro il quale la pubblica amministrazione, cui sono state richieste informazioni ai sensi dell’articolo 213 del codice di procedura civile, deve trasmetterle o deve comunicare le ragioni del diniego. Premesso che le recenti riforme che hanno previsto l’accesso civico generalizzato (in termini ben più ampi rispetto al diritto di accesso di cui alla L. 241/90) di fatto possono portare a un restringimento dei casi in cui occorre fare ricorso allo strumento dell’art. 213 c.p.c., l’introduzione di tale termine può essere opportuna; è auspicabile prevedere anche modalità di segnalazione del ritardo o dell’omissione, al fine di far valere la responsabilità del funzionario o del dirigente.

Fabio Di Lorenzo

L’art. 12 lett. A del DDL prevede che i decreti legislativi attuativi dovranno curare il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme del codice di procedura civile, del codice civile e delle norme contenute in leggi speciali non direttamente investite dai princìpi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi, operando le necessarie abrogazioni e adottando le opportune disposizioni transitorie. Sul punto non vi è nulla da rilevare.

L’art. 12 lett. B del DDL prevede di apportare le necessarie modifiche alla legge 24 marzo 2001, n. 89, sostituendo all’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile quali rimedi preventivi, la stipulazione, anche fuori dei casi in cui l’accesso preventivo a strumenti alternativi per la risoluzione della controversia costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale, di una convenzione di negoziazione assistita ovvero la partecipazione personale al procedimento di mediazione anche successivamente al primo incontro ovvero la partecipazione attiva ad altri procedimenti di conciliazione e mediazione previsti da disposizioni speciali e, per i giudizi dinanzi alla corte di appello, alla proposizione di istanza di decisione in udienza, all’esito di discussione orale, preceduta dalla sola precisazione delle conclusioni nel corso della medesima udienza.

Il tema è quello delicato dei cd. rimedi preventivi, intesi come attività processuali che costituiscono per la parte condizione per potere chiedere l’indennizzo per irragionevole durata del processo. In base l’attuale legge Pinto, uno dei rimedi preventivi, che legittima alla successiva domanda di indennizzo per eccessiva durata del processo, è l’introduzione del giudizio con il rito sommario, in quanto strumento teso ad accelerare il processo, e che dimostra la volontà della parte di addivenire alla decisione in tempi rapidi. Il DDL propone di sostituire al ricorso con rito sommario, quale rimedio preventivo, la stipulazione di una convenzione di negoziazione assistita ovvero la partecipazione personale al procedimento di mediazione. Tuttavia la modifica è criticabile: l’introduzione del processo con rito sommario è sicuramente una scelta idonea ad accelerare il processo, e quindi ciò merita di essere elevato a rango di rimedio preventivo, mentre l’accesso alla mediazione e alle procedure negoziate, anche fuori dai casi in cui vi è l’obbligo, da un lato rischia di ampliare a dismisura uno strumento che non ha dato prova di deflazionare il contenzioso in modo significativo, e dall’altro rischia al contrario di ritardare l’introduzione del giudizio dinanzi al giudice, e quindi paradossalmente di allungare i tempi complessivi della giustizia.

Analoghe perplessità desta la proposta di prevedere quale rimedio preventivo, per i giudizi dinanzi alla corte di appello, la proposizione di istanza di decisione in udienza, all’esito di discussione orale, preceduta dalla sola precisazione delle conclusioni nel corso della medesima udienza. La proposta trascura che il vero “collo di bottiglia” del giudizio dinanzi al corte di Appello è costituito non tanto dal rito, ma, a causa dell’elevato carico di ruolo di ciascuna Corte, proprio dal momento della precisazione delle conclusioni, cioè il momento in cui la causa passa in decisione. E’ la decisione della causa quindi il vero momento critico, che determina il rallentamento della definizione dei processi, dato il carico di ruolo e la necessità fisiologica di non trattenere in decisione troppe causa nello stesso momento. La previsione della istanza di discussione orale con decisione contestuale non risolve il problema del “collo di bottiglia”, ma, a parità di risorse materiali e di personale da destinare al settore Giustizia, costituisce un ulteriore aggravio per le Corti di Appello, senza la prospettiva di un accelerazione dello smaltimento dell’arretrato.