Ricordo di Cesare Terranova – intervento di Pierpaolo Filippelli in occasione delle giornate del programma Testimoni Capaci

Ricordo di Cesare TERRANOVA

Cesare Terranova è una delle 28 “rose spezzate” della Magistratura italiana.

L’Associazione Nazionale Magistrati è molto legata a questa immagine delle rose spezzate, in quanto restituisce plasticamente e poeticamente l’idea di vite stroncate, spezzate dalla violenza oscena e vigliacca della mafia o dal cieco e ottuso odio ideologico del terrorismo.

Le rose spezzate sono simboliche non solo dell’omaggio alla memoria di magistrati uccisi, ma rappresentano anche l’immagine di vite belle, in quanto spese per la difesa dei valori di legalità, giustizia, democrazia e libertà. Vite belle di belle persone, che hanno lasciato un segno profondo nella società italiana e il cui impegno ha fatto crescere la coscienza civile del Paese e migliorato e rafforzato le istituzioni democratiche.

Queste rose idealmente compongono un giardino dei giusti e dei martiri italiani per la giustizia. Un giardino in cui trovano posto tante altre rose spezzate. Le rose spezzate di carabinieri, poliziotti, personale della polizia penitenziaria, politici, giornalisti, avvocati, sacerdoti, sindacalisti, operai, imprenditori e cittadini che si sono ribellati alla mafia o hanno fatto da argine ai progetti eversivi del terrorismo.

In questo breve spazio a mia disposizione vi vorrei raccontare chi era Cesare Terranova, del contesto in cui maturò il suo omicidio, del perché venne ucciso e soprattutto dell’importanza del suo impegno e dell’attualità della sua testimonianza.

Cesare Terranova nasce nel 1921 in un piccolo paese montano della Provincia di Palermo, Petralia Sottana, nelle Madonie. Partecipa alla seconda guerra mondiale in Africa settentrionale, dove combatte con valore, tanto che gli verrà conferita la croce al merito di guerra e dove poi verrà catturato dagli Alleati, tornando in Italia dopo una lunga prigionia. A 25 anni, giovanissimo, entra in Magistratura e svolge le funzioni di Pretore prima a Messina, poi a Rometta. Nel 1958 si trasferisce a Palermo, dove, come Giudice Istruttore, intuisce, tra i primi, la pericolosità del clan dei Corleonesi e la sua inarrestabile ascesa nel panorama della mafia siciliana e internazionale. Comprende, in un clima di generale “negazione” e sottovalutazione del fenomeno mafioso, la trasformazione di Cosa Nostra da mafia rurale, a protezione della proprietà latifondista, a mafia urbana direttamente coinvolta nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti e nel sacco urbanistico delle città di Palermo, Catania e Trapani. Negli anni ‘60 Cesare Terranova è dunque l’uomo di punta nel contrasto giudiziario alla mafia ed in particolare al clan dei Corleonesi.

E’ lui a far arrestare oltre un centinaio di mafiosi e a istruire processi aventi ad oggetto fatti di sangue collegati alla così detta “prima guerra di mafia”. Processi che si concluderanno però con l’assoluzione per insufficienza di prove di gran parte degli imputati o con la condanna a pene miti in relazione a reati minori.  Grazie alle indagini di Cesare Terranova verrà tuttavia arrestato e condannato all’ergastolo lo stesso capo dei Corleonesi, vale a dire Luciano Leggio, di cui, all’epoca erano diretti luogotenenti Bernardo Provenzano e Totò Riina, poi divenuti i capi della cupola mafiosa e tra i mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Il 14 giugno 1971 Cesare Terranova è nominato Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala. L’anno dopo accetta di candidarsi al Parlamento come indipendente, cioè senza tessera di partito, nelle liste del PCI.

In questi anni partecipa assieme a Pio La Torre (un’altra rosa spezzata nella lotta contro la criminalità organizzata) ai lavori della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, dove elabora un documento straordinario. Mi riferisco alla relazione conclusiva di minoranza di quella commissione che ancora oggi è uno strumento molto importante per capire la mafia, la sua genesi, la sua evoluzione e le sue dinamiche operative. Nella relazione si intuisce lucidamente l’esistenza di una struttura centralizzata e di vertice della mafia, che viene indicata come lo << stato maggiore nazionale>> della mafia, in grado di operare un intervento diretto di indirizzo e coordinamento sulle singole cosche locali. Soprattutto sono contenute in quel documento alcune delle fondamentali premesse della proposta di legge per l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di associazione mafiosa. Proposta che verrà approvata soltanto il 13 settembre 1982 con la così detta legge “Rognoni – La Torre”, che inserisce finalmente nel codice penale il reato di cui all’art. 416 bis c.p.. Tale norma, che ancora oggi rappresenta il principale strumento normativo per il contrasto alla mafia e alla criminalità organizzata, nasce dalla lucida intuizione e dall’impegno parlamentare di Pio La Torre (anche lui ucciso dalla mafia il 30 aprile del 1982), ma anche dal contributo di idee ed esperienze di Cesare Terranova.  

Nel 1979 Cesare Terranova lascia la politica avendo deciso, dopo due mandati parlamentari, di non ricandidarsi per le elezioni del giugno 1979.

Il 10 luglio 1979 rientra in Magistratura come Consigliere di Corte d’appello a Palermo, in attesa della nomina a Dirigente dell’Ufficio Istruzioni del Tribunale di Palermo. Incarico che avrebbe, probabilmente, per i titoli e l’esperienza maturata, presto ricoperto.

Il 25 settembre si consuma la tragedia. Il Giudice Terranova, alle 8 del mattino, esce dalla propria abitazione per recarsi in ufficio. Ad attenderlo il Maresciallo Lenin Mancuso, da più di venti anni addetto alla sicurezza personale del magistrato. Il Giudice si pone alla guida della sua autovettura, mentre al suo fianco c’è il Maresciallo Mancuso. Percorsi alcuni metri in retromarcia, l’auto viene avvicinata da alcuni uomini e raggiunta da una trentina di colpi esplosi da diverse armi da fuoco. Un’esecuzione micidiale e di selvaggia ferocia.

 Nella Palermo del 1979, l’omicidio di Cesare Terranova non coglie di sorpresa nessuno. Il magistrato era da tempo nel mirino dei mafiosi e in particolare del clan dei Corleonesi, di cui era stato il primo a comprendere la pericolosità e a intuire che si trattava di un gruppo di “viddani”, di mafiosi provenienti dal contado, estremamente feroci che avrebbero presto scatenato una guerra senza quartiere contro le vecchie cosche mafiose cittadine, provocando una vera e propria “mattanza”.

Con l’omicidio di Terranova si è consuma la vendetta annunciata contro un magistrato che per primo aveva intuito che la mafia doveva essere contrasta come organizzazione in quanto tale e che occorrevano metodi di indagine nuovi, ispirati a una logica investigativa in grado di far emergere il fenomeno mafioso come un insieme coerente di attività criminali.

Era stato proprio Cesare Terranova, come detto, a far condannare all’ergastolo il capo dei Corleonesi, Luciano Liggio, il quale provava un odio profondo verso quel Giudice. In un’intervista televisiva ad Enzo Biagi, anni dopo la morte di Cesare Terranova, Luciano Liggio non mancò di esternare tutto il suo livore nei confronti del magistrato che egli ebbe testualmente a definire “malato”.

La Corte d’Assise di Reggio Calabria nel condannare i responsabili di quest’omicidio, tra i quali Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, ha ben evidenziato il profondo odio e rancore dei corleonesi nei confronti di Cesare Terranova.  

Ma l’uccisione di Cesare Terranova non nasce solo dalla sete di vendetta dei mafiosi. L’omicidio rappresenta anche una lucida e spietata “mossa preventiva” di Cosa Nostra. La mafia infatti temeva fortemente che Terranova, una volta assunta la direzione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, potesse nuovamente condurre una vasta, sistematica e tenace offensiva giudiziaria nei suoi confronti. E questo, in un’ottica mafiosa, doveva essere scongiurato ad ogni costo.

Lo stesso Cesare Terranova aveva assolutamente chiaro l’odio provato nei suoi confronti dai mafiosi e il rischio di essere ucciso, tanto che pochi mesi prima dell’agguato aveva scritto una bellissima lettera testamento alla moglie Giovanna. Una lettera di grande eleganza, passione e impegno civile, che si concludeva con un ringraziamento ai suoi genitori per avergli insegnato, con l’esempio e i comportamenti di ogni giorno, i valori cui si era sempre ispirato da uomo e da cittadino.

Quando decide di ritornare a fare il magistrato a Palermo, Cesare Terranova sa benissimo che la mafia avrebbe potuto reagire con violenza a questa sua scelta lucida e coraggiosa. Una decisione difficile, ma consapevole. Non certo ispirata da ambizioni di carriera o dalla ricerca di “un posto di potere”, ma dalla volontà di ritornare in prima linea nel contrasto giudiziario al fenomeno mafioso, in una Palermo, che in quegli anni è letteralmente una “città in ginocchio” e in balia della ferocia della mafia.

Quell’anno, la mafia aveva già iniziato a uccidere a Palermo già a gennaio. Dapprima con l’omicidio, l’11 gennaio di Filadelfo Aparo, vice brigadiere della Squadra Mobile di Palermo, e poi il 26 gennaio con l’agguato a Mario Francese, giornalista del quotidiano il Giornale di Sicilia. Il 9 marzo 1979 la mafia uccide Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana. Il 21 luglio, sempre a Palermo, viene trucidato Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo. Il 28 agosto è la volta di Calogero di Bona, maresciallo ordinario in servizio presso il carcere dell’Ucciardone di Palermo.

Dopo l’uccisione di Terranova, di lì a pochi mesi, Palermo sarà il teatro di altri omicidi di mafia ai danni di uomini delle istituzioni. Ed infatti il 6 gennaio 1980 viene trucidato Piersanti Mattarella, Presidente della Regione Sicilia. Il 4 maggio 1980 viene ucciso, Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri. Il 6 agosto viene massacrato Gaetano Costa, Procuratore capo di Palermo.

Palermo è una città in ginocchio. Ma in realtà è tutta l’Italia a trovarsi in quegli anni dentro un tunnel buio, di terrore, di trame oscure e di minacce alla propria democrazia. Il tunnel degli anni di piombo, della mafia che uccide uomini dello Stato, il tunnel delle stragi.

In questo tunnel del terrore i magistrati e i rappresentanti dell’autogoverno della Magistratura sono tra i primi ad essere massacrati, tanto dalla mafia che dal terrorismo rosso e nero. Ed infatti, sempre pochi mesi dopo l’omicidio di Terranova, si verificano gli omicidi di Vittorio Bachelet (Vice Presidente del CSM, ucciso dalle brigate rosse il 12 febbraio 1980); del Giudice Nicola Giacumbi (trucidato dalle brigate rosse il 16 marzo 1980); del Giudice Girolamo Minervini (ucciso dalle brigate rosse il 18 marzo 1980); del Giudice Guido Galli (ucciso dall’organizzazione di estrema sinistra prima linea il 19 marzo 1980). In quattro giorni (dal 16 al 19 marzo) vengono dunque trucidati tre magistrati, con una folle parossistica sequenza che riprenderà a seminare morte il 23 giugno 1980 con l’omicidio del Giudice Mario Amato (ucciso da terroristi della estrema destra) e il 6 agosto con l’omicidio a Palermo del Procuratore capo Gaetano Costa.

Il 1980 è dunque un anno orribile per la Magistratura Italiana, per l’attacco concentrico di mafia e terrorismo rosso e nero e per il bilancio pesantissimo di vittime. Un anno orribile per tutto il Paese, anche alla luce di eventi stragisti di inaudita gravità che si verificheranno proprio a ridosso del massacro di quelle rose spezzate.  Il riferimento è alla strage di Ustica (27 giugno 1980 con 81 morti) e alla strage della stazione di Bologna (2 agosto 1980 con 85 morti).

Qual è l’importanza della testimonianza e dell’eredità che ci sono state consegnate da Cesare Terranova?

Cesare TERRANOVA e le altre rose spezzate dalla criminalità organizzata ci lasciano un messaggio attualissimo e cioè che per combattere la mafia bisogna contrastare non solo i mafiosi, ma anche coloro che di fatto finiscono per fare ilgioco dei mafiosi, e lo fanno talora per tornaconto personale, talora per ignavia o dabbenaggine.

Coloro che fanno il gioco dei mafiosi personalmente li distinguo in cinque categorie, in cinque classi: i “negazionisti”, gli infastiditi”, i rassegnati”, i vili” e i “collusi”.

I primi alleati di fatto dei mafiosi sono i “negazionisti”, quelli per cui “la mafia non esiste” e se esiste è solo un fenomeno di antropologia culturale, estrinsecandosi, a tutto concedere, in una mera serie di “usi e costumi” di segmenti arretrati della Sicilia e del Sud Italia. Oggi i “negazionisti dichiarati” della mafia, a dire il vero, sono praticamente una “specie estinta”, risultando pressoché impossibile negare, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio e dopo così tante rose spezzate, l’esistenza della mafia come organizzazione criminale. Occorre tuttavia considerare che, quando era in vita Cesare Terranova, i “negazionisti” erano un esercito vasto e agguerrito, pronto a contrastare in ogni modo l’azione di chi invece aveva la lucidità e l’onesta intellettuale di capire che la mafia non era il folklore delle “coppole storte”, ma un cancro criminale che stava divorando la Sicilia e l’Italia intera.

Contro i negazionisti Cesare Terranova si è dovuto costantemente scontrare, sia nel corso della sua attività di magistrato, che di parlamentare.  

Poi ci sono gli “infastiditi”, quelli che, pur riconoscendo l’esistenza del fenomeno mafioso, si infastidiscono quando si parla di mafia, di ‘ndrangheta e di camorra. Per costoro parlare di criminalità organizzata e dei fenomeni collusivi ad essa connessi vuol dire danneggiare la reputazione del Paese. Per queste persone parlare di mafia significa spesso “speculare” su stereotipi negativi, scoraggiare investimenti nelle zone a maggiore densità mafiosa, alzare inutili polveroni. Per queste persone, in buona sostanza, “meno si parla di mafia e di criminalità organizzata meglio è”. È questo un atteggiamento che oggettivamente favorisce la mafia, che sicuramente è gradito alla mafia. I mafiosi hanno avuto da sempre come obiettivo, perseguito sistematicamente con la violenza e l’intimidazione, l’omertà, il silenzio e l’oblio a protezione dei loro delitti e dei loro affari criminali. Perché sono stati uccisi Peppino Impastato, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno, Giuseppe Alfano, Mauro De Mauro, Giancarlo Siani? Sono stati uccisi dalla criminalità organizzata, perché si “impicciavano” di cose che non dovevano raccontare, perché parlavano della mafia e squarciavano il muro di silenzio e di omertà eretto a salvaguardia della impunità di mafiosi e camorristi.

Parlare della mafia nelle scuole, nelle Università, nei sindacati, nei partiti, all’interno delle istituzioni, all’interno delle famiglie è invece la prima concreta e importantissima azione antimafia che può e deve essere condotta. Si fa antimafia parlando della mafia, si fa antimafia facendo memoria dei crimini della mafia e di chi l’ha combattuta. Il dato negativo, che non possiamo sottacere, è che invece negli ultimi anni il tema del contrasto alla mafia è praticamente scomparso e comunque è stato marginalizzato all’interno del dibattito politico del Paese. Il rischio è che non parlare di mafia porti a perdere di vista la pericolosità della criminalità organizzata e a ritenere in qualche modo arginata la minaccia della mafia. Non parlare di mafia può rappresentare l’anticamera per indebolire e in qualche modo “allentare” quegli questi stessi presidi normativi assolutamente indispensabili per il contrasto investigativo, giudiziario ed economico – patrimoniale al crimine mafioso. 

Oggi noi siamo protagonisti di una bellissima azione collettiva e corale contro la mafia. Per me essere qui è più importante che esser in ufficio a fare un interrogatorio o in Tribunale a discutere un processo.

 Così come la “parola”, anche la “memoria” è un’arma micidiale contro la mafia, perché indigna i giovani, perché fa muovere le coscienze della gente, perchè crea dei cittadini consapevoli dei propri diritti e del pericolo enorme e attuale che la mafia rappresenta per le loro libertà.

Ecco perché noi dell’ANM auspichiamo con forza che nel nostro Paese possa trovare la luce un Museo Nazionale della Lotta alla Criminalità Organizzata e al Terrorismo, cioè un luogo permanente di memoria, ricostruzione e narrazione della storia al contrasto al crimine mafioso e al terrorismo.  Una sorta di memoriale e di tempio laico delle stesse vittime che in questa guerra sono state vigliaccamente uccise.

Poi ci sono i “rassegnati”, quelli che non nutrono alcuna fiducia e neppure alcuna speranza nel cambiamento dello stato delle cose. Per costoro la mafia è un fenomeno “invincibile” e “irreversibile”, per cui è inutile impegnarsi nel combattere la mafia, perché la mafia e la criminalità organizzata ci saranno sempre e comunque. I rassegnati, anche se in buona fede, veramente fanno il gioco della mafia, che si rafforza laddove c’è disaffezione, disimpegno, accettazione supina di ogni vessazione, ingiustizia e prepotenza. Per i rassegnati non c’è altra strada che convivere con la mafia e, al più, cercare di limitarne, nella logica del compromesso e del “contenimento del danno”, le manifestazioni più violente e aggressive.   

I rassegnati, che tanto comodo fanno alla mafia, sono gli ignavi di oggi.  E ben sappiamo che proprio a loro, Dante Alighieri, ha riservato, nella Divina Commedia, la condizione più umiliante e il trattamento più degradante.

Poi ci sono i “vili”, i tanti Don Abbondio, che per paura e meschineria non sono in grado di assumersi nessuna responsabilità e nessun impegno. Sono quelli che non sono disposti a rischiare mai nulla. Sono gli amanti del quieto vivere, che si girano sempre dall’altra parte. E che così facendo fanno anche loro il gioco della mafia.  

A chiudere il cerchio, infine, ci sono i “collusi”della mafia. Coloro che sono gli alleati consapevoli, i “collaborazionisti” della criminalità organizzata, con cui condividono attività delittuose, obiettivi e strategie criminali. Parliamo di imprenditori senza scrupoli, di uomini delle forze dell’ordine a libro paga delle cosche, di politici e amministratori che hanno dato e danno protezione e sostegno alla mafia in cambio di voti, danaro, potere. Soni i collusi il vero “valore aggiunto” della criminalità organizzata e che hanno consentito alla mafia di trasformarsi in una realtà e in una forza imprenditoriale capace di alterare le stesse dinamiche del mercato e di operare un pesante e costante condizionamento su uffici e pubbliche amministrazioni.

Cesare Terranova allora ci lascia l’esempio di una vita spesa interamente e integralmente, senza sé e senza ma, nel contrasto alla mafia e all’humus sociale, culturale e politico che ne ha determinato nel tempo il rafforzamento e l’ulteriore salto di pericolosità.     

Io credo che il modo migliore per concludere il ricordo di Cesare Terranova sia rappresentato dalla lettura di queste parole scritte in sua memoria da Leonardo Sciascia:

 <<E credo gli venisse, tanta acutezza e tenacia e sicurezza, appunto dal candore: dal mettersi di fronte a un caso candidamente, senza prevenzioni, senza riserve. Aveva gli occhi e lo sguardo di un bambino. E avrà senz’altro avuto i suoi momenti duri, implacabili; quei momenti che gli valsero la condanna a morte: ma saranno stati a misura, appunto, del suo stupore di fronte al delitto, di fronte al male, anche se quotidianamente vi si trovava di fronte>>

 Il bellissimo ritratto che Sciascia ci restituisce di Cesare Terranova è quello di combattente tenace e implacabile, ma anche di un uomo mite, gentile, garbato, di profonda umanità. Ed è questa, del resto, la cifra delle “belle persone”, che sanno rimanere, anche nel contesto di tragedie personali e collettive, coerenti con i propri ideali, con i propri valori e con la propria umanità.

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