Rilevanza e accertamento del rischio interferenziale nelle indagini in materia di sicurezza sul lavoro

diritto del lavoro

di Lorenzo Gestri

Il concetto di rischio interferenziale nella riflessione dottrinale e giurisprudenziale, in assenza di un’espressa definizione normativa

Una corretta trattazione del tema del rischio interferenziale, e dei connessi riflessi che esso può avere sulle indagini e sulla formulazione dell’imputazione, all’interno di un procedimento penale istruito per la ricostruzione di un evento lesivo o mortale occorso al lavoratore sul luogo di lavoro, implica necessariamente di inquadrare la problematica all’interno della più generale teoria della gestione del rischio, che ormai costituisce il tratto peculiare e saliente della normativa prevenzionistica. Al contempo, tale inquadramento presuppone la preventiva risoluzione della questione interpretativa sull’esatta definizione del concetto di rischio interferenziale, onde comprendere se, anche questa tipologia di rischio, possa essere annoverata nella categoria astratta che la Suprema Corte, nella nota sentenza sulla vicenda Thyssenkrupp (Cass. Pen., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343) ha definito l’“immane rischio”, con riferimento al quale tutto il sistema prevenzionistico, comprensivo dell’individuazione delle posizioni di garanzia e delle loro aree di responsabilità, risulta finalisticamente “conformato”.Invero, offrire risposta alla questione definitoria di interferenza, ed insieme di rischio interferenziale, rintracciandone spunto decisivo nella disciplina normativa vigente in materia di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro, non è questione di facile soluzione. Tutto ciò, si evidenzia, nonostante che il TUSL si caratterizzi per essere normativa che dedica ampio spazio alla definizione dei soggetti, delle procedure, delle modalità e dei percorsi operativi di sicurezza. Allo stato attuale, si può affermare come il TUSL si occupi delle interferenze lavorative da un lato, con la disciplina dell’art. 26 e, dall’altro, nel Titolo IV, Capo I del predetto TUSL, con riferimento alla realtà dei cantieri.

Le interferenze lavorative sono disciplinate dal TUSL prevedendo diversi modelli gestionali normativi, in ragione delle specifiche problematiche connesse al loro svolgimento delle interferenze di lavoro, con conseguente diversa individuazione dei soggetti responsabili, chiamati a gestire operativamente il rischio da interferenza, arrivando addirittura a creare, con specifico riguardo alla disciplina dei cantieri, delle figure di responsabili ex novo, corrispondenti a precise qualifiche professionali, i cosiddetti “coordinatori” per la progettazione (CSP) e per l’esecuzione (CSE). Individuato l’ambito normativo di riferimento vigente che si occupa di disciplinare le problematiche attinenti all’individuazione delle interferenze durante il lavoro, diviene necessario approfondire meglio cosa si intenda per “interferenza” e “rischio interferenziale”, nonché quale possa essere la sua corretta definizione.Una definizione normativa, si è già detto, non è prevista nel TUSL. Della nozione di “rischio interferenziale”, a qualche mese dall’entrata in vigore del TUSL, si occupò l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, con la determinazione n. 3 del 5 marzo 2008, che definì la nozione di interferenza come quella che si verifica nelle situazioni di “…contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell’appaltatore o tra il personale di imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti”. Tale definizione, per quanto non esaustiva, aveva senza dubbio il merito di cogliere alcune peculiarità che tutt’oggi, avuto riguardo in particolare all’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Suprema Corte, costituisce lo stato dell’arte della definizione del rischio interferenziale, in particolare contribuendo a delinearne il confine mediante il riferimento, da un lato, alla presenza di organizzazioni di lavoro diverse, dall’altro, alle possibili conseguenze aggiuntive in termini di rischio derivanti dall’interferenza (o contatto) fra dette organizzazioni.Anche la dottrina si è occupata della questione definitoria di rischio interferenziale avendo riguardo, più in generale, alla problematica delle “interferenze lavorative”, da cui conseguono gli specifici rischi aggiuntivi, quale appunto il rischio interferenziale.Si parla in tal senso di interferenze lavorative per individuare le situazioni nelle quali più operatori afferenti ad aziende diverse, prestano la loro opera (contestualmente o meno) sullo stesso luogo di lavoro. È il caso in cui diverse realtà lavorative, con ragioni sociali e datori di lavoro differenti, lavorino nello stesso sito, nello stesso momento o, in alcuni casi, anche in successione, se comunque gli effetti del lavoro di chi precede possono ricadere in qualche modo su chi interviene successivamente.In tale situazione, come appare di intuibile evidenza, è concreta la possibilità che ogni prestatore d’opera apporti dei rischi sul luogo di lavoro, connessi con la propria attività specifica, e che questi rischi, sommati a quelli eventualmente apportati dagli altri attori, possano in qualche modo generare delle sovrapposizioni con un aumento del livello di rischio ed una diversa tipologia di pericolo presente sul sito.Sullo stesso piano si pone la definizione di rischio interferenziale offerta dalla giurisprudenza di legittimità, consolidatasi nel tempo, e ribadita anche di recente. Sul punto si richiama Cass. Pen., Sez. IV, ud. 7 gennaio 2016, n.18200, che definisce il rischio interferenziale “…quello che nasce proprio dal coinvolgimento nelle procedure di lavoro di diversi plessi organizzativi”.Rileva quindi il collegamento fra attività lavorative che fanno capo a diverse organizzazioni di lavoro, così come già evidenziato nelle definizioni precedenti.La stessa decisione della Suprema Corte poi ulteriormente specifica che il rischio interferenziale rappresenta una “…specie del più ampio genus del rischio da organizzazione del lavoro”, cui possono affiancarsi altri tipi di rischio, di cui a titolo esemplificativo cita quello meccanico (ossia connesso all’uso di macchine), quello fisico (connesso all’esposizione agli agenti fisici di cui all’art. 180 co.1 TUSL), quello biologico (connesso all’esposizione agli agenti biologici di cui all’art. 267 TUSL).Ciò rileva anche al fine di chiarire il rapporto che viene a crearsi fra il rischio interferenziale e gli altri rischi cui risulta esposto il lavoratore.Sul punto chiarisce, infatti, la Suprema Corte che “…la presenza di un rischio interferenziale, lungi dal negare o inglobare i rischi specifici presenti nell’ambiente di lavoro anche in assenza del concorso di più organizzazioni, impone di prenderli in considerazione anche nella peculiare prospettiva, come dimostra la previsione dell’art. 26 TUSL, per la quale il datore di lavoro committente fornisce alle imprese appaltatrici e ai lavoratori autonomi dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente di lavoro in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza da adottare in relazione alle proprie attività” (sul punto, le argomentazioni della citata decisione Cass. Pen., Sez. IV, ud. 7 gennaio 2016, n.18200, sono state riprese anche da altra sentenza recentissima, Cass. Pen., Sez. IV, ud. 13 luglio 2016, n.29626).In definitiva, un rischio, quello interferenziale, che “convive” con gli altri rischi lavorativi, cosicché “…le misure che fronteggiano il primo coesistono con quelle che si indirizzano ai secondi”. Ed ancora. Sempre la più recente giurisprudenza di legittimità nel tentare di definire il perimetro del concetto di interferenza, ha evidenziato come l’ “interferenza rilevante” “…deve essere necessariamente intesa in senso funzionale, ossia come interferenza non di soli lavoratori, ma come interferenza derivante dalla coesistenza di un medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle quali facente capo a soggetti diversi” (vedasi sul punto Cass. Pen., Sez. IV, ud. 17 giugno 2015, n.44792).Riflessioni, quelle appena esposte sulla definizione di rischio interferenziale, e sulla coesistenza di esso con altri rischi connessi all’ambiente di lavoro, che non potranno che avere necessarie ricadute sia sulla conduzione delle investigazioni volte a ricostruire l’evento infortunio occorso al lavoratore, che sull’eventuale formulazione dell’addebito a carico del soggetto ritenuto responsabile della causazione del danno.

Dall’evento lesivo di danno, manifestazione e “concretizzazione” del rischio, all’individuazione del soggetto responsabile: un criterio valido anche per la verifica della rilevanza del rischio interferenziale.

Una volta risolto il problema della definizione del rischio interferenziale, e chiarito come anche tale rischio costituisca una delle tante possibili declinazioni del concetto di “immane rischio” che conforma tutto il sistema prevenzionistico vigente, appare necessario sottolineare come, anche in riferimento ad esso, debba trovare applicazione il criterio metodologico suggerito dalla giurisprudenza di legittimità, dell’individuazione del soggetto responsabile a gestire la specifica area di rischio da cui è disceso (si è concretizzato per effetto di violazioni cautelari) l’evento lesivo.Al riguardo, vale la pena di evidenziare come l’affermazione tratta dal passaggio motivazionale delle Sezioni Unite Thyssenkrupp secondo cui “..nell’individuazione del garante, soprattutto nelle istituzioni complesse, occorre partire dalla identificazione del rischio che si è concretizzato, del settore, in orizzontale, e del livello, in verticale, in cui si colloca il soggetto che era deputato al governo del rischio stesso, in relazione al ruolo che questi rivestiva”, non costituisca un criterio contingente, contestualizzabile solo con riferimento alla specifica vicenda sottesa al procedimento trattato dalla Suprema Corte, apparendo semmai il precipitato di un orientamento che la Corte ormai già da alcuni anni aveva avviato e che, anche di recente, ha trovato conferma.Sul punto si richiama un passaggio motivazionale di Cass. Pen., Sez. IV, ud. 7 gennaio 2016, n.18200, nella quale si legge, in particolare, che “…allorquando l’evento illecito si verifica concretamente, imposto dalla necessità dell’accertamento penale che ipotizza una responsabilità colposa, inizia a dipanarsi un percorso a ritroso che da quello conduce alla misura cautelare non osservata che, ove adottata, sarebbe valsa ad evitarlo; e quindi l’accertamento dell’inerenza di quella regola all’area di rischio governata da questo o quel garante”. In sostanza, appare allo stato ragionevole affermare la piena e generalizzata validità del criterio metodologico dell’individuazione del soggetto responsabile a partire dalla ricostruzione dell’evento lesivo verificatosi in concreto, per accertare dapprima “in orizzontale” l’area di rischio, e risalire poi, “in verticale”, all’individuazione di colui che avrebbe dovuto gestire tale area di rischio, ossia la sfera di responsabilità.

Le necessità per l’interprete di operare una pronta individuazione e catalogazione della “lavorazione interferente”, al fine di identificare l’ambito della disciplina prevenzionistica applicabile.

La mancata disciplina classificatoria di rischio interferenziale o di interferenze impone però ulteriori puntualizzazioni, funzionali in particolare alla risoluzione dell’attività interpretativa che è chiamato a svolgere l’operatore del diritto nella prassi giudiziaria.In sostanza, il problema è quello della esatta individuazione dell’ambito normativo di riferimento, cui ancorare il ragionamento probatorio, una volta ricostruito l’evento di danno in concreto, laddove sia emerso che detto evento lesivo sia ricollegabile anche alla violazione cautelare sottesa al rischio interferenziale.Come anticipato, infatti, il TUSL in tema di interferenze prevede due distinti ambiti di disciplina, da un lato, per l’appalto “interno” l’art. 26 e, dall’altro, per i canteri mobili o temporanei, l’intero Titolo IV.A fronte di tale accertamento fattuale, preliminare, il pubblico ministero dovrà indirizzare il successivo svolgersi delle investigazioni optando generalmente per l’uno o l’altro ambito normativo, ossia ancorando la sua ricerca di responsabilità nel sistema congegnato dall’art. 26 TUSL o, in alternativa, in quello previsto dal Titolo IV sui cantieri.Invero, la realtà fenomenologica offre esempi di fatto che in concreto si sottraggono a questa generale ed astratta summa divisio, imponendo all’interprete di compiere uno sforzo ermeneutico interpretativo aggiuntivo, per verificare la possibilità di estendere la portata della disciplina dell’“appalto interno” alle interferenze lavorative che possono dipendere dall’esistenza di imprese operanti nel cantiere.Si tratta del caso in cui il cantiere mobile o temporaneo insista all’interno di una realtà lavorativa di impresa, ed in particolare in quelle ipotesi in cui vi sia coincidenza soggettiva fra il committente dell’opera per cui viene realizzato il cantiere, ed il committente datore di lavoro dell’impresa, all’interno della quale, magari, siano state già commissionate opere o servizi, nella forma dell’appalto interno di cui all’art. 26 TUSL.Appare pertanto fondamentale analizzare distintamente questi due diversi ambiti, per poi delinearne le principali questioni problematiche emergenti dalla prassi applicativa, con specifico riferimento soprattutto al rischio interferenziale nel caso di appalto “interno” disciplinato dall’art. 26 TUSL, norma che ha caratterizzato il maggior numero delle questioni interpretative.Solo in esito a questa ricostruzione, inoltre, si analizzerà l’ipotesi appena accennata di possibile interazione fra cantiere ed attività di lavoro appaltate all’interno della medesima realtà imprenditoriale produttiva.

La disciplina del rischio interferenziale fissata nell’art. 26 TUSL: le criticità connesse all’individuazione dell’ambito applicativo dell’art. 26 TUSL

La prima questione problematica nei casi in cui viene in rilievo la disciplina di cui all’art. 26 TUSL è quella relativa alla esatta definizione del perimetro di operatività della norma. Dottrina e giurisprudenza ormai da tempo sembrano concordare nel fare ricorso a tre diversi criteri concorrenti fra loro, per delimitare l’ambito operativo della norma. Si tratta del criterio di tipo oggettivo, cheha riguardo alla tipologia di contratti attraverso i quali deve tradursi il negozio giuridico fra committente – datore di lavoro – e la controparte; del criterio di tipo spaziale-funzionale, che consente di individuare l’operatività della disciplina con riferimento agli appalti, ai contratti di prestazione d’opera e di somministrazione c.d. interni e, dell’ultimo criterio, di tipo soggettivo, quello secondo il quale la normativa in questione risulta esclusivamente applicabile al soggetto imprenditore.

Nel dettaglio.

Il criterio di tipo oggettivo.

La lettura testuale dell’art. 26 TUSL giustifica un’interpretazione in forza della quale l’operatività della norma in questione parrebbe circoscritta esclusivamente ad alcune tipologie di contratti, ossia quello di appalto, quello di prestazione d’opera e quello di somministrazione. A fronte di questa possibile soluzione interpretativa, si sono però proposte nel tempo alcune questioni che hanno indotto la giurisprudenza a rivedere la valenza di elencazione tassativa dei predetti negozi giuridici tipici.

La prima questione si è posta con riferimento all’interpretazione da assegnare al termine somministrazione. In mancanza infatti nell’art. 26 TUSL della specificazione del “bene somministrato”, non risulta evidente se il legislatore abbia inteso estendere la disciplina ai soli contratti di somministrazione di beni e servizi ovvero anche a quelli di somministrazione di lavoro. In proposito, è stato osservato in dottrina come una lettura sistematica della norma renda preferibile optare per la prima soluzione in quanto, da un lato, il fenomeno della somministrazione di lavoro risulta disciplinato in via peculiare dall’art. 3 comma 5 del TUSL, che fa salva la disciplina dettata dal D.Lgs. 276/2003, la quale a sua volta pone tutti gli obblighi di prevenzione in capo all’utilizzatore e, dall’altro, alla luce delle integrazioni inserite con l’art. 16 D.Lgs. 106/2009, che ha specificato che la norma si applica in caso di affidamento ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi, oltre che di “lavori”, anche di “servizi e forniture”.

Tale conclusione risulta corretta anche alla luce dell’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità attribuisce alla nozione di “rischio interferenziale”. Come già detto, infatti, la giurisprudenza è costante nel ritenere che tale nozione vada interpretata in senso “funzionale”, ossia come interferenza non di soli lavoratori, ma come interferenza derivante dalla coesistenza di un medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle quali facente capo a soggetti diversi (Così Sez. IV, sentenza n. 36398 del 23 maggio 2013). Se, dunque, è vero che i rapporti cui fa riferimento l’art. 26 non possono esaurirsi nelle sole tipologie contrattuali previste nella rubrica del suddetto articolo e disciplinate nel codice civile, posto che la ratio della norma è quella di tutelare i lavoratori appartenenti ad imprese diverse che si trovino ad interferire le une con le altre per lo svolgimento di determinate attività lavorative e nel medesimo luogo di lavoro, è altrettanto vero che l’ambito applicativo di tale norma non può essere esteso fino a ricomprendervi tipologie contrattuali che non determinano interferenza tra plessi organizzativi diversi, come avverrebbe nel caso in cui si dovesse ritenere applicabile anche al contratto di somministrazione di lavoro. In tale ultima ipotesi, infatti, il lavoratore, pur mantenendo il rapporto di lavoro alle dipendenze del somministratore, presta completamente la propria opera in favore dell’utilizzatore, che ne organizza mansioni e prestazioni, senza alcuna interferenza da parte del somministratore nell’organizzazione dell’utilizzatore e viceversa dell’utilizzatore nell’organizzazione del somministratore, che rimangono sempre distinte ed autonome.

Una seconda questione, risolta ormai pacificamente sia in dottrina che in giurisprudenza, è quella secondo la quale la disciplina di cui all’art. 26 TUSL non si applicherebbe soltanto ai contratti di appalto, cui espressamente fa riferimento la rubrica dell’articolo in questione, ma anche ai contratti di subappalto, interpretazione che invero già prima del TUSL si era consolidata nella prassi applicativa e che, proprio in forza della disciplina dell’art. 26 TUSL, ha trovato piena conferma, avuto riguardo al passaggio ricavabile dal secondo comma, laddove si fa espresso riferimento ai “subappaltatori” come destinatati di specifici obblighi.

L’ultima questione, come anticipato, è quella relativa alla natura tassativa o, viceversa, meramente esemplificativa delle ipotesi negoziali indicate nella rubrica dell’art. 26 TUSL.

La giurisprudenza ha fornito interpretazioni non sempre uniformi, anche se appare affermarsi come soluzione prevalente quella che esclude natura tassativa all’indicazione della tipologia dei contratti citati dal disposto di cui all’art. 26 TUSL. Una simile soluzione in effetti non pare porsi in contrasto con il principio di tassatività, avuto riguardo alla vera ratio della norma, ossia quella di apprestare massima tutela al prestatore di lavoro, disciplinando e presidiando il processo di sicurezza sul lavoro in tutte quelle situazioni in cui all’interno di un luogo di lavoro, per effetto della stipula di contratti frutto della scelta del datore di lavoro, facciano ingresso soggetti estranei all’attività di impresa, ma che comunque operano nell’interesse del processo produttivo, venendo però inevitabilmente a realizzarsi, per effetto di tale interferenza, condizioni aggiuntive di rischio per la tutela dei lavoratori.

  • Il criterio di tipo spaziale – funzionale.

In ragione del criterio spaziale-funzionale, come anticipato, la disciplina dell’art. 26 si applicherà esclusivamente a contratti di appalto, di prestazione d’opera e di somministrazione a carattere interaziendale. Si tratta di quello che è stato definito il c.d. “appalto interno”. A sua volta rileva sottolineare che il carattere interaziendale non può essere inteso secondo un criterio mediamente spaziale, ossia con riferimento all’individuazione dello spazio fisico ove ha svolgimento l’attività produttiva, ma anche secondo un criterio funzionale, quello che lega l’appalto all’attività produttiva.

In definitiva, ancora una volta con l’obiettivo di apprestare il massimo ambito di tutela al lavoratore il legislatore lascia aperta la possibilità di applicare la norma di cui all’art. 26 TUSL anche ad appalti extraaziendali, seppur relativi a fasi complementari e preparatorie rispetto alla produzione in senso stretto.

  • Il criterio di tipo soggettivo.

Il profilo soggettivo ha dato nel tempo occasione di diverse interpretazioni giurisprudenziali in relazione alla questione se gli obblighi contemplati dall’art. 26 TUSL fossero applicabili anche al committente che non sia imprenditore. Ciò in quanto, contrariamente a quanto avviene per la disciplina dei cantieri che definisce il committente come il soggetto “…per conto del quale l’intera opera viene realizzata”, l’art. 26 TUSL sembrerebbe presupporre l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato direttamente imputabile all’appaltante o, quantomeno, l’esercizio da parte di questi di un’attività di impresa. Si rileva che le questioni interpretative si sono poste con particolare riferimento ai casi di infortuni accaduti nel corso di lavori prevalentemente edili svolti in abitazioni private riconducibili all’attività del committente. La giurisprudenza di legittimità dapprima ha escluso, e poi affermato, l’operatività della responsabilità in tema di sicurezza anche per il committente dell’opera che sia soltanto un privato e non anche imprenditore, con ciò finendo per affermare un’estensione agli appalti interni della definizione di committente dettata per i cantieri esterni.

Una simile soluzione lascia però non pochi dubbi, in quanto rischia di legittimare un’interpretazione analogica inmalampartem. La soluzione preferibile sembra quella che individua nel committente ex art. 26 TUSL un vero e proprio datore di lavoro, e non un soggetto privato, mentre la risoluzione dei casi sopra citati sembrerebbe trovare già adeguata risposta a livello legislativo nella disciplina dei cantieri, in quanto l’art. 89 lett. a) TUSL estende l’applicabilità normativa in materia di cantieri a “…qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile il cui elenco è riportato nell’allegato X”.

L’esatta individuazione del perimetro degli obblighi gravanti sugli attori dell’art. 26 TUSL

Una volta risolto il problema dell’ambito di applicazione della norma, residuano altre questioni problematiche che si possono porre nell’applicazione pratica della norma.

In particolare emergono soluzioni non sempre uniformi in merito all’individuazione dell’esatto perimetro degli obblighi previsti dalla norma, la cui risoluzione invero risulta indispensabile, in quanto prodromica alla ricostruzione del procedimento probatorio per colpa, in riferimento all’evento di danno occorso al lavoratore.

La norma pone quattro obblighi di natura prevenzionale, elencati nei primi tre commi dell’art. 26 TUSL, alcuni dei quali assumono anche autonoma rilevanza penale, divenendo condotte la cui violazione integra le contravvenzioni specificatamente previste dall’art. 55 comma 5 TUSL.

Tutti e quattro gli obblighi possono però divenire regole cautelari per l’imputazione a titolo di responsabilità colposa di eventuali eventi lesivi in danno dei lavoratori impiegati nelle attività previste dal contratto di appalto, di lavoro autonomo o di prestazione d’opera, circostanza questa che spiega la delicatezza della esatta definizione interpretativa del loro contenuto.

I predetti obblighi possono essere sinteticamente schematizzati nelle seguenti quattro tipologie:

  1. l’obbligo di verifica dell’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi chiamati a svolgere i lavori commissionati (art. 26.1° comma lett. a);
  2. l’obbligo di informazione degli appaltatori e dei lavoratori autonomi con riferimento ai rischi specifici e all’adozione delle visure funzionali a contenerli (art. 26.1° comma lett. b);
  3. l’obbligo di cooperazione e coordinamento con gli altri datori di lavoro e lavoratori autonomi (art. 26. 2° comma lett. a) e b);
  4. l’obbligo di promozione del coordinamento (art. 26.3° comma).

Tutti i predetti obblighi gravano sul committente datore di lavoro, mentre soltanto quello contraddistinto dalla lettera c) grava altresì sugli “altri” datori di lavoro, le parti del negozio giuridico in cui si concretizza il processo di esternalizzazione.

Nel dettaglio.

a) L’obbligo di verifica dell’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi chiamati a svolgere i lavori commissionati (art. 26.1°comma lett. a).

L’idea di fondo che muove il legislatore è in tal caso quella di porre a carico del committente datore di lavoro l’onere di individuare un soggetto tecnicamente idoneo a svolgere in condizione di sicurezza i lavori a lui affidati.

La scelta che il committente è chiamato ad operare dovrà essere ispirata quindi non solo ad un mero calcolo economico, costituendo circostanza notoria il fatto che l’impresa non in regola con le misure di tutela dei lavoratori è spesso anche quella in grado di offrire le proprie prestazioni sul mercato a costi più competitivi.

Il committente che voglia evitare di incorrere in ipotesi di responsabilità per culpa in eligendo dovrà pertanto individuare l’appaltatore in base alle sue capacità tecniche operative.

La previsione di tale obbligo introduce un criterio che sembra ancorare ad una vera e propria colpa specifica quella che, in assenza della previsione normativa, poteva refluire nel giudizio di colpa in danno del committente datore di lavoro attraverso la generica rimproverabilità per culpa in eligendo.

Ciò non vale, peraltro, come è stato osservato in dottrina ([1]), ad eliminare l’interrogativo in ordine al fatto se il rispetto delle cautele espressamente previste per legge sia sufficiente ad escludere residui di responsabilità a titoli di colpa generica.A ben vedere l’art. 26 TUSL non individua nel dettaglio quali siano gli aspetti che in concreto dovranno essere valutati per accertare la idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici. La norma esplicita le modalità da seguire per detta verifica semplicemente rimandando ad una legge di definizione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi che, in forza dell’art. 6 comma 8, lett. g) TUSL, avrebbe dovuto essere emanata nel primo anno dall’entrata in vigore del testo Unico, ma che in realtà non è mai avvenuta. La previsione di cui all’art. 26 disciplina anche il “regime intertemporale” stabilendo che detta verifica dovrà avvenire mediante acquisizione del certificato d’iscrizione alla Camera di commercio dell’impresa appaltatrice e di un’autocertificazione proveniente proprio dall’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionali.

Il sistema così procedimentalizzato introduce dati di verifica puramente formali, i quali non possono da soli bastare ad operare come clausola di esonero da responsabilità per il datore di lavoro committente.

Appare pertanto sostenibile, da un lato, la sufficienza del rispetto di tali obblighi formali ad evitare la responsabilità per la contravvenzione prevista dall’art. 54, comma 4 TUSL, mentre al contempo, detta verifica meramente formale potrebbe non bastare nel caso concreto ad esentare il committente da una possibile contestazione per culpa in eligendo in relazione ad un evento di lesione o morte del lavoratore, laddove causalmente ricollegabile ad un’accertata inidoneità tecnica dell’appaltatore.

Sussiste in astratto un’ulteriore possibilità interpretativa per escludere una potenziale riemersione di forma di colpa generica, quella che muove dall’applicabilità anche agli appalti interni, della definizione del concetto di “idoneità tecnico professionale” contenuta nell’art. 89 comma 1 lett. l) TUSL, ossia di “…capacità organizzative, nonché disponibilità di forze lavoro, di macchine e di attrezzature, in riferimento ai lavori da realizzare”. Tale definizione, seppur contenuta nel Titolo IV, ossia con specifico riferimento alla disciplina dei cantieri temporanei e mobili, proprio per la sua portata generale, appare estendibile anche al committente datore di lavoro, con riferimento allo specifico settore degli appalti interni.

In definitiva, laddove il committente datore di lavoro dovesse in concreto aver agito, al fine di accertare l’idoneità tecnico professionale dell’appaltatore, secondo il criterio fissato dalla definizione di cui all’art. 89 TUSL, non sembra possa residuare a suo carico alcuno spazio di contestazione per culpa in eligendo.

b) L’obbligo di informazione degli appaltatori e dei lavoratori autonomi con riferimento ai rischi specifici e all’adozione delle visure funzionali a contenerli (art. 26.1° comma lett. b).

Meno problematico risulta interpretare l’obbligo di cui all’art. 26.2° comma lett. b) che obbliga, come detto, il committente a fornire all’impresa appaltatrice o ai lavoratori autonomi che vengono chiamati ad operare in forza del negozio giuridico all’interno della propria azienda, informazioni dettagliate sui rischi specifici che connotano l’ambiente di lavoro, nonché le misure di prevenzione adottate per evitare che tali rischi si concretizzino in eventi lesivi.

L’informazione avrà ad oggetto l’esistenza di pericoli presenti nell’ambiente di lavoro e dovrà essere rivolta sia all’impresa appaltatrice che singolarmente ad ogni lavoratore autonomo, oltre ad essere ripetuta in occasione di nuovi affidamenti di lavoro.

c) L’obbligo di cooperazione e coordinamento con gli altri datori di lavoro e lavoratori autonomi (art. 26. 2° comma lett. a) e b).

Gli obblighi di cooperazione e coordinamento rappresentano una novità introdotta con l’art. 7 del D.Lgs. 626/1994 poi recepita dal testo Unico 81/2008.

Proprio dalla definizione dell’esatto confine di tali obblighi, della loro portata, del loro significato, discende l’ampiezza delle responsabilità del committente datore di lavoro per le ipotesi di infortunio sul lavoro avvenuti in danno dei dipendenti dell’appaltatore.

Tali obblighi, è stato osservato in dottrina ([2]), hanno di fatto trasformato il principio di non ingerenza nel suo esatto opposto, giustificando interpretazioni anche giurisprudenziali secondo le quali gli stessi avrebbero capacità di fondare in capo al committente una generale posizione di garanzia e controllo dell’integrità fisica anche del lavoratore dipendente dall’appaltatore, assegnando al committente un onere di supplenza rispetto all’obbligo di sicurezza gravante sull’appaltatore, in relazione ad eventi lesivi occorsi ai propri dipendenti.

Il nucleo centrale della cooperazione e del coordinamento è stato fissato in definizione giurisprudenziale. Sul punto si richiama la sentenza Cass. Pen. Sez. IV 3 luglio 2002, n. 31459, secondo cui coordinare significherebbe “…collegare razionalmente le varie fasi dell’attività in corso, in modo da evitare disaccordi, sovrapposizioni, intralci che possono accrescere notevolmente i pericoli per tutti coloro che operano nel medesimo ambiente”, mentre cooperare, invece, significherebbe “…contribuire attivamente, dall’una e dall’altra parte, a predisporre ed applicare le misure di protezione e prevenzione necessarie alla tutela delle condizioni di lavoro”.Le principali difficoltà interpretative poste dalla prassi giurisprudenziale hanno avuto ad oggetto l’individuazione dell’esatto contenuto dell’obbligo gravante sul committente di coordinarsi e cooperare con l’impresa appaltatrice.In sostanza, la questione cui si è tentato di dare risposta negli orientamenti giurisprudenziali affermatisi in materia è quella di individuare fino a che punto debba spingersi l’obbligo del datore di lavoro committente, ossia in relazione all’individuazione di quali rischi tali obblighi sussistano a suo carico. È di intuibile evidenza, infatti, come proprio da una concreta e diversa delimitazione degli obblighi di coordinarsi e cooperare, possano discendere nel caso concreto diverse conseguenze in ordine alla valutazione della responsabilità o meno del committente per il fatto lesivo avvenuto nell’ambito del luogo di lavoro di cui egli ha disponibilità giuridica in danno del lavoratore dipendente di un soggetto datoriale terzo, l’impresa appaltatrice, ed ancor più, in relazione ad un evento che si ricollega ad un rischio specifico proprio di quell’organizzazione datoriale diversa.

Ebbene, in giurisprudenza e dottrina si possono in proposito registrare diversi orientamenti.

Secondo un primo orientamento, la responsabilità del committente deve ritenersi sussistere in relazione agli infortuni verificatesi nel corso dello svolgimento delle lavorazioni “appaltate”, anche qualora si tratti di eventi di danno riconducibili alla concretizzazione di “specifici rischi” riferibili al ciclo di lavorazione della ditta appaltatrice (cfr. Cass. Pen. Sez. IV 17 gennaio 2008, n. 13917).

Si tratta dell’orientamento più rigoroso, che radica la sua giustificazione nell’affermazione che comunque tali danni si sarebbero verificati in un ambito di lavoro riconducibile all’area di disponibilità del datore di lavoro, il quale pertanto dovrebbe essere tenuto a garantire, mediante controllo, le condizioni di sicurezza.

Per un secondo orientamento, più sensibile alle istanze di delimitazione dell’obbligo di coordinarsi e cooperare per il committente, gli stessi obblighi avrebbero ad oggetto esclusivamente l’attuazione di misure prevenzionali rivolte ad eliminare i pericoli che vanno ad incidere sia sui dipendenti dell’appaltante-committente che su quelli dell’appaltatore, non potendo farsi gravare alcun obbligo sul committente – e per l’effetto dalla sua violazione alcuna responsabilità – di intervenire sull’appaltatore per esigere dallo stesso il rispetto degli obblighi di sicurezza, posti a tutela dei suoi dipendenti (cfr. Cass. Pen. Sez. IV 21 maggio 2009, n. 28197)

Secondo, infine, un terzo e più consolidato orientamento, sempre sensibile ad istanze di garanzie sollecitate anche da riflessioni dottrinali e volte a limitare la responsabilità del committente nel caso di eventi lesivi originati da fattori di rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici, ma comunque intermedio rispetto ai due orientamenti sopra citati, l’obbligo del committente si spingerebbe solo fino a coordinarsi e cooperare oltreché con riguardo ai rischi comuni a quelli specifici dell’attività dell’impresa appaltatrice, facilmente riconoscibili da chiunque a prescindere dalle proprie specifiche competenze (cfr. ex plurimis, Cass. Pen. Sez. IV, 14 marzo 2008, n. 23090).

In relazione a questi fattori di rischio dovrebbe quindi operare l’obbligo di supplenza dell’appaltante nei confronti dell’appaltatore, proprio perché a fronte di una violazione evidente ed immediatamente percepibile la condotta del garante di sicurezza che si traducesse in una tolleranza all’interno del proprio luogo di lavoro della violazione di misure di tutela dei lavoratori, per quanto questi ultimi afferenti ad un diverso soggetto datoriale, si risolverebbe per il committente in un tacito avallo della violazione medesima (Cass. Pen. Sez. IV, 14 luglio 2006, n. 30857, Cass. Pen., Sez. IV, 15 gennaio 2014, n. 1511).

I tre citati orientamenti nel declinare diversamente la portata dell’obbligo di coordinamento e cooperazione concordano nel riconoscere la sussistenza di un obbligo per il committente e l’appaltatore, con riferimento alla individuazione e prevenzione dei “rischi comuni”, ossia di quelli che possono coinvolgere, per effetto dell’interferenza fra attività produttive riconducibili a soggetti datoriali diversi ed in caso di appalto interno, sia i lavoratori del committente che quelli dell’appaltatore.

Tra i “rischi comuni” rientrano proprio i rischi interferenziali, originati come detto dalla compresenza sul medesimo luogo di lavoro, di lavoratori di più imprese.

Non v’è dubbio, pertanto, che in relazione ai rischi interferenziali, committente ed appaltatore siano gravati da un obbligo di cooperare e coordinarsi e che, per l’effetto, l’inadeguata attuazione di tali obblighi, o ancor peggio la loro violazione, potranno costituire parametro cui ancorare il giudizio di rimproverabilità per colpa, nei confronti di entrambi, qualora il procedimento probatorio risulti in grado di dimostrare il nesso causale tra detta violazione cautelare e l’evento lesivo occorso sia ai dipendenti del committente che a quelli dell’appaltatori.

d) L’obbligo di promozione del coordinamento (art. 26.3° comma)

In carico al solo datore di lavoro committente è previsto l’obbligo di promuove la cooperazione e il coordinamento attraverso la redazione del DUVRI (26.3°comma).

Il DUVRI, ossia il documento unico di valutazione dei rischi interferenziali, è il documento con il quale vengono valutati i rischi interferenti e fornite le conseguenti indicazioni operative e gestionali per superare gli ostacoli alla prevenzione degli incidenti nei luoghi di lavoro, che siano generati dalla compresenza e dal venire in contatto del personale del committente e dell’appaltatore o del personale delle imprese differenti che si trovano ad operare, in forza dei contratti di appalto, d’opera e somministrazione, nell’ambiente di lavoro del committente (il medesimo contesto ambientale, ossia l’appalto “interno”).

Nel DUVRI viene pertanto direttamente in rilievo il tema del “rischio interferenziale”, o da interferenza, che come tale non deve essere confuso, come invero talvolta ancora accade, con il DVR: mentre il primo – DUVRI – sarà il risultato del contributo di più soggetti, in cui ognuno di questi effettua una valutazione dei rischi apportati dalla propria attività in quel particolare contratto di lavoro (l’appalto interno), il secondo, ossia il DVR, è il documento proprio di una singola azienda, in cui vengono elencati i rischi e le relative misure preventive e protettive, specifiche dell’azienda che lo redige, indipendentemente dall’esistenza di un contratto con altre imprese, alla cui redazione è tenuto il datore di lavoro, il principale debitore di sicurezza disciplinato dal sistema prevenzionistico, che non ha neppure il potere di delegarne il compito (art. 17, lett. a) TUSL).

La redazione del DUVRI, si ribadisce, trova ragione d’essere invece proprio in tutti quei casi in cui vi sia una concomitanza di soggetti che lavorano nello stesso ambiente di lavoro, ed in tutte quelle situazioni in cui vi sia un appalto che non ricada nel campo dell’edilizia.

Per il settore dell’edilizia, infatti, il titolo IV del D.Lgs 81/08 prevede l’elaborazione di alcuni documenti relativi agli aspetti della sicurezza, con contenuti minimi e caratteristiche che sono specifiche e studiate appositamente per la valutazione dei rischi da interferenze lavorative proprie di questo settore. In particolare, è previsto che ogni impresa coinvolta in un cantiere edile abbia l’obbligo di redazione del POS (Piano Operativo di Sicurezza), un documento in cui vengono definite le misure di sicurezza rivolte ad eliminare o ridurre al minimo i rischi lavorativi all’interno di un contratto d’opera. Al contempo, è previsto che il coordinamento di tutti i rischi previsti dai singoli POS, forniti da ogni impresa, venga definito nel PSC (Piano di Sicurezza e Coordinamento), un documento che deve essere redatto dal Coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione (CSP), e fatto attuare dal Coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione (CSE), soggetti professionalmente competenti, che pur non costituendo l’ alter ego del committente, hanno la funzione di progettare e far attuare, con funzione di alta vigilanza, un sistema di misure volte ad eliminare o ridurre i rischi derivanti dalle lavorazioni interferenti che si svolgono all’interno del cantiere edile.

Sotto questo profilo, si evidenzia, non v’è dubbio che sussista un’evidente “parallelismo” tra la funzione del DUVRI da un lato, per l’appalto “interno” (intraziendale), e del PSC dall’altro per i cantieri edili.

Ciò premesso, risulta essenziale evidenziare che anche con riferimento allo specifico obbligo previsto a carico del committente di promuovere la cooperazione ed il coordinamento mediante la redazione del DUVRI, il documento unico di valutazione dei rischi interferenziali, si sono posti alcuni dubbi interpretativi.

In primo luogo, si è posto il problema se la predisposizione del DUVRI oltre che necessaria possa essere considerata anche sufficiente a ritenere rispettato l’obbligo imposto dall’art. 26 TUSL.

Sul punto, partendo dalla valenza semantica del disposto normativo, secondo cui il datore di lavoro committente “…promuove la cooperazione ed il coordinamento… elaborando…”, appare pressoché unanime l’orientamento giurisprudenziale e l’interpretazione in dottrina secondo cui l’elaborazione del DUVRI valga ad esaurire per il datore di lavoro committente le modalità di adempimento dell’obbligo di promozione.

Ciò non significa, però, che automaticamente all’adozione del DUVRI consegua l’esonero di responsabilità per il committente per l’ipotesi di infortunio occorso ad un lavoratore, in cui l’evento possa dimostrarsi essere causalmente concretizzazione di un rischio interferenziale.

In tal caso, infatti, sarà necessario procedere ad una verifica di adeguatezza del DUVRI, da sottoporre a severo vaglio critico di merito, anche per stabilire se sussista in concreto uno spazio di rimproverabilità a carico del committente, il quale negligentemente potrebbe non aver valutato il rischio da interferenza, che invece si è verificato nel caso concreto. Laddove, quindi, si riesca ad ipotizzare che l’omessa individuazione dell’area di rischio da interferenza poteva essere prevista, con la conseguenza che dall’adozione del DUVRI e dalla sua attuazione si sarebbe potuto originare un percorso virtuoso impeditivo dell’evento di danno, ne potrà discendere un giudizio di rimprovero per colpa a carico del committente, nonostante la formale adozione del DUVRI.

La seconda questione, prevalentemente pratica, ha riguardato la definizione dell’oggetto del DUVRI, ossia l’individuazione dei rischi che da tale documento devono essere presi in considerazione.

Al riguardo, come anticipato con la definizione offerta di DUVRI, risulta unanime l’idea che il documento abbia ad oggetto la messa in relazione dei rischi presenti sul luogo di lavoro – l’ambiente di lavoro del datore di lavoro committente – con i rischi derivanti dall’esecuzione delle prestazioni lavorative previste dal contratto di appalto “interno”.

Un terzo profilo, invece, è relativo all’ambito di esenzione dell’obbligo di redazione del DUVRI.

In proposito rileva segnalare che, al fine della compiuta delimitazione dell’obbligo di redazione del DUVRI, il legislatore ha espressamente previsto che non sussiste l’obbligo di elaborazione del DUVRI se il servizio prestato è di “natura intellettuale…” o se si tratta di una “…mera fornitura di materiali o attrezzature…”, ed in ogni caso per tutti i lavori la cui “…durata non sia superiore ai cinque uomini giorno..” in un arco temporale di un anno dalla data di inizio dei lavori.

Il DUVRI deve essere invece sempre redatto, anche quindi per attività di durata inferiore ai cinque giorni, nei casi in cui la valutazione del rischio incendio risulti elevato o in tutte le attività svolte in ambienti confinati o in cui vi sia presenza di agenti cancerogeni, mutageni, biologici, di amianto o di atmosfere esplosive, nonché nelle attività che presentino rischi particolari elencate nell’allegato XI del D.Lgs 81/08 (art. 26, comma 3bis TUSL). Dall’agosto 2013 inoltre, con l’entrata in vigore del Decreto 69/13, meglio conosciuto come “Decreto del fare” è stata introdotta l’esenzione del documento di valutazione dei rischi interferenziali per le attività considerate “a basso rischio infortunistico”.

In sostanza, è stato osservato come la normativa abbia voluto introdurre una presunzione giuridica di irrilevanza del rischio interferenziale, da un lato, in ragione del tipo di opera prestata dall’impresa appaltatrice o dal lavoratore autonomo (servivi intellettuali o mere forniture) e, dall’altro, in ragione della durata della prestazione, salvo poi introdurre un’eccezione all’esclusione, giustificata dalla natura del rischio interferenziale, ritenuto intollerabile – e quindi necessariamente da far oggetto di valutazione – laddove derivanti da presenza di agenti cancerogeni, biologici o esplosivi.

Residua poi la questione del significato da attribuire all’espressione “rischi specifici” contenuta nell’art. 26 comma 3° TUSL, che esclude l’obbligo di promuovere la cooperazione e il coordinamento per il datore di lavoro committente, anche attraverso il DUVRI, per i “…rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi“.Come accennato in precedenza, secondo parte della giurisprudenza tale esclusione andrebbe riferita non tanto alle generiche precauzioni da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare il verificarsi di incidenti, quanto semmai alle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale – generalmente mancante in chi opera in settori diversi – nella conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni o nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine (Cass. Pen. sez. IV, 17 maggio 2005, n. 31296, Mogliani). Ne consegue, ad esempio, che “non può… considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di impedire crolli di solai dovuta alla fatiscenza delle strutture portanti, [essendo] questo pericolo, riconoscibile da chiunque indipendentemente dalle sue specifiche competenze” (Cass. Pen., Sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 12348).

In definitiva, i rischi “riconoscibili da chiunque, indipendentemente dalle sue specifiche competenze”, dovranno divenire oggetto del DUVRI, con la conseguenza che rispetto ad essi residuerà obbligo di promozione per il datore di lavoro committente, legalmente l’unico soggetto, parte del negozio giuridico di appalto, direttamente responsabile per il caso dell’eventuale omessa predisposizione.

L’esigenza di un metodo per affrontare l’indagine penale nell’infortunio connesso al rischio interferenziale.

Le indagini penali in materia di sicurezza sul lavoro presentano profili di inequivoca peculiarità.

Prima fra tutte, quella dovuta alla necessità di dover tenere conto della natura propria delle violazioni. L’accertamento del fatto reato, infatti, sia che questo sia integrato da semplici violazioni contravvenzionali, sia che appartenga al novero dei delitti colposi per infortunio sul lavoro o malattia professionale, od ancora, laddove integri uno dei delitti contro la sicurezza del lavoro e l’incolumità dei lavoratori previsti dal codice (si pensi ai delitti di omissioni dolose o colpose di cautele antinfortunistiche di cui agli artt. 437 e 451 c.p.), necessiterà comunque di dover dare prova oltre che della materialità della condotta e del profilo di colpa o dolo, anche della specifica qualifica del soggetto agente.

Tale verifica, proprio perché volta ad accertare un elemento costitutivo della fattispecie, non potrà che diventare – sin dall’origine – oggetto del focus dell’investigazione penale, che da un lato dovrà ricostruire un fatto storico per verificarne in concreto la sussumibilità in un’astratta ipotesi di reato, dall’altro, contestualmente, dovrà verificare la sussistenza in capo all’autore di quel fatto storico delle condizioni richieste dalla legge per identificarlo nel soggetto responsabile.Il tema che viene in rilievo sotto questo profilo è quello dell’individuazione del soggetto gravato dalla posizione di garanzia, ossia del destinatario del precetto prevenzionistico che si assume in ipotesi in concreto violato.  Ciò detto, non v’è dubbio che proprio a fronte del verificarsi di fatti delittuosi, ed in particolare di eventi di infortunio occorsi sul luogo di lavoro, risulta fondamentale che il pubblico ministero indirizzi la propria azione di accertamento, ispirandola ad una metodologia che, contestualmente, ponga le condizioni per verificare e ricostruire sia il fatto storico da cui è scaturito l’evento lesivo, sia gli elementi probatori da cui inferire della riferibilità soggettiva della condotta illecita.Nella prassi di indagine sovente tale “duplice e contestuale” obiettivo viene perseguito attraverso l’adozione di specifici protocolli investigativi, ossia schemi procedimentalizzati che si propongono di guidare il pubblico ministero ed i suoi collaboratori nell’attività di acquisizione degli elementi di prova, sulla base dei quali, all’esito delle investigazioni, da parte del pubblico ministero verrà compiuta la valutazione prognostica in ordine alla capacità degli stessi di sostenere l’accusa in giudizio mediante la redazione dell’imputazione, in relazione al fatto storico ricostruito sussunto nel fatto reato ipotizzato a carico del soggetto ritenuto responsabile. Il protocollo investigativo, però, a ben vedere altro non è che la traduzione in concreto di una metodologia di indagine.Le problematiche connesse all’accertamento di responsabilità in casi evento infortunio occorso al lavoratore subordinato, infatti, possono essere estremamente variegate fra di loro, potendo dipendere alternativamente, e talvolta cumulativamente, sotto il profilo oggettivo, dalla tipologia di lavoro che ha dato origine all’evento infortunio, dalla specifica modalità di organizzazione del lavoro, dalla peculiarità del processo produttivo e dai contenuti tecnici di esso e, sotto il profilo soggettivo, dalla forma giuridica del soggetto datoriale, notoriamente in astratto suscettibile di ricomprendere sia il datore persona fisica, che quello dotato di personalità giuridica, la quale a sua volta si presenta realtà estremamente diversificata, potendo essere rappresentata da società a responsabilità limitata di piccole dimensioni, o da società per azioni costituenti organizzazioni complesse.Tale diversità di situazioni concrete, diretta conseguenza della molteplicità della realtà fenomenologica di impresa in cui matura l’evento infortunio, non agevola l’opera di astratta individuazione di schemi investigativi standardizzati, quali sono appunto i protocolli investigativi, che siano dotati di valenza assoluta. In definitiva, proprio partendo dall’esperienza concreta di indagini penali nel settore prevenzionistico, e soprattutto quella relativa ai casi in cui si tratta di dare risposta alla domanda in merito all’individuazione del soggetto responsabile dell’evento infortunio occorso al lavoratore concretizzazione di un rischio interferenziale, potrebbe indurre ad optare per una diversa proposta di chiave interpretativa, ossia quella di suggerire l’adozione di un metodo di indagine, anziché un modello astratto di protocollo investigativo, finalizzato a governare ed indirizzare le investigazioni.Una simile soluzione potrebbe avere il merito, infatti, da una parte, di meglio adattarsi alla potenziale diversità della realtà di lavoro da investigare nel caso concreto e, dall’altra, di responsabilizzare il dominus dell’indagine, appunto il pubblico ministero, richiedendo un suo attivo, diretto e costante coinvolgimento nella direzione delle indagini, evitando invece quei rischi connessi ad un’applicazione spersonalizzata dei protocolli investigativi, che possono talvolta finire per risolversi in delle vere e proprie deleghe in bianco alla polizia giudiziaria, seppur specializzata.

Quanto esposto in premessa, da una parte, per quanto riguarda il tema di inquadramento generale del rischio interferenziale nel concetto di immane rischio che connota e conforma il vigente sistema prevenzionistico e, dall’altra, sul metodo di individuazione del soggetto titolare della sfera di responsabilità rispetto all’evento lesivo infortunio, in quanto garante dell’area di rischio dalla cui concretizzazione è disceso l’evento tipico, consente in questa sede di procedere sinteticamente ad ipotizzare per il pubblico ministero un criterio metodologico cui ispirare l’accertamento investigativo.Si tratta di un metodo che ripercorrendo “a ritroso” il percorso dall’evento tipico al soggetto responsabile, come suggerito dalla Suprema Corte, pone le premesse sin dall’origine del procedimento affinché il pubblico ministero possa avere, all’esito delle indagini preliminari, tutti gli elementi utili per compiere la suddetta valutazione prognostica in ordine alla sostenibilità dell’accusa (ossia dell’esercizio dell’azione penale) in giudizio.É un metodo che in tal senso, proprio perché parametrato su un criterio di decisione che è tipico dell’organo giudicante, ed addirittura del giudice nomofilattico, pone le condizioni per giurisdizionalizzarel’operato del pubblico ministero, assicurando le premesse per evitare processi inutili, quali quelli istruiti in esito all’esercizio dell’azione penale che si fondano su un fatto non correttamente riscostruito, o su un ragionamento probatorio della colpa inconferente o errato, o addirittura nei confronti del soggetto sbagliato.Si tratta, in definitiva, di offrire un metodo che eviti sin dall’inizio delle indagini di svolgere investigazioni superflue, inutili, o all’opposto lacunose, la cui unica conseguenza potrà essere nel successivo svolgimento del processo una decisione di proscioglimento dell’imputato (o degli imputati), perché il fatto non sussiste, o perché non costituisce reato, o ancor peggio perché gli imputati non lo hanno commesso, vanificando la finalità stessa del processo penale, di per sé luogo di sofferenza sia per gli ipotizzati autori dell’illecito, che per le vittime, tanto più accentuata nei casi di contestazioni per colpa, in relazione ad infortunio sul lavoro.In conclusione, ancora una volta recuperando ed approfondendo le considerazioni esposte nella parte generale sulla teoria della gestione del rischio, tradurre in una logica procedimentalizzata, in un metodo investigativo il ragionamento delle Sezioni Unite, presuppone di partire dalla compiuta ricostruzione in concreto dell’evento lesivo, per verificare come esso si è verificato, fotografando cristallizzandole le cause materiali che hanno determinato l’infortunio sul lavoro (tale fase si definisce della causalità materiale della colpa). Successivamente, proprio partendo dall’esatta ricostruzione dell’evento, per come si è verificato in concreto, si dovrà risalire, “in orizzontale”, ad individuare l’area di rischio che quell’evento lesivo avrebbe dovuto prevenire ed evitare. Lo studio dell’area di rischio consentirà di individuare il catalogo delle regole cautelari la cui corretta osservanza consente di evitare il verificarsi di eventi lesivi (causalità della condotta), mentre all’apposto, dalla cui violazione può discendere il danno, proprio come effetto e concretizzazione di quel rischio (causalità della colpa, che si muove fra il concetto di concretizzazione del rischio ed il giudizio controfattuale).Individuata l’“area” di rischio, di fatto residuerà l’ultimo passaggio, quello appunto relativo all’identificazione del ruolo, delle competenze e poteri, ossia della “sfera” di responsabilità che avrebbe dovuto gestire il rischio, rispetto al quale potrà essere anche verificata la dimensione soggettiva della colpa, secondo il parametro della prevedibilità ed evitabilità.Il tutto, ricordando quanto con specifico riferimento alle ipotesi di infortunio concretizzazione dell’inadeguata gestione del rischio interferenziale, sia indispensabile che il pubblico ministero sin dall’inizio dell’investigazione riesca a definire l’ambito di riferimento in cui si è collocato l’evento, al fine di orientare il successivo accertamento di responsabilità o meno, ai parametri fissati dalla disciplina dell’art. 26 TUSL per l’appalto “interno”, o in alternativa dal Titolo IV, per i cantieri edili o di ingegneria civile (salvo le ipotesi limite, di cui parimenti si è fatto cenno, di interferenza fra attività cantieristica allocata all’interno di un’impresa con processi di esternalizzazione in atto, e le lavorazioni facenti capo a diversi soggetti che fanno parte dell’appalto interno).

Ancora una volta, si sottolinea, a conferma della centralità ed importanza del momento della ricostruzione della materialità dell’evento lesivo, sarà proprio questo a fornire al pubblico ministero le risposte di cui necessita.


[1]          Cfr. F. Giunta – D. Micheletti, Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, 2010, 23.

[2]          Cfr. F. Giunta – D. Micheletti, Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, 2010, 28.