SARS-CoV-2, COVID-19, sicurezza e salute dei lavoratori

di Roberto Calisti Medico del Lavoro, direttore del Servizio Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro – Epidemiologia Occupazionale (SPreSAL Epi Occ) ASUR MARCHE AV3 – Civitanova Marche

SOMMARIO

– 0. Premessa. – 1. COVID-19 in Italia: l’impatto su sicurezza e salute dei lavoratori. – 2. I Coronavirus, SARS-COV-2 e Dlgs 81/08: scenari di rischio da SARS-CoV-2 negli ambienti di lavoro. – 3. L’epidemia di COVID-19 tra gli operatori sanitari italiani. – 4. Prima o poi arriverà la post-emergenza …

  • Premessa

Sono un Medico del Lavoro del Servizio Sanitario Pubblico e come tale propongo alla riflessione e all’approfondimento alcune modeste considerazioni sulla grave, tragica criticità che da febbraio 2020 attanaglia anche l’Italia, per il manifestarsi di casi prima circoscritti e poi, con estrema rapidità, sempre più frequenti e diffusi della nuova forma di pneumopatia acuta virale denominata COVID-19 (COrona VIrus Disease 2019, perché epidemiologicamente manifestatasi verso la fine di tale anno).

  1. COVID-19 in Italia: l’impatto su sicurezza e salute dei lavoratori.

L’agente causale di COVID-19 è un patogeno nuovo, apparso per la prima volta sulla scena mondiale per l’appunto verso la fine del 2019, che l’ICTV (International Committee on Taxonomy of Viruses) ha denominato SARS-CoV-2. L’acronimo SARS sta per Severe Acute Respiratory Syndrome, a evidenziare che l’effetto più significativo del virus si esercita sull’apparato respiratorio in forma acuta e grave; la malattia, una polmonite interstiziale con diverse peculiarità cliniche, è letale in un numero non trascurabile di casi, in prevalenza per i pazienti defedati per età e/o patologie preesistenti, ma non solo per loro. La diffusività di SARS-CoV2 è tale da aver portato l’Organizzazione Mondiale della Sanità a dichiarare che quanto attualmente in corso è una pandemia. Non esiste un vaccino per SARS-CoV-2 e farmaci attivi su SARS-CoV-2 sono attualmente solo in fase di sperimentazione, non nell’uso clinico corrente.

Il contagio si verifica fondamentalmente (anche se non unicamente) tramite la diffusione di goccioline emesse dalla persona infetta con i normali atti del respiro ed ancor più con colpi di tosse o starnuti; persone ammalate soggette ad atti medici invasivi possono essere una fonte di dispersione ulteriore, seppure “passiva”, di particolare pericolosità.

La situazione di pandemia per un virus che si diffonde in questo modo fa sì che esposizioni all’agente e quindi possibilità di contagio possano verificarsi non solo in qualunque parte del mondo, ma anche in qualunque tipo di scenario di relazioni umane, certamente comprese quelle di lavoro: in altri termini si tratta di un rischio biologico di popolazione che può essere a buona ragione definito ubiquitario e che presenta poi configurazioni peculiari in una variegata gamma di realtà lavorative, con più o meno elevate probabilità di contagio di natura occupazionale in ragione dell’oggetto della produzione di un bene o un servizio e/o dei modi secondo i quali l’attività si svolge.  

SARS-CoV-2 ha un impatto sulla sicurezza e la salute dei lavoratori non limitato alle conseguenze di natura direttamente sanitaria, cioè al rischio di contrarre la COVID-19: ha modificato profondamente gli stati soggettivi, individuali e di collettività, del “sentirsi sicuri” e del “sentirsi in pericolo”; in moltissimi lavoratori induce preoccupazione per il futuro (per la prospettiva  di poter perdere il lavoro o comunque di andare incontro a un peggioramento delle condizioni di lavoro e della situazione economica); per coloro che si mantengono più o meno normalmente attivi (molte aziende sono ora chiuse ex lege) ha comportato di dover comunque adattare (a volte riprogettare) l’intera operatività in funzione di un interferente imprevisto che permea e destabilizza gli assetti organizzativi e le relazioni, senza che si abbia di fronte un orizzonte temporale definito perché si possa dire che l’emergenza è terminata. Il sine die (quello che in termini medico-legali configura un danno “permanente”) è un problema nel problema.

Inoltre, oggi non è che i rischi lavorativi ordinari siano scomparsi o anche solo temporaneamente sospesi: è vero che molte cose che si facevano prima della pandemia non si stanno facendo più, ma ciò che ancora si continua a fare lo si fa in condizioni inevitabilmente più complicate, quindi potenzialmente più pericolose. Si pensi a un intervento manutentivo in urgenza, magari in altezza, su di un impianto industriale già intrinsecamente pericoloso o a un trasporto di merci pericolose su gomma o su ferro eseguiti durante il presente periodo pandemico. Tutti gli spostamenti da un luogo all’altro e tutte le comunicazioni sono più difficoltosi, così come i soccorsi eventualmente necessari. L’uso di protezioni respiratorie con facciale filtrante, che oltre al distanziamento sociale (più o meno realizzabile a seconda della natura delle operazioni che si devono svolgere) è tra le poche misure efficaci contro SARS-CoV-2 quando si debba operare in più persone, determina una fatica respiratoria impattante sulla performance del lavoratore. Il lavorare in stato di ansia è in sé stesso un fattore di destabilizzazione delle normali condizioni operative e di sicurezza.

  • I Coronavirus, SARS-CoV-2 e Dlgs 81/08; scenari di rischio da SARS-CoV-2 negli ambienti di lavoro.

Alla grande famiglia tassonomica dei Coronavirus appartengono agenti con potenziale patogeno estremamente diverso, da quelli più “tranquilli” che causano il raffreddore comune a quelli più aggressivi che si sono rivelati causa dell’epidemia di SARS sviluppatasi tra il 2002 e il 2003, dell’epidemia di MERS (Middle East Respiratory Syndrome) apparsa nel 2012 e per l’appunto della pandemia di COVID-19 tuttora in corso. 

Nel Dlgs 81/08 (Titolo X, Allegato XLVI) il complesso della famiglia tassonomica dei Coronaviridae, a cui SARS-CoV-2 appartiene, è classificato tra gli agenti biologici del gruppo di rischio 2: vale a dire tra quelli che la norma acquisisce come in grado di causare malattia nell’uomo (senza indicare una specifica connotazione di gravità) e con un limitato potenziale di diffusività nella popolazione (“è poco probabile che si propaga nella comunità”). Per le sue caratteristiche SARS-CoV-2 parrebbe doversi collocare non in questo gruppo, ma quanto meno nel gruppo di rischio 3, cioè tra gli agenti in grado di causare malattia grave nell’uomo e che hanno un significativo potenziale di diffusività nella popolazione (con la specifica “costituisce un serio rischio per i lavoratori”). E’  del resto evidente che il legislatore, quando nel 2008 emise il Decreto di cui trattasi, non poteva prevedere la classificazione di un agente comparso per la prima volta nel 2019.  Pare quindi necessario un aggiornamento della norma. 

Non entro nel merito di come l’assieme del Dlgs 81/08 si applichi ai rischi occupazionali da SARS-CoV-2, cosa per cui necessitano professionalità giuridiche: propongo peraltro, da prevenzionista, che si vada a riflettere su alcuni elementi di impatto pratico significativo.

Penso che possa essere utile distinguere tre tipi di scenario di rischio per COVID-19:

  1. quelli di rischio generico tout court, cioè  sovrapponibile al rischio della popolazione generale di riferimento (l’occasione di lavoro è, rispetto alla probabilità di contagio, indifferente rispetto a quanto si verifica nell’ordinaria vita di relazione della cittadinanza: la pericolosità del trovarsi in un’edicola di riviste e giornali è sovrapponibile per l’edicolante e per il cliente; la pericolosità di un incontro di lavoro in uno studio ingegneristico o legale non differisce da quella di una conversazione tra avventori in un bar);
  • quelli di rischio generico aggravato da circostanze particolari connaturate al lavoro da svolgere (l’occasione di lavoro è più pericolosa di quelle dell’ordinaria vita di relazione della cittadinanza perché porta a contatti significativamente più frequenti e/o più ravvicinati, finanche all’annullamento delle distanze interpersonali: ciò, ad esempio, nei supermercati in cui una barriera delle casse di struttura tradizionale faccia sì che i cassieri interagiscano a distanza ravvicinata con un gran numero di persone nell’unità di tempo; ciò anche nelle case di riposo per soggetti in tutto o in parte non autosufficienti, laddove le attività assistenziali socio-sanitarie non consentono di mantenere distanze con gli assistiti e magari è indispensabile che, per determinate operazioni, si lavori spalla a spalla con dei colleghi; configurano un rischio generico aggravato anche le attività mediche ambulatoriali, nelle quali si assommano la numerosità dei contatti, la riduzione fino all’annullamento delle distanze interpersonali e una probabilità di avere rapporto con soggetti contagiati intrinsecamente più elevata che nel corrispondente scenario generale di popolazione);
  • quelli di rischio specifico: segnatamente gli scenari nei quali, perdurante il periodo epidemico, la presenza e la circolazione di SARS-CoV-2 siano di assai elevata probabilità (ad esempio un Pronto Soccorso o un’Unità Ospedaliera di Malattie Infettive) o pressoché una certezza (ad esempio, un’Unità Ospedaliera di Pneumologia o un’Unità Ospedaliera di Rianimazione) o anche una certezza assoluta (un’Unita Ospedaliera dedicata alla COVID-19 – ciò che ora è spesso definito COVID-hospital – o un Laboratorio di Ricerca con una sezione dedicata a SARS-CoV-2).

I datori di lavoro devono aggiornare la propria valutazione dei rischi occupazionali in funzione dello scenario di rischio per COVID-19 nel quale dovessero riconoscersi?

A buon senso (e a prescindere dall’individuazione dei riferimenti giuridici che meglio si attagliano alla circostanza, per i quali certo si rimanda alle professionalità giuridiche) ritengo di sì: perché detta realtà è nuova e perché essa modifica significativamente i profili di rischio tradizionali e consolidati, quelli con cui le aziende hanno consuetudine e per i quali hanno maturato esperienza. Tra l’altro, sono proprio i rischi biologici a poter più facilmente cogliere culturalmente e organizzativamente impreparate le aziende, perché in condizioni ordinarie essi sono non particolarmente diffusi e non particolarmente severi: quindi, per le aziende, anche il solo recepire le norme emergenziali valide erga omnes per il fronteggiamento di SARS-CoV-2 può comportare uno sforzo di rilievo.

Deve esservi proporzionalità tra entità del rischio e azioni intraprese: nelle situazioni a rischio generico tout court non si dovrà fare alcunché di diverso da ciò  che è doveroso fare nell’ordinaria vita di relazione della cittadinanza; nelle situazioni a rischio generico aggravato, pur mantenendo le linee complessive dell’organizzazione preesistente, si dovranno attuare azioni specifiche per tutelare i lavoratori così come, se ve ne sono, i soggetti esterni (ad esempio, nel caso dei supermercati si pensi al contingentamento degli ingressi, alla realizzazione di segnaletica per il distanziamento dei clienti in attesa di pagare e uscire, all’installazione di schermi in plexiglas tra cassieri e clienti); nelle situazioni a rischio specifico si dovrà riorganizzare completamente il lavoro o addirittura, per i COVID-hospital, costruire un’organizzazione del lavoro affatto nuova, seppure basata sull’evoluzione di modelli già sperimentati.

E’ importante dare riscontro documentale di ciò che si è fatto, anche per poterne verificare in seguito l’efficacia, o meno, e quindi per comprendere se si deve semplicemente proseguire sulla strada intrapresa oppure introdurre correttivi. Di nuovo, rimando a chi di competenza circa la forma giuridica che potrebbe e/o dovrebbe assumere tale riscontro documentale: sempre a buon senso, ipotizzo peraltro che si potrebbe andare da una semplice nota in calce al documento aziendale di valutazione dei rischi di cui al Dlgs 81/08, a una più strutturata scheda di attualizzazione di tale documento in cui siano registrate le criticità osservate e le misure specificamente attuate, a una revisione profonda o addirittura a una riscrittura completa della sezione “rischio biologico” del documento di valutazione dei rischi, ove questa già esista. Non va dimenticato che il documento di valutazione è uno strumento della valutazione dei rischi e dei percorsi di prevenzione e protezione, non un adempimento burocratico fine a sé stesso.

Perdurante l’emergenza epidemica è fondamentale che, ad integrazione delle misure di distanziamento sociale ed organizzative in genere, nei contesti lavorativi si affronti razionalmente ed efficacemente la questione delle protezioni respiratorie individuali: qualcosa che oggi vediamo affrontata, più o meno razionalmente ed efficacemente, anche dai comuni cittadini che si recano a fare la spesa o in farmacia, ove essi si aspettano di dover stare per qualche tempo in coda come di potersi trovare, anche solo incidentalmente e momentaneamente, a contatto ravvicinato con altri.

SARS-CoV-2 ha costretto a riconsiderare organicamente due categorie di protezioni respiratorie individuali: le maschere chirurgiche ovvero più comprensivamente “maschere mediche” e i dispositivi di protezione individuale (DPI) respiratoria di cui al Dlgs 81/08. Le une e gli altri si basano sul principio di opporre un ostacolo al libero transito di agenti aerodispersi da e per le vie respiratorie e la cavità orale: detto ostacolo è costituito da un pacco filtrante di tipo di volta in volta mirato a trattenere agenti di natura e dimensioni diverse. A questa analogia si contrappongono differenze importanti, di cui si dirà più oltre. 

L’efficacia di qualunque protezione respiratoria è condizionata dalla sua maggiore o minore aderenza al viso di chi la indossa: se la protezione respiratoria si scosta dal viso (cosa che può accadere più facilmente all’angolo tra naso e zigomo, ma anche lungo l’intero contorno) l’aria, in entrata come in uscita, passa da quel punto di minor resistenza anziché dal pacco filtrante, che una resistenza meccanica invece inevitabilmente la oppone. La resistenza del pacco filtrante al passaggio dell’aria aumenta con l’aumentare della sua capacità di trattenimento e questo comporta, in parallelo, un aumento dello sforzo respiratorio di chi ne sta usufruendo: in pratica, un maggior livello di protezione si paga con un aumento della fatica respiratoria e va di volta attuato un bilanciamento tra vantaggi e svantaggi di livelli di filtrazione più o meno elevati. 

Le maschere mediche sono destinate ad essere indossate dai professionisti della salute per evitare che goccioline liquide da essi emesse possano giungere ai pazienti assistiti in condizioni di vulnerabilità, in particolare durante interventi chirurgici: offrono quindi, essenzialmente, una protezione per chi è assistito nei confronti del pericolo proveniente da coloro che le indossano. Hanno un’efficacia non molto elevata (ma comunque ce l’hanno) nel proteggere chi le indossa da agenti esterni aerodispersi che potrebbero giungere alla loro cavità orale o alle loro vie respiratorie.

I DPI respiratori di cui al Dlgs 81/08 hanno una valenza speculare a quella delle maschere mediche; ciò vale a dire che il loro scopo primario è di offrire a chi li indossa una protezione efficace nei confronti di agenti esterni aerodispersi che potrebbero giungere alla loro cavità orale o alle loro vie respiratorie. Offrono anche un rilevante livello di protezione nei confronti di chi si trova in prossimità di coloro che li indossano, ma con un’eccezione importante: quando in essi è inclusa una valvola di esalazione. Detta valvola si chiude in inspirio, forzando l’aria a passare attraverso il pacco filtrante, e si apre in espirio, rendendo libero il passaggio dell’aria attraverso di essa. E’ intuitivo dedurne che l’assenza di una valvola aumenta fortemente la protezione dei soggetti terzi al prezzo di una maggior fatica respiratoria di chi indossa il dispositivo di protezione respiratoria, e viceversa.

La scelta del tipo di protezioni respiratorie individuali adeguate al singolo scenario di rischio è quindi sempre specifica, spesso tecnicamente non facile, comunque derivata da un bilanciamento tra entità del rischio ed esigenze diverse di coloro che le indossano e di coloro che si trovano nelle loro vicinanze.   

L’attuale situazione epidemica ha avuto un impatto importante anche sul complesso delle attività di sorveglianza sanitaria preventiva, periodica e straordinaria previste dal Dlgs 81/08. Si è detto che un’attività medica ambulatoriale può offrire occasioni di rischio generico aggravato per COVID-19; è quindi senz’altro ragionevole la scelta di molti medici del lavoro di rinviare a data da destinarsi, ogni volta che sia possibile, tutte le visite per le quali il beneficio atteso dal controllo di salute si presenti inferiore al rischio biologico incrementale. Vi sono peraltro tre fattispecie di visite, previste dalla norma, che si ritiene non siano assoggettabili a tale scelta di rinvio: quelle preventive in fase preassuntiva (particolarmente per quanti debbano essere subito avviati a lavori di rilevante utilità sociale), quelle che devono precedere il rientro di un lavoratore dopo più di sessanta giorni di assenza dal lavoro e quelle straordinarie su richiesta del lavoratore, qualora il medico competente ne ravvisi l’effettiva urgenza (determinata ad esempio da uno stato di immunocompromissione che renda più pericolosa dell’ordinario la presenza in un ambiente di lavoro anche solo a rischio generico aggravato). Chiaramente, per le visite che verranno comunque fatte anche in corso di epidemia andrà predisposto un setting di particolare cautela, in ordine alla protezione tanto del medico quanto del lavoratore.

  • 3. L’epidemia di COVID-19 tra i lavoratori.

I non molti dati epidemiologici ad oggi disponibili documentano che gli operatori sanitari italiani stanno pagando un prezzo estremamente elevato, in termini di malattie ed anche di decessi, all’epidemia di COVID-19 in corso. Le categorie della “fatalità” e della “immolazione eroica” non possono certo risolvere l’interpretazione di questa epidemia nell’epidemia, né possono dare giustificazione all’omissione di una ricerca approfondita sulle cause e sulle responsabilità. Perché così tanti operatori sanitari si sono ammalati di COVID-19 nei servizi di Pronto Soccorso e nei Reparti Ospedalieri e dove sono state le falle della rete di prevenzione e protezione che hanno consentito tali eventi? Perché così tanti medici di medicina generale si sono ammalati di COVID-19? Qualcuno di essi si sarà contagiato in occasioni della vita quotidiana della popolazione generale, ma anche in assenza di un’analisi formale è evidente che la massima parte di essi ha contratto l’infezione in occasione di lavoro e a causa del lavoro. Comprendere cosa è accaduto e sta accadendo a tale riguardo è inderogabile e va fatto tempestivamente: anche perché bisogna imparare dagli errori e porvi rimedio, ad evitare che per troppi altri il rischio indebito si traduca in un danno che non avrebbe dovuto esserci.  

Nel documento CORONAVIRUS DISEASE (COVID-19) OUTBREAK: RIGHTS, ROLES AND RESPONSIBILITIES OF HEALTH WORKERS, INCLUDING KEY CONSIDERATIONS FOR OCCUPATIONAL SAFETY AND HEALTH emesso quest’anno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità si leggono queste indicazioni: “honour the right to compensation, rehabilitation and curative services if infected with COVID-19 following exposure in the workplace”; “this would be considered occupational exposure and resulting illness would be considered an occupational disease”.

L’INAIL ha chiarito con proprio atto interno, ma liberamente disponibile sul sito dell’Istituto, che per gli operatori sanitari l’infezione da SARS-CoV-2 si configura automaticamente come infortunio sul lavoro (per equiparazione della “causa virulenta” alla “causa violenta”), ovviamente a meno che il contagio sia avvenuto in occasione diversa da quella di lavoro. Siamo quindi in presenza di un livello di tutela assicurativa certo ed elevato. 

Non sono noti analoghi provvedimenti dell’Istituto assicuratore pubblico per la tutela di lavoratori diversi da quelli sanitari che si ammalino di COVID-19: non è peraltro difficile immaginare che diversi di questi contraggano l’infezione proprio in occasione di lavoro e per motivi di lavoro. Si pensi a dei trasportatori che abbiano effettuato viaggi per prelievi e consegne di merci nelle zone con più elevata incidenza di casi, che abbiano sviluppato sintomi evocativi entro i quattordici giorni successivi (tempo convenzionalmente assunto come periodo di incubazione massimo ovvero intervallo di latenza massimo) e per i quali sia stata poi posta una diagnosi positiva di COVID-19. Si pensi a lavoratori industriali o del commercio il cui ruolo e la cui collocazione nelle rispettive postazioni operative abbiano comportato un contatto ravvicinato con una molteplicità di altre persone in assenza di misure di prevenzione e protezione adeguate, che ugualmente abbiano sviluppato sintomi evocativi entro i quattordici giorni successivi all’ultimo giorno di lavoro (vedi sopra) e per i quali sia stata poi posta una diagnosi positiva di COVID-19. Per essi andrà di volta in volta dimostrato il nesso tra esposizione e malattia, ma emerge come doveroso che anche ad essi sia garantita la tutela INAIL.       

  • 4. Prima o poi arriverà la post-emergenza …

Quando, prima poi, l’emergenza da SARS-CoV-2 sarà terminata (o quanto meno sarà terminata questa emergenza da SARS-CoV-2: perché la malattia potrebbe epidemiologicamente assopirsi per qualche tempo per poi riaffiorare come un fiume carsico, anche solo in forma sporadica e/o per piccoli cluster), bisognerà affrontare una fase tutt’altro che facile di post-emergenza. Sarà necessaria una forma di “ricostruzione”, come si dice consuetudinariamente dopo le guerre.

Perché tale ricostruzione abbia un senso andranno ripensati molti schemi culturali e andranno aggiustate, probabilmente in modo tutt’altro che marginale, molte scelte strategiche che hanno orientato la società civile, il mondo della produzione di beni e servizi, la sanità della diagnosi e delle cure, la prevenzione di popolazione e quella occupazionale.

E’ possibile che la tendenza sarà a dimenticare quanto prima possibile un’esperienza tanto dolorosa e a limitarsi a correggere le sole storture di maggior evidenza (ad esempio, rafforzare la produzione e le scorte di protezioni respiratorie individuali e irrobustire / razionalizzare i piani di emergenza delle aziende – sanitarie e non – nei confronti dei rischi biologici anche a carattere epidemico). Il mio invito è a non limitarsi a questo ma a raccogliere, registrare e sistematizzare i dati dell’esperienza che si sta vivendo (anche quella apparentemente più “basica” che potrebbe rientrare nell’alveo della medicina narrativa), a condurre “inchieste infortunio” sistematiche e approfondite su eventi lesivi singoli e raggruppamenti di eventi lesivi per comprendere come essi siano potuti accadere e in quali modi si sarebbero potuti evitare anche con azioni sugli scenari di lavoro, ad analizzare quanto è accaduto e sta accadendo con studi formali di epidemiologia sia di popolazione sia occupazionale, a introiettare nelle nostre coscienze che l’approssimazione e l’improvvisazione sono ben misera cosa per pensare di poter fronteggiare onde di marea che, come in questo caso, possono investire violentemente intere grandi aree geografiche, interi sistemi produttivi, interi sistema sanitari.

Molti studi di virologia ed ecologia indicano come probabile il ripetersi, nel corso degli anni, di eventi epidemici di origine virale o comunque biologica che necessariamente non potranno essere identici a quello in corso, ma che con esso condivideranno almeno alcuni aspetti. Nell’età contemporanea siamo più abituati a confrontarci con “epidemie lente” come quella causata dall’amianto, molto meno con fatti a evolutività tumultuosa come quello che si sta ora svolgendo.  

L’etica o anche il mero spirito di auto-protezione devono portarci a fare tesoro di quel che ci può essere insegnato dalla tragedia in corso: quanto meno a investire sulla ricerca epidemiologica e clinica, a sperimentare forme di comunicazione del rischio governata ma trasparente, esaustiva e fruibile per tutti, a costruire e mantenere costantemente in efficacia dei servizi sanitari, di prevenzione come di diagnosi e cura, che siano in grado di reggere imprevisti importanti (quindi ammettendo la necessità della ridondanza a fini di tutela della salute e della vita, cosa che oggi pacificamente ed espressamente si ammette per la tutela dei dati – si veda il GDPR dell’Unione Europea), a prevedere scorte adeguate di risorse tanto materiali quanto immateriali che vanno dall’organizzazione alle attrezzature alle persone alla cultura e all’esperienza nonché, di nuovo, all’etica.