Tra etica e norma penale: il fine vita e le nuove frontiere del diritto.

di Vincenzo Savoia

Il presente contributo afferisce alla questione del fine vita e ai trattamenti terapeutici e come tale involge più campi di rilevanza giuridica; tra questi vi è certamente il diritto penale, che  rappresenta lo strumento giuridico classico  di tutela del bene della vita umana e, cionondimeno, comporta la necessaria persecuzione di un equilibrio tra i diversi beni giuridici, tanto più complesso in relazione alla drammatica e lacerante delicatezza delle questioni legate al fine vita[1].

La tematica involge il binomio diritto-bioetica (oltre che, ma non è questa la sede per un approfondimento in tal senso, quello tra bio-etica laica e bio-etica cattolica[2]).

L’etica (e, dunque, anche la bio-etica) è per definizione un campo aperto alla riflessione e al confronto fra concezioni diverse, in costante evoluzione e, quindi, variabile nel tempo. Il diritto è invece un mondo di norme vincolanti e coercitive nel momento attuale che, però, attraverso l’interpretazione giurisprudenziale tende a risultati anche “eticamente” compatibili[3].

Il diritto vivente ha spesso anticipato interventi normativi riformatori o innovatori, soprattutto in campi come quelli che coinvolgono la bioetica, in un’ottica costituzionalmente orientata e, dunque, sempre nel senso dell’ampliamento dell’esercizio dei diritti costituzionali.

Andando alla sostanza dei problemi che stanno dietro le formule: questione di fondo, che attraversa il biodiritto in un orizzonte di laicità liberale, è l’esatta individuazione degli spazi aperti a valutazioni e scelte normative che possano essere supportate dalla coercizione giuridica (eventualmente penale).

Per analizzare –senza pretesa di completezza e nel semplice intento di fornire qualche spunto di riflessione-la complessa materia dei rapporti tra norme penali, trattamenti terapeutici e fine-vita, occorre senza dubbio partire dalle diposizioni normative che regolano questi eventi, punendo determinate condotte.

Le principali questioni di bioetica affrontate nel tempo hanno riguardato la “morte” e la “vita”: si pensi all’aborto procurato e alla selezione eugenetica, all’eutanasia, all’omicidio del consenziente, all’istigazione al suicidio.

Da un punto di vista storico-normativoè probabilmente con la legge 194 del 22 maggio 1978 che disciplina l’aborto, e dunque ne depenalizza la pratica (a determinate condizioni), che qualcosa inizia a cambiare.

In via generale, si può sostenere che per arrivare alla depenalizzazione di una condotta occorre un percorso che passi anche attraverso le trasformazioni sociali e culturali di un Paese, prima ancora che giuridiche; spesso la giurisprudenza, attraverso l’interpretazione delle fattispecie penali esistenti in modo tendenzialmente restrittivo, ha adeguato l’applicazione concreta di alcune norme penali alla “percezione morale” di esse, dunque introducendo nel percorso ermeneutico anche considerazioni di tipo etico oltre che strettamente giuridiche.

Nel nostro ordinamento il diritto penale è a presidio del bene considerato “indisponibile” per eccellenza: la vita umana. Ma la concezione stessa della vita umana nel tempo risulta essere cambiata, anche grazie al dibattito sorto in ordine alle questioni di bioetica; così al diritto alla vita si sono man mano affiancati alcuni diritti, definiti romanticamente “infelici”, che sono stati considerati di pari grado:se inizialmente il diritto alla vita e alla salute era declinato nel senso del diritto-dovere di curarsi e farsi curare, successivamente si è affiancato con pari forza il diritto all’autodeterminazione in ordine alle cure mediche e il diritto ad una vita dignitosa.

La sintesi degli interessi sottesi al diritto di autodeterminarsi e quello alla salute è l’istituto del consenso informato che trova la sua fonte proprio nella Costituzione che, con il combinato disposto degli articoli 2,13 e 32, sancisce contemporaneamente il diritto ad essere curati e il diritto a non essere curati, a rifiutare le cure anche qualora le stesse siano salvifiche.

Al centro del sistema di riconoscimento del diritto alla salute (così come costituzionalmente inteso nel suo significato positivo e negativo) e come limite alla compressione legittima dello stesso, vi è, dunque, il consenso del paziente che riceve i trattamenti sanitari.

In quest’ottica, il diritto alla salute non è stato più concepito in contrapposizione col diritto alla autodeterminazione ma, attraverso un interpretazione giurisprudenziale che ha teso alla valorizzazione della componente soggettiva del diritto a sfavore di quella oggettiva (tesa anche e soprattutto alla tutela della salute collettiva), è stato interpretato come diritto al benessere fisico ma anche psichico.

Questa evoluzione ha avuto inizio grazie alla Giurisprudenza Civile e poi a quella Costituzionale, influenzate a loro volta dalle indicazioni derivanti dalla Convenzione di Oviedo  sui diritti dell’uomo e la biomedicina[4]e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.[5]

La Corte di Cassazione, con la fondamentale sentenza  del 16.10.2007 n. 21748  ha statuito  che «la soluzione, tratta dai principi costituzionali, relativa al rifiuto di cure ed al dovere del medico di astenersi da ogni attività diagnostica o terapeutica se manchi il consenso del paziente, anche se tale astensione possa provocare la morte, trova conferma nelle prescrizioni del codice di deontologia medica: ai sensi del citato art. 35, “in presenza di documentato rifiuto di persona capace”, il medico deve “in ogni caso” “desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”». Ed ancora: «deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita» perché «il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia». Nella prospettiva indicata dalla Corte «il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale».La Corte di Cassazione ritiene che la stessa previsione del limite del “rispetto della persona umana” di cui all’art. 32 co. 2 Cost. si riferisca “al singolo individuo…nei diversi momenti della sua vita e in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive”: frase emblematica di quanto il principio dell’autodeterminazione sia permeato dell’etica appartenente a ciascun individuo (sfera morale che entra, quale componente della personalità di ciascuno, in scelte di rilevanza giuridica).

Sulla stessa linea d’onda, la Corte Costituzionale nella sentenza num438 del 23 dicembre  2008[6], ha configurato il “consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico” e“vero e proprio diritto della persona”, che “trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che la libertà personale è inviolabile, e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, e ha chiarito  che “la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento nei tre richiamati articoli della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art 32, co. 2 Cost.”.

Il consenso informato, allora, è idoneo a fare da presupposto legittimo per l’intervento medico ma, allo stesso tempo, anche per l’astensione del sanitario, al quale non sarà imputabile la mancata erogazione del trattamento sanitario al paziente che abbia legittimamente rifiutato le cure né l’interruzione delle stesse, anche nell’ottica di evitare ogni forma di accanimento terapeutico e  in linea con il codice di deontologia medica vigente[7].

Il rapporto medico-paziente non si inquadra più, allora, in uno schema di subordinazione, ma nel paritario schema dell’ “alleanza terapeutica”[8].

Questa impostazione, però,  non risolveva pienamente i dubbi sulla rilevanza penale del comportamento del sanitario nei casi di eutanasia cd. attiva o passiva[9], ne’ risolveva i problemi giuridici legati alla mancata espressione di un consenso informato da parte del paziente incapace di intendere e di volere.

L’ordinamento italiano, infatti, punisce sia l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) che l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.)[10][11], norme che, applicate in concreto, spesso stridono con il quadro di diritti costituzionali, ma che sono state coerentemente concepite all’interno di un codice che dava prevalenza ai beni collettivi rispetto a quelli individuali.

L’art. 579 c.p. esclude l’operatività della scriminante del consenso della vittima prevista in via generale dall’art 50 c.p, e l’art. 580 c.p. esclude che il suicidio possa rappresentare l’esercizio di un diritto, nella comune ottica dell’indisponibilità del bene vita in capo al soggetto privato[12].

Alcune vicende, molto note, diventate –anche- casi giudiziari hanno messo in campo i dubbi e le soluzioni giuridiche in relazione proprio allo scontro tra diritto e etica nell’ambito del “fine vita”.

In questi “casi” sono emerse difficoltà applicative proprio in relazione agli articoli 579 e 580 c.p.: nella condotta prevista dalla fattispecie che punisce l’omicidio del consenziente, infatti, rientrano astrattamente le ipotesi dell’omicidio pietatis causa,o comunque dell’eutanasia, con le diverse implicazioni derivanti dai casi in cui le pratiche eutanasiche siano poste in essere nei confronti di malati terminali o di soggetti incapaci di intendere e di volere; l’istigazione o aiuto al suicidio, invece, delinea una fattispecie dai contorni molto angusti, e anomala rispetto alla configurabilità in termini di tipicità di un comportamento partecipativo psichico o fisico ad un’azione non tipica (il suicidio) perché giuridicamente tollerata[13] e comunque non incriminata.

Si procederà per brevi cenni su vicende di particolare risalto mediatico e di indubbio interesse giuridico.

IL CASO WELBY[14]:

Piergiorgio Welby era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale “distrofia fascioscapolomerale”; la sua sopravvivenza era assicurata esclusivamente dall’attivazione di un respiratore artificiale, non avendo avuto alcuna effetto migliorativo della patologia i trattamenti sanitari praticatigli. L’unico risultato dell’utilizzo del ventilatore artificiale, dunque, era quello di differire nel tempo l’esito infausto, prolungando le funzioni vitali, essendo ormai irreversibile lo stato di malato terminale.

Welby, debitamente informato dai propri medici in ordine ai vari stadi di evoluzione della sua patologiae in merito ai trattamenti sanitari che gli venivano somministrati, chiedeva al medico dal quale era assistitoche si procedesse al distacco dell’apparecchio di ventilazione, sotto sedazione.Tuttavia, il medico opponeva rifiuto alla richiesta di Welby, e questi, dopo aver scritto una lettera al Presidente della Repubblica, si rivolse alla magistratura, con un ricorso d’urgenza ex artt. 669 ter e 700 c.p.c., volto ad ottenere il distacco del respiratore artificiale. Il giudice adito dichiarava il ricorso di Welby inammissibile, con una motivazione che, nel riconoscere l’esistenza di un diritto soggettivo, tutelato dall’articolo 32 della Costituzione, a richiedere l’interruzione della terapia medica, stigmatizzava la impossibilità di attuazione del diritto, mancandone una normativa specifica che ne operasse latutela giuridica. A tale decisione seguiva il reclamo della Procura della repubblica di Roma avverso la decisione del Tribunale civile di per contraddittorietà della decisione. Secondo la Procura “il vizio logico dell’ordinanza” consisteva nel fatto che il giudice “dalla premessa (corretta) secondo cui nel nostro ordinamento esiste un divieto di accanimento terapeutico ed un correlativo diritto di pretenderne la cessazione, perviene a una conclusione (del tutto erronea) per cui questo diritto non può essere tutelato a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative[15](…).

Nel frattempo Welby, decideva di proseguire la sua battaglia e con l’assistenza del dott. Mario Riccio che procedeva prima alla sedazione del paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico, moriva per arresto cardiocircolatorio il giorno 20 dicembre 2006.L’Ordine dei Medici di Cremona, cui apparteneva il medico, aprì un procedimento disciplinare a suo carico, archiviato dalla commissione disciplinare nel febbraio 2007: gli elementi presi in considerazione dall’organo di disciplina furono due: da un lato la volontà “chiara, decisa e non equivocabile” del paziente “perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi” e “pienamente consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte”; dall’altro il fatto che l’anestesista “non ha somministrato farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte” e che la sedazione terminale è risultata “per posologia di farmaci, modalità e tempi di somministrazione, in linea con i normali protocolli”.

La Procura di Roma iscrisse il medico nel registro degli indagati per l’ipotesi di omicidio del consenziente ex art 579 c.p.; anche tale procedimento si chiuse con un’iniziale richiesta di archiviazione basata sull’esito della consulenza medicolegale disposta dal p.m., che escludeva qualsiasi nesso tra la sedazione – condotta attiva posta in essere dal dottore Riccio-  ed il decesso del paziente, indicando quale unica causa di morte l’insufficienza respiratoria conseguenza della malattia. A tale richiesta seguì un’ordinanza del GIP d’imputazione coatta per il reato di cui all’art. 579 c.p., che portò comunque all’emissione della sentenza di non luogo a procedere del GUP di Roma[16]: il giudice dell’udienza preliminare, partendo dal diritto costituzionalmente tutelato secondo il quale “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, e richiamato, l’art. 13 Cost., secondo il quale “la libertà personale è inviolabile”, desumeva  il diritto all’autodeterminazione del paziente quale diritto con pari tutela costituzionale, improntato al rispetto della volontà del paziente e al diritto a disporre del proprio corpo, anche attraverso il rifiuto delle cure mediche salvavita[17].

Il giudice riconosce che il comportamento del medico rientra oggettivamente nella norma che punisce l’omicidio del consenziente ma osserva, altresì, che la condotta del medico si è realizzata nel contesto di una relazione terapeutica e, quindi, sotto la copertura costituzionale del diritto del paziente di rifiutare trattamenti sanitari non voluti.Per tali motivazioni, il medico risultava non perseguibile, secondo la sentenza, per aver adempiuto ad un dovere (quello di rispettare la volontà del paziente),e  in quanto tale, la sua condotta risultava scriminata dalla causa di giustificazione prevista dall’ art 51 c.p..

IL CASO ENGLARO[18]

EluanaEnglaro si trovava – dal novembre del 1992, a seguito di un grave incidente- in “stato vegetativo permanente” ed era mantenuta in vita grazie alla nutrizione e idratazione artificiali somministrate attraverso un sondino nasogastrico; la respirazione, invece,era autonoma.

Dopo circa quattro anni dall’incidente, EluanaEnglaro venne dichiarata interdetta per assoluta incapacità e venne nominato suo tutore il padre, Beppino Englaro. Costui, a partire dal 1999 avviò una lunga battaglia legale dai risvolti mediatici e giuridici importantissimi, al fine di ottenere la sospensione dell’alimentazione artificiale che teneva in vita la figlia. A differenza che nel caso di Piergiorgio Welby, alcun consenso attuale poteva essere prestato dalla paziente al fine di interrompere l’alimentazione artificiale che, peraltro, non era considerata vero e proprio “trattamento sanitario” ricadente nell’art. 32 Cost..

Il Tribunale di Lecco respinse per due voltela richiesta di Beppino Englaroproprio perché l’alimentazione e l’idratazione artificiali, non comportando la   necessità di utilizzare dispositivi medici, non erano considerati come “cure mediche” in senso proprio.

La vicenda giudiziaria che sorse intorno a Eluana e i quesiti di natura giuridica si sovrapposero al quesito di tipo etico avanzato da Beppino Englaro, che  chiedeva ai giudici di determinare se il “valore” presidiato dalla Carta costituzionale fosse la vita in sé o, piuttosto, la “dignità” dell’esistenza, intesa come condizione umana non degradante ma capace di consentire alla persona di vivere senza una sofferenza insopportabile, idonea a tradursi in vera e propria tortura.

Nel 2007 si pronunciò sul caso la Corte di Cassazione, con la sentenza num.21748/2007, con cui annullò il provvedimento della Corte d’Appello e si rinviò ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano: nella sentenza, si sosteneva che il giudice poteva autorizzare l’interruzione delle cure o dell’alimentazione artificiale in presenza di due circostanze concorrenti: che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno” e “che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della volontà del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

Anche in questo caso, allora, la soluzione ruota intorno all’istituto del consenso del paziente, unico elemento idoneo a scriminare la condotta del medico, ma il passo in avanti è notevole laddove si pensi che tale consenso è riferito ad una persona incapace di esprimerlo nell’attualità perché non più capace di intendere e di volere.

Il 9 luglio 2008 la Corte d’Appellodi Milano autorizzò  il padre di Eluana, in qualità di tutore, a interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzata[19].

Parte dei problemi posti dal caso “Englaro” sono stati risolti dalla legge num. 219/2017 sulle cd. “DAT”[20].

LE DISPOSIZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO: LA LEGGE 219/2017

Il 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la legge 219 del 2017, contenente le norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, anche detta legge sul “testamento biologico” (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 16 gennaio 2018) .

Con tale intervento normativo, sono stati recepiti i principi ormai consolidati nell’elaborazione giurisprudenziale (a partire dal riconoscimento del ruolo rivestito dal consenso del paziente al trattamento medico), e le istanze derivanti dal dibattito che ha accompagnato i recenti casi sopra esposti.

Il testo della legge è composto da otto articoli molto lineari e mira a disciplinare le modalità di espressione e di revoca, la legittimazione, le condizioni del consenso informato in ordine ai trattamenti sanitarie delle disposizioni anticipate di trattamento ( D.A.T.) cioè a dire delle disposizioni con le quali un soggetto determina il suo orientamento sulla propria “fine vita” nell’ipotesi in cui sopravvenga una perdita irreversibile della capacità di intendere e di volere al momento decisionale.

Si rinvia al testo integrale della legge[21], di cui in questa sede si riportano solo alcuni fondamentali stralci.

La legge sul biotestamento richiama proprio gli artt. 2, 13 , 32 della Costituzione e gli artt. 1,2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rendendo codificata la parificazione tra i diritti alla vita e alla salute e i diritti alla dignità e all’autodeterminazione della persona(art. 1 co. 1). Fa leva sulla centralità del consenso libero e informato quale legittimazione ad ogni trattamento terapeutico(art.1 co. 2)  e sulla relazione  fiduciaria tra medico e paziente -in linea con l’idea dell’alleanza terapeutica già menzionata- (art. 1 co.3)

Al comma 5 dell’art. 1 si ribadisce il diritto, per ogni persona capace di agire, di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o anche singoli atti del trattamento stesso, nonché il diritto di revocare, in qualsiasi istante, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento.

La legge chiarisce che “sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”, e, dunque, come, tali, sono rifiutabili (si supera, così, definitivamente l’empasse del caso Englaro).

In questi casi e, cioè, “qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”.

In capo al medico sorge l’obbligo di rispettare le volontà del paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciarvi e, dunque, “andrà esente da ogni responsabilità civile o penale”, sempre che, naturalmente, il trattamento sanitario sia esigibile e quindi non contrario a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali.

La specificazione dell’esenzione della responsabilità penale del medico che si comporti in modo conforme alla volontà del paziente, lungi dall’essere una novità, è ricognitiva dei principi già applicati in tema di responsabilità sanitaria, con la novità, però, di riconoscere l’equivalenza tra condotte di tipo meramente omissivo (riferibili ad esempio al sanitario che, rispettando la volontà del paziente, non dia avvio alle cure rifiutate da questi)  e condotte di tipo attivo (riferibili al sanitario che interrompa le cure a seguito di ripensamento del paziente, o che ad esempio, spenga un respiratore, disattivi un sostegno artificiale), sulla base comune del presupposto che il rifiuto delle terapie scrimini entrambe ex art. 32 Cost.; a queste conclusioni era già approdata la giurisprudenza, anche di merito, nei casi Welby e Englaro sopra citati. [22]

La legge, al comma 7, risolve anche il frequente problema del trattamento arbitrario nei casi d’urgenza,  scriminando il medico o l’equipe medica che assicurino le cure necessarie nei casi di emergenza o di urgenza (con clausola, dunque, molto ampia) se effettuati nel rispetto della volontà del paziente ove le condizioni cliniche o le circostanze consentano di recepirla; ne deriva, al contrario, che alcuna responsabilitàpenale possa essere ascritta-ad esempio-  al medico che operi d’urgenza un paziente in stato comatoso e in pericolo di vita anche a prescindere dall’espressione del suo consenso al trattamento[23].

L’articolo 2, significativamente intitolato – anche– “dignità nella fase finale della vita”- impone  al medico il dovere – anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario–di somministrare un’appropriata terapia del dolore, e in generale l’adoperarsi per alleviare le sofferenze (anche con l’eventuale coinvolgimento del medico di medicina generale, in conformità alla disciplina in materia, di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38).Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, dunque di malati terminali,  il medico dovrà “astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati; in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, potrà ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua, in associazione con la terapia del dolore”, sempre con il consenso del paziente dandone conto nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

L’articolo 3 è dedicato alle modalità di espressione o rifiuto del consenso per i soggetti minori e incapaci che hanno diritto, secondo la legge, alla“valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione”, nel rispetto dei diritti alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione; anche i minori e gli incapaci, allora, hanno diritto a essere informati, in modo consono alle loro capacità, sulle scelte relative alla salute, così da essere messi nelle condizioni di esprimere le loro volontà.

Ma il riferimento alla volontà dell’incapace si ritrova esplicitamente solo nel comma 2 dell’art. 3, dedicato ai minori, per i quali  il consenso viene prestato o rifiutato dagli esercenti la potestà genitoriale o dal tutore “tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e  al suo grado di maturità e a vendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel rispetto della dignità”. La volontà rilevante, invece, sarà quella del tutore, nel caso di soggetto interdetto (che viene tuttavia consultato, ove possibile).

Nelle ipotesi di inabilitazione, la volontà sarà espresso dallo stesso inabilitato mentre, qualora sia stato nominato un amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria ovvero la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso sarà espresso o rifiutato anche dall’amministratore o solo da questi, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere[24].

L’art. 4 disciplina il vero “testamento biologico”, prevedendo che“ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte” possa, attraverso le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o a scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari.[25]

La legge disciplina naturalmente anche la forma delle DAT, prevedendone la redazione per atto pubblico, per scrittura privata autenticata o consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del proprio comune di residenza o presso le strutture sanitarie; qualora le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi elettronici. Esse sono “rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento”, con le stesse forme previste per la loro disposizione, fatte salve le ragioni di “emergenza e urgenza”, nelle quali la revoca potrà esser espressa anche con semplice dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni

Al fine di evitare che le DAT siano anacronistiche perché disposte in un’epoca molto antecedente il momento in cui le stesse devono essere attuate, il comma 5 dell’art. 3, che impone al medico di rispettare le volontà espresse nelle DAT, contemporaneamente consente al sanitario di disattenderle in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, solo quando esse “appaiano palesemente incongrue, non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”; in caso di conflitto tra fiduciario e medico, si farà ricorso al giudice tutelare.

L’articolo 5, infine, disciplina la possibilità, nell’ambito del rapporto medico-paziente (e nell’ottica della cd. alleanza terapeutica) , rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, di fissare in un atto una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il primo (eventualmente anche in équipe) è tenuto ad attenersi qualora il secondo venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.

Questo istituto può essere considerato un tertiumgenus tra il consenso attuale e le DAT, dal momento che l’espressione della volontà si riferisce ad una situazione non attuale ma la cui evoluzione è prevedibile, sulla base delle conoscenze attuali.La legge[26] disciplina anche le modalità di espressione di questa particolare forma di consenso.

IL CASO “CAPPATO” E LA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELL’AIUTO AL SUICIDIO[27]:

Vale la pena, in ultimo, di richiamare la vicenda del dj Fabo che è avvenuta in contemporanea con l’elaborazione dell’intervento normativo relativo alla DAT e ha sollevato ulteriori questioni con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 580 c.p.

In seguito ad un grave incidente stradale nel 2014, Fabiano Antoniani diventa tetraplegico e non vedente, con prognosi che, anche dopo numerosi trattamenti medici non andati a buon fine, diventa irreversibile. Decide, allora, di porre fine alla sua vita, che reputa divenuta intollerabilmente indignitosa. Entra, quindi, in contatto con Marco Cappato che nel febbraio del 2017 lo accompagna in Svizzera, ove Fabiano Antoniani si sottopone alla procedura di accompagnamento alla morte volontaria (il cosìdetto suicidio assistito) presso la sede dell’associazione Dignitas. Al suo ritorno in Italia Marco Cappato si autodenuncia eviene iscritto nel registro degli indagati per il reato di aiuto al suicidio ex art. 580 c.p..

Le questioni giuridiche che vengono affrontate da questo momento in poi sono parzialmente coincidenti con quelle relative al “caso Welby” o, meglio, relative alla vicenda del sanitario (il dott. Mario Riccio) che distaccò il respiratore a Welby: in entrambi i casi la malattia, che cagionava atroci sofferenze, lasciava intatte le facoltà intellettive e i processi volitivi del malato, dando la possibilità, dunque, di esprimere un consenso del tutto valido e attuale (a differenza che nel “caso Englaro”). A differenza che per Riccio, nei cui confronti si procedeva per il delitto di omicidio del consenziente, ilproblema del caso Cappato è stato quello di capire se la condotta di accompagnare il malato in altro Paese perché lo stesso si sottoponesse ad  una pratica eutanasica fosse o meno sussumibile nell’alveo della fattispecie punita ex art. 580 c.p. (dal momento che Fabiano Antoniani si era dato la morte mordendo un pulsante per l’immissione del farmaco letale, dunque autonomamente).

La Procura della Repubblica di Milano considera che la condotta di Marco Cappato non comporti la partecipazione morale o psichica al suicidio in quanto l’indagato non risulta aver influito sul processo di formazione della volontà suicida dell’Antoniani, che risulta essersi determinato autonomamente. Inoltre, dal momento che l’indagato non ha avuto alcun ruolo materiale nella fase esecutiva vera e propria della morte, la sua condotta in sé considerata si configura come atto preparatorio penalmente irrilevante, senza integrare il reato di cui all’art. 580 c.p.: per questi motivi, la Procura richiede l’archiviazione del procedimento a carico di Marco Cappato.

Nel luglio del 2017 il Gip rigetta la richiesta di archiviazione e ordina al PM di formulare l’imputazione per il reato di assistenza al suicidio nei confronti di Marco Cappato: secondo il Gip la condotta del Cappato è sussumibile nell’alveo della fattispecie di cui all’art. 580 c.p. sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, per aver agevolato l’esecuzione materiale del suicidio e per aver rafforzato il proposito suicidiario di Fabiano Antoniani.

Nel corso del dibattimento, la Procura della Repubblica propone di sollevare questione di legittimità costituzionaledell’art. 580 c.p. e la Corte d’Assise di Milano, con ordinanza del 14 febbraio 2018, sul presupposto dell’esclusione della sussistenza dell’aiuto morale al suicidio[28], manda gli atti alla Consulta perché si stabilisca se la fattispecie che incrimina l’aiuto o l’istigazione al suicidio sia comunquein contrasto con i principi costituzionali.

Si affrontano, così, due “approcci contrapposti”[29] all’argomento, orientati da valori forti e spesso in contrasto tra loro: il valore della vita, inteso dal Gip che ha ordinato l’imputazione come bene indisponibile sulla scorta dell’impostazione statalista del codice, e il valore all’autodeterminazione personale, promanante dall’impostazione personalistica che permea la Costituzione, che nella visione dei Pubblici Ministeri supera il dettato codicistico col quale entra in contrapposizione.

La questione di legittimità costituzionale[30] sollevata dalla Corte D’Assise di Milano ha ad oggetto l’incriminazione dell’art 580 c.p. , soprattutto nella forma dell’aiuto meramente materiale al suicidio nella sua nozione ampia (quale quello in cui si è estrinsecata la condotta di Cappato), e “nella parte in cui”:

– incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo;

– prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 della Costituzione.

Tale rimessione conferma l’assenza, nel nostro ordinamento, di un vero e proprio “diritto di morire”, e paradossalmente questa assenza è discriminante nei confronti dei soggetti più deboli della società: i malati che non sono autonomi fisicamente (tanto da potersi “suicidare”, atto sicuramente tollerato dall’ordinamento) o quelli che non possono esprimere un consenso valido e attuale; tutto questo, sebbene la Costituzione non preveda un obbligo di curarsi e la centralità del consenso ai trattamenti sanitari sia divenuta assolutamente indiscussa, anche grazie alla giurisprudenza di matrice europea e, adesso, anche alla legge  num. 219 del 2017 (che, evidentemente, non ha superato il problema a trecentossesanta gradi).

Volendo tirare le fila del discorso, in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale (l’udienza è fissata per il prossimo 23 Ottobre), quello che appare indiscutibile, allo stato, è il ridimensionamento del concetto di indisponibilità del bene della vita, con le conseguenti ricadute sul piano dell’interpretazione restrittiva delle fattispecie previste dagli articoli 579 e 580 c.p. in un’ottica orientata dal principio personalistico di matrice costituzionale, pur risultando tuttavia dimostrato che,mancando nelle predette norme riferimenti esplicitiagli scopi delle condotte che descrivono e incriminano, vi saranno  sempre degli spazi per punire condotte quali quella posta in essere da Cappato, a prescindere dalle considerazioni in ordine alla valenza morale delle stesse e al fine eticamente compatibile cui sono orientate.


[1] Sui limiti del diritto si v. tra gli altri Rodotà La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano 2006

[2]Si cfr. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, 2009.

[3]Si cfr. S. Canestrari, Principi di biodiritto penale, Bologna, 2016.

[4] Convenzione adottata dal Consiglio d’Europa nel 1997, la cui autorizzazione alla ratifica è avvenuta con legge n. 145/2001 ma che non è mai stata attuata, pur costituendo un punto di riferimento nell’interpretazione delle norme interne.

[5]Cfr. Corte EDU, 29.4.2002, Pretty c. Regno Unito, ric. n. 2346/02; Corte EDU, 2.6.2009, Codarcea c. Romania, ric. n. 31675/04.

[6]In Giur. Cost.,  2008 e in www.giurcost.org

[7] Il codice di deontologia medica del 2014, all’art. 20, accoglie il concetto dell’alleanza terapeutica medico-paziente, e all’art. 20 prevede: “la relazione tra medico e paziente è costituita sulla libertà di scelta e sull’individuazione e condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità”.

[8] Restano naturalmente salvi i casi in cui i trattamenti sanitari siano obbligatori per legge, quando esigenza di tutela sia individuale che collettiva lo impongano come valore superiore a quello dell’autodeterminazione (si pensi ai t.s.o. o ai vaccini).

[9] Per una distinzione tra i vari tipi di eutanasia, si cfr. Cristiano Cupelli,“Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: dai principi alla legge” pubblicata anche sulla rivista on line Diritto penale Contemporaneo (17 marzo 2017): “La distinzione – enucleata su un piano naturalistico, morale e giuridico – tra “mercy killing” e “letting die” si traduce notoriamente nella contrapposizione tra eutanasia attiva e passiva. Un semplice cenno, in questa sede, può essere dedicato al problema definitorio dell’eutanasia, tanto più rilevante quanto foriero di possibili fraintendimenti. Così, per eutanasia attiva si intende la soppressione, per pietà, della vita di una persona attraverso un comportamento fattivo, posto in essere da taluno nei confronti di un soggetto gravemente infermo (generalmente in stato di sofferenza insostenibile e nella fase terminale di una malattia). Di contro, l’eutanasiapassiva è invece generalmente ricondotta ai casi di omissione di terapie o alla cessazione di quelle che mantengono in vita il paziente nei confronti di malati giunti alla fase terminale. Tratto peculiare rispetto alla prima è la natura sostanzialmente omissiva del comportamento, sulla base della quale è possibile qualificare come causa della morte direttamente la malattia, anziché la condotta umana. Il crinale distintivo, pertanto, sembra ruotare attorno al profilo causale, nel senso che mentre nella forma attiva la causa (o la concausa) della morte è rappresentata proprio dall’azione del medico, in quella passiva essa va ricondotta direttamente all’evoluzione della malattia, limitandosi il medico a non fare nulla per impedirne il decorso. Tanto che, qualora l’omissione del sanitario concretizzi una espressa richiesta del paziente, può fondatamente dubitarsi della correttezza (già a livello semantico) del riferimento al termine eutanasia passiva, soprattutto con riguardo alle ipotesi di rifiuto, sospensione ed interruzione di cure pienamente consenzienti”; si cfr, altresì S. Canestrari, Principi di biodiritto penale, Bologna, 2016.

[10] Si veda F. Mantovani, I delitti contro l’essere umano in generale, in Diritto penale, parte speciale. I diritti contro la persona, CEDAM, 2013

[11]Per la determinazione della differenza tra le due fattispecie, si veda Cass. , Sez. I pen. 6 febbraio 1998, n. 3147

[12] In questa sede non è possibile affrontare le numerose questioni giuridiche che pongono le norme citate; basti pensare alla configurabilità dei reati a “concorso necessario improprio”, quale quello previsto dall’art. 580 c.p.. Per una disamina generale, si cfr. MANTOVANI, Diritto Penale. Parte Generale, X Assago, 2017, pagg. 542 e ss.

[13]Sebbene vi siano tesi contrapposte sulla configurabilità del suicidio quale diritto, o quale condotta semplicemente tollerata dall’ordinamento, o addirittura antigiuridica, la giurisprudenza maggioritaria tende ad attestarsi sulla posizione intermedia della considerazione della condotta del suicida quale condotta giuridicamente tollerata, in linea con quanto statuito dalla CEDU nel caso Pretty contro Regno Unito, nel quale la Corte respinge la tesi secondo al quale l’art. 2 della CEDU garantirebbe, oltre che il diritto alla vita, anche il diritto a morire (si cfr. Corte EDU , 29 aprile 2002, Petty c. regno Unito, ric. N. 2346/02.

[14] Per la ricostruzione del caso Welby, si è fatto riferimento anche  ai materiali contenuti e pubblicati sul sito www.associazionelucacoscioni.it

[15]il diritto soggettivo o esiste o non esiste: se esiste, non potrà non essere tutelato, incorrendo altrimenti l’organo di giustizia in un inammissibile non liquet, con effetto di lasciar senza risposta una pretesa, giuridicamente riconosciuta alla stregua di fondamentali principi indicati dallo stesso Giudice nel provvedimento impugnato”.

[16]Si cfr. Tribunale di Roma, sent. n. 2049/2007, pubblicata sul sito www.biodiritto.it

[17]La sentenza di assoluzione afferma, inoltre, che il diritto al rifiuto delle cure è confermato anche dall’articolo 5 della Convenzione di Oviedo che, “sebbene non ancora in vigore nel nostro ordinamento, vale comunque quale criterio interpretativo per il giudice, in quanto enuncia principi conformi alla nostra Costituzione“.

[18] Per la ricostruzione del caso Englaro, si è fatto riferimento anche  ai materiali contenuti e pubblicati sul sito www.associazionelucacoscioni.it

[19] Rilevanti sono state le vicende successive a questa sentenza, che ha determinato un’empasse politica: dapprima, infatti,Camera e Senato sollevarono conflitto di attribuzione con la Cassazione, ritenendo che la sentenza dell’ottobre 2007 integrasse “un atto sostanzialmente legislativo, innovativo dell’ordinamento italiano vigente“, invasivo delle competenze del legislatore. La Corte Costituzionale, invece, ritenne che la sentenza in questione non fosse innovativa ma in linea con un l’ordinamento basato su una Costituzione che garantisce il diritto di rifiutare le cure mediche e il rispetto delle volontà del singolo. Il Governo allora, nel febbraio 2009 approvò con urgenza un decreto legge che vietava  la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione in pazienti in stato vegetativo, ma il Presidente della Repubblica rifiutò di firmare il decreto definendolo palesemente incostituzionale. Alle ore 20 dello stesso giorno e malgrado il monito del Presidente della Repubblica, il Consiglio dei Ministri si riunì  in una sessione straordinaria per dar vita ad un disegno di legge con gli stessi contenuti del decreto precedente e  il 9 febbraio 2009, nonostante il Senato fosse chiuso in quel giorno, si riunì ugualmente per discutere del disegno di legge n. 1369.

Ma nella stessa serata del 9 febbraio 2009, giunse  la notizia della morte di Eluana, alla quale erano state progressivamente sospese alimentazione e idratazione a partire dal 6 febbraio.

Il Governo ritirò il disegno di legge.

[20] Nel percorso di cambiamento culturale, relativo alle scelte sul fine vita, che fa da sfondo anche all’introduzione delle DAT, va pure evidenziata la mutata sensibilità di gran parte del mondo cattolico, testimoniata da ultimo dalle parole pronunciate da Papa Francesco nel messaggio ai partecipanti al meeting regionale europeo della World medicalassociation sulle questioni del fine-vita del 16 novembre 2017

[21]In www.gazzettaufficiale.it

[22]Vi è , peraltro, da osservare l’irragionevolezza di una scelta diversa, laddove si pensi che non tutti i pazienti versano nelle condizioni di poter decidere autonomamente di interrompere le terapie: si pensi ad un malato terminale che decida di non sottoporsi più alle chemioterapie, non recandosi in ospedale; le stesse possibilità di agire autonomamente non possono attribuirsi al malato che sia impedito nei movimenti fisici: con inevitabile disparità di trattamento in contrasto col principio di eguaglianza. Si pensi, ancora, all’ipotesi in cui non si potesse revocare il consenso già prestato: si rischierebbe, in una paradossale eterogenesi dei fini, di indurre i pazienti   alla conseguenza di evitare di iniziare le cure per il timore di non poterle interrompere.

[23]Si pensi alla ormai scolastica ipotesi delle trasfusioni di sangue per i testimoni di Geova

[24]In tutti i casi di contrasto tra rappresentante che, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, rifiuti le cure proposte e medico, il quale invece ritenga queste appropriate e necessarie, la decisione ultima è rimessa al giudice tutelare (comma 5).

[25] Può altresì indicare un fiduciario, a sua volta maggiorenne e capace di intendere e di volere (comma 2), che ne faccia le veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie, il cui incarico, una volta accettato, è revocabile in qualsiasi momento (comma 3)..Nel caso in cui le DAT non contengano l’indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, esse mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente (comma 4).

[26]Art. 5(Pianificazione condivisa delle cure):“1. Nella relazione tra paziente e medico di cui all’articolo 1, comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’équipesanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.

2. Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia sono adeguatamente informati, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative.

3. Il paziente esprime il proprio consenso rispetto a quanto proposto dal medico ai sensi del comma 2 e i propri intendimenti per il futuro, compresa l’eventuale indicazione di un fiduciario.

4. Il consenso del paziente e l’eventuale indicazione di un fiduciario, di cui al comma 3, sono espressi in forma scritta ovvero, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare, e sono inseriti nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. La pianificazione delle cure può essere aggiornata al progressivo evolversi della malattia, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico.

5. Per quanto riguarda gli aspetti non espressamente disciplinati dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’articolo 4”.

[27]La cronologia del “caso Cappato” e i relativi atti processuali sono stati pubblicati, tra gli altri, in www.giurisprudenzapenale.com

[28] Dalla ricostruzione dei fatti emersa in dibattimento, infatti, sarebbe stato accertato che Fabiano Antoniani aveva contattato da solo e precedentemente l’associazione Dignitas e che il suo proposito suicidiario era già stato maturato autonomamente.

[29] Si cfr. Domenico Pulitanò,  “IL DIRITTO PENALE DI FRONTE AL SUICIDIO”, pubblicato su Diritto Penale Contemporaneo, num. 7/2018 

[30]Per un commento: si cfr. Antonella Massaro, “IL CASO CAPPATO DI FRONTE AL GIUDICE DELLE LEGGI: ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELL’AIUTO AL SUICIDIO?”, pubblicato su Diritto Penale Contemporaneo il 14 giugno 2018.