Le riforme del processo civile e del processo penale: prime riflessioni per un progetto comune

Introduzione

A cura di Antonio Balsamo e Valentina Ricchezza

La riforma introdotta con il Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, porta a compimento uno dei cantieri più ambiziosi della giustizia penale degli ultimi decenni, che era stato aperto dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia nella primavera del 2021, con l’obiettivo di elaborare le innovazioni necessarie a conseguire i target fissati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tra gli obiettivi dichiarati del nuovo intervento normativo, vi sono quelli della modernizzazione del procedimento penale attraverso la valorizzazione delle tecnologie; della drastica riduzione della domanda di giustizia penale e del potenziamento delle forme di definizione alternative al dibattimento, attraverso il rafforzamento dei filtri, la nuova disciplina dell’assenza, l’estensione dei riti alternativi e l’introduzione di forme inedite di diversion; della garanzia della durata ragionevole del procedimento, a partire dalla fase delle indagini, sino ad arrivare alla riaffermazione del canone di concentrazione del dibattimento e alla riduzione dell’incidenza delle impugnazioni[1].

Si tratta di un disegno di ampia portata, che tende ad assicurare contemporaneamente il recupero dell’efficienza della giustizia, il rafforzamento dei diritti degli indagati e la tutela della dignità delle vittime.

Già a prima vista, emerge con chiarezza che un simile progetto, per realizzarsi compiutamente, presuppone un consistente adeguamento delle strutture della giustizia. La riforma, infatti, da un lato, richiede a tutta la magistratura di svolgere una serie di nuovi compiti estremamente impegnativi, come, ad esempio, quelli riguardanti il “filtro” dei procedimenti per cui deve celebrarsi il giudizio dibattimentale, il controllo sulla legittimità delle perquisizioni, la applicazione di sanzioni sostitutive e così via; ma, dall’altro, è stata adottata in un momento nel quale la magistratura soffre di una gravissima scopertura di organico: negli uffici giudiziari mancano 1412 magistrati su un totale di 10.853. Una carenza, questa, che suscita un forte allarme nelle istituzioni europee competenti.

Per far sì che la magistratura possa svolgere in modo efficace (e non meramente formale) questo complesso di nuovi compiti, è necessario assicurare una rapida e completa copertura degli organici, anche attraverso una seria riflessione sul sistema di reclutamento dei magistrati, che va ripensato partendo dal rapporto tra formazione universitaria, preparazione per i concorsi e ingresso nel mondo del lavoro. Si tratta di un tema che richiede una forte progettualità innovativa condotta congiuntamente dal mondo accademico e dal mondo giudiziario.

A questo adeguamento strutturale, deve accompagnarsi un significativo processo di elaborazione culturale, che porti ogni magistrato a valorizzare le potenzialità insite nelle nuove previsioni normative, per costruire un processo penale che possa rappresentare un autentico modello a livello europeo e internazionale, ricollegandosi alle linee di tendenza presenti in tutti gli altri ordinamenti.

Ad esempio, una innovazione importante può scaturire dal nuovo testo dell’art. 477 c.p.p., che per la prima volta parla di organizzazione del dibattimento” e richiede al giudice di stabilire un vero e proprio “calendario delle udienze, assicurando celerità e concentrazione e indicando per ciascuna udienza le specifiche attività da svolgere”. Si tratta di una norma che può essere letta in due modi del tutto differenti: o come un adempimento solo formale, destinato ad essere riempito di formule generiche con aria di sufficienza, oppure, al contrario, come un serio impegno di programmazione affidato al giudice e alle parti, in modo da ottenere un modello di processo penale ispirato a quel principio di concentrazione che, in un rapporto inscindibile con l’oralità e l’immediatezza, delinea il volto del sistema accusatorio in tutti gli altri ordinamenti giuridici.

La prima interpretazione è frutto di una visione gattopardesca, che ben si sposa con l’atteggiamento burocratico, autoreferenziale e attento solo agli aspetti quantitativi, affermatosi in alcuni settori del mondo della giustizia in una fase storica che ha visto crescere vertiginosamente la sfiducia dei cittadini nella magistratura[2].

La seconda interpretazione è il frutto della volontà di prendere sul serio la nostra Costituzione, di realizzare un “processo di persone” (e non di carte), di restare fedeli ai principi di civiltà affermati con forza dalla cultura giuridica italiana e divenuti patrimonio comune di moltissimi paesi.

Un discorso analogo può farsi per la nuova regola di giudizio, fondata sulla ragionevole previsione di condanna, che sarà posta alla base della scelta di proseguire il processo non solo nell’udienza preliminare, ma anche della nuova udienza di comparizione predibattimentale introdotta nei procedimenti a citazione diretta.

La formula non è in sé decisiva. Tutto dipende dalla sua interpretazione, e, in ultima analisi, dalla cultura comune della magistratura e dell’avvocatura.

La sentenza di non luogo a procedere, anche quando viene adottata dal giudice dell’udienza predibattimentale, potrebbe rimanere un caso-limite, potrebbe restare chiusa entro gli stessi confini logico-giuridici che finora ne hanno ridimensionato pesantemente la valenza selettiva all’interno dell’udienza preliminare, notoriamente caratterizzata da una scarsa capacità di filtro unita ad un pesante effetto di prolungamento dei tempi complessivi del processo.

Oppure, al contrario, la sentenza di non luogo a procedere potrebbe trasformarsi in uno strumento utilissimo per migliorare contemporaneamente la qualità e i tempi della giustizia, avvicinando il processo al fatto. Per rafforzare la fiducia della società nella magistratura. Per prendere sul serio la riflessione di Carnelutti secondo cui “il processo è di per sé una pena”, e chiedersi conseguentemente se sia accettabile una situazione, come quella attuale, in cui più della metà delle persone sottoposte al dibattimento penale con citazione diretta a giudizio risultano innocenti[3]: una situazione, questa, che rappresenta un unicum nell’ambito dei sistemi accusatori.

Quale direzione prenderà il “diritto vivente”, dipende da noi: dalla nostra capacità di dare un senso profondo alla professione del giudice, di costruire una cultura collettiva che porti nella quotidianità del lavoro giudiziario quell’ampliamento degli orizzonti assicurato dall’apertura alla società e dall’apertura al mondo, di cui parlava André Tunc[4].

Proprio per questa ragione, riteniamo essenziale aprire una riflessione sulla riforma che parta dal punto di vista di chi sarà chiamato ad applicarla ogni giorno.

Si tratta di un passaggio fondamentale per valorizzare pienamente le potenzialità delle nuove norme, come pure per segnalare al legislatore tutti quei profili di criticità che rischiano di provocare una vistosa eterogenesi dei fini, con un effettivo prolungamento dei tempi processuali.

Emblematico, ad esempio, è il problema nascente dalla mancanza di una disciplina transitoria che chiarisca da quale momento iniziano ad applicarsi le nuove disposizioni relative ad alcuni aspetti qualificanti della riforma, facendo sorgere così una “babele dei linguaggi” che può essere evitata facendo chiarezza con un immediato intervento legislativo.

Un discorso analogo può farsi anche per il processo civile.

Semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile, sono i tre obiettivi posti dalla legge delega n. 206 del 2021, per l’attuazione degli impegni assunti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ovvero riduzione della durata dei procedimenti civili e, dunque, riduzione degli arretrati. La legge delega, attuata attraverso il decreto legislativo n. 149 del 2022, che entrerà in vigore, in parte, a far data dal 1° gennaio 2023, contiene molteplici profili di novità.

Gli interventi, che hanno impattato non solo sul codice di rito ma anche sulla disciplina sostanziale, hanno quale “stella polare” gli obiettivi innanzi indicati della legge delega.

 La modifica e valorizzazione della negoziazione assistita e dei metodi di ADR; la novella del processo ordinario di cognizione anche attraverso la concentrazione di talune fasi; il rafforzamento, nel tentativo di semplificazione dei procedimenti, del procedimento sommario di cognizione; le modifiche del rito d’appello e di Cassazione sempre in ottica acceleratoria; quelle del rito lavoro, esecuzione e volontaria giurisdizione volte a rendere effettiva la semplificazione e l’effettività, sono i diversi ambiti sui quali ha impattato la novella.

Epocale è stata la riforma che ha interessato la giustizia minorile: l’istituzione di un giudice unico dotato di competenze sia in ambito familiare che minorile ha costituito una rivoluzione copernicana in questo settore dove, accanto alla riforma processuale si è posta anche quella ordinamentale, dettata dalla genesi di questa nuova figura di giudicante.

La riforma del settore civile non ha interessato solo questi ambiti ma ha investito anche i profili del processo civile telematico; sistema ormai sperimentato ma bisognevole di interventi di restyling normativi dettati dall’evoluzione delle tecnologie e dalla necessità di riordino di una materia regolata dalla legislazione speciale, stratificatasi in questi anni.

 L’eredità della pandemia e la sperimentazione di forme di trattazione alternativa rispetto alla celebrazione dell’udienza con la presenza delle parti, infine, hanno determinato la positivizzazione di tali forme di trattazione con innumerevoli problemi di adattamento, ad esempio, della modalità di cui al nuovo art. 127 ter c.p.c. con i riti non ordinari.

Last but non least, la scelta normativa di intervenire sui principi generali del processo, sulla dimensione valoriale dello stesso, sulla struttura degli atti e sul comportamento delle parti.

L’analisi approfondita della riforma del processo penale e civile da parte di tutti i magistrati, partendo dalla loro esperienza concreta, può rappresentare una grande occasione di riscoperta della dimensione culturale dell’attività giudiziaria e di convinta applicazione di quel principio di leale collaborazione che, secondo la Corte costituzionale, deve sempre permeare di sé il rapporto tra poteri dello Stato.

Un principio che presuppone certamente il reciproco rispetto e la salvaguardia dei rispettivi limiti costituzionali, ma non si esaurisce in questi aspetti e richiama, piuttosto, l’idea di una sinergia, di un esercizio coordinato delle competenze delle diverse istituzioni per la realizzazione di obiettivi comuni.

Era questa la prospettiva in cui mostrava di credere, con un coraggio veramente straordinario, in uno dei momenti più difficili della storia del nostro paese, Giovanni Falcone, che alla fine del 1984 scriveva: “ritengo che anche questo tremendo banco di prova per le istituzioni democratiche potrà risolversi in un importante fattore di crescita per la società civile e per la stessa funzionalità complessiva dell’apparato statuale. Dalla iniziale separatezza tra i diversi organismi preposti alla repressione del fenomeno mafioso si è passati in pochissimi anni, superando ostacoli e incomprensioni di ogni genere, a un clima di collaborazione e di reciproca fiducia impensabile fino a poco tempo addietro. E tutto ciò è avvenuto nel pieno, rigoroso rispetto dei reciproci limiti costituzionali”.

Nelle parole di Giovanni Falcone non c’è solo la testimonianza di una grande esperienza professionale: c’è anche, e soprattutto, un importantissimo messaggio per il futuro. La dinamica della costruzione di un’Europa dei diritti richiede che tutta la magistratura (quella di merito al pari di quella di legittimità) sia coinvolta a pieno titolo – con la sua competenza tecnica, il suo patrimonio di valori, la sua attitudine innovativa – nella elaborazione di un progetto comune, capace di colmare il solco che, da troppi anni, allontana il mondo della giustizia italiano dalle attese della società civile e della comunità internazionale.

È questo il percorso che il nostro Centro Studi intende portare avanti, nello stile di un grande magistrato, e un grande uomo, come Nino Abbate, che il 19 gennaio 1988, quando era in gioco una scelta fondamentale per il futuro della lotta alla mafia, seppe fare una scelta netta, restando in minoranza per mantenersi fedele ai suoi ideali, alla sua visione della giustizia. La storia gli ha dato ragione. Oggi le sue idee continuano a vivere in tanti colleghi, cui va la nostra gratitudine per il contributo che hanno accettato di offrire al dibattito pubblico sulla nuova stagione di cambiamento della giustizia nel nostro Paese.

Siamo grati a tutte le magistrate ed i magistrati che hanno voluto, generosamente, offrire il loro contributo nella realizzazione di questa mini-raccolta di scritti che costituiscono  brevissime riflessioni “a caldo” sulle singole disposizioni novellate ovvero sugli istituti riformati, anticipando le  questioni che, verosimilmente, si porranno non appena le disposizioni entreranno in vigore.

Auspichiamo che vi possa essere l’implementazione della stessa attraverso altri contributi, segno della consapevolezza che la stagione del cambiamento è affidata a tutti gli operatori della giustizia che devono, necessariamente, cooperare, come plasticamente risalta nell’ l’Allegoria del Buon Governo di A. Lorenzetti in copertina, per poter affrontare il futuro in un’ottica diversa ed assicurare la realizzazione dell’interesse generale.

Il direttore del Centro Studi “Nino Abbate” – Antonio Balsamo

La segretaria del Centro Studi “Nino Abbate”- Valentina Ricchezza


[1] cfr. M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia (profili processuali), in Sistema Penale, 2 novembre 2022

[2] La sfiducia ha raggiunto il suo massimo storico nel 2016, quando il 59% delle persone intervistate nell’ambito di un accurato sondaggio condotto sul tema ha dichiarato di non avere fiducia nella magistratura italiana; sei anni prima, nel 2010, solo il 28% dichiarava di non avere fiducia. Negli anni successivi, purtroppo, non si è registrato un recupero significativo: infatti anche nel febbraio 2022, il 56% degli intervistati dichiarava di non avere fiducia nella magistratura. Cfr. N. Pagnoncelli, Sondaggio giustizia, sui referendum quorum difficile. Fiducia nei magistrati ai minimi, in Corriere della Sera, 19 febbraio 2022.

[3] Dall’ultima relazione sull’amministrazione della giustizia del Presidente della Corte di Cassazione si desume che nell’anno giudiziario 2020/2021 il 54,8% dei processi di primo grado introdotti dalla citazione diretta a giudizio si sono conclusi con l’assoluzione.

[4] A. Tunc, Sortir du néolithique (Recherche et enseignement dans les Facultés de droit), in Recueil Dalloz de doctrine, de jurisprudence et de législation, 1957, Chroniques, p. 71 ss.

INDICE DEGLI ARTICOLI

Primissime riflessioni operative a margine della riforma del processo civile

Primissime considerazioni a margine della riforma del processo penale

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